Misero me! che volli, Quando primier sì fiso Gli tenni nel bel viso, Per iscolpirlo, immaginando, in parte Ne so ben anco che di lei mi creda. Dal mattino alla sera T'ha fatto di mia schiera, Tu non vorrai mostrarti in ciascun loco; E d'altrui loda curerai sì poco, Ch'assai ti fia pensar di poggio in poggio Come m'ha concio 'l foco Di questa viva petra ov'io m'appoggio. SONETTO XXXV. - 42. Brama d'esser cangiato in sasso, piuttosto che menar la vita in tanti affanni. Poco era ad appressarsi agli occhi miei La luce che da lunge gli abbarbaglia, Che, come vide lei cangiar Tessaglia, Così cangiato ogni mia forma avrei. Es' io non posso trasformarmi in lei O di diamante, o d'un bel marmo bianco E sarei fuor del grave giogo ed aspro; Solo a vederla bagnare un velo, diveniva Non al suo amante più Diana piacque Descrive un suo viaggio amoroso. I pericoli lo arrestano, e ritorna indietro. Perch' al viso d'Amor portava insegna, Mosse una pellegrina il mio cor vano; Ch'ogni altra mi parea d'onor men degna. E lei seguendo su per l'erbè verdi, Udii dir alta voce di lontano: Ahi quanti passi per la selva perdi. Allor mi strinsi all'ombra d'un bel faggio Tutto pensoso; e rimirando intorno, Vidi assai periglioso il mio viaggio: E tornai 'ndietro quasi a mezzo il giorno. Credevasi libero d'amore, e conosce d'essersene rinvescato sempre più. Quel foco ch'io pensai che fosse spento Dal freddo tempo e dall' età men fresca, Fiamma e martir nell'anima rinfresca. Non fur mai tutte spente, a quel ch'i' veggio, Ma ricoperte alquanto le faville: E temo no 'l secondo error sia peggio. Per lagrime, ch'io spargo a mille a mille, Conven che 'l duol per gli occhi si distille c'ha seco le faville e l'esca, Dal cor, Non pur qual fu, ma pare a me che cresca. Qual foco non avrian già spento e morto Tradito e deluso dalle promesse di Amore, mena la vita più dogliosa che prima. Se col cieco desir, che 'l cor distrugge, Contando l'ore non m'ingann' io stesso, Ora, mentre ch'io parlo, il tempo fugge Ch'a me fu insieme ed a mercè promesso. Qual ombra è sì crudel che 'l seme adugge Ch'al desiato frutto era sì presso? E dentro dal mio ovil qual fera rugge? Tra la spiga e la man qual muro è messo? Lasso, nol so, ma sì conosco io bene Che, per far più dogliosa la mia vita, Amor m'addusse in sì gioiosa spene. Ed or di quel ch'i' ho letto mi sovvene: Che innanzi al dì dell'ultima partita Uom beato chiamar non si convene. Amore lo amareggia e di troppo, e non può gustar più le sue rare dolcezze. Mie venture al venir son tarde e pigre, La speme incerta; e 'l desir monta e cresce; Onde 'l lassar e l'aspettar m'incresce: E poi al partir son più levi che tigre. Lasso, le nevi fien tepide e nigre, E'l mar senz'onda, e per l'alpe ogni pesce, E corcherassi 'l Sol là oltre ond'esce D'un medesimo fonte Eufrate e Tigre. Prima ch'i' trovi in ciò pace nè tregua, O, Amor o Madonna altr'uso impari; Che m'hanno congiurato a torto incontra: E s'i'ho alcun dolce, è dopo tanti amari, Che per disdegno il gusto si dilegua. Altro mai di lor grazie non m'incontra. |