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Sola va dritta, e 'l mal cammin dispregia.
Ed egli: Or va', chè il Sol non si ricorca
Sette volte nel letto, che il Montone
Con tutti e quattro i piè copre ed inforca,
Che cotesta cortese opinione

Ti fia chiovata in mezzo della testa

Con maggior chiovi che d'altrui sermone;

Se corso di giudicio non s'arresta.'

Quanta parte di queste lodi si viene al marchese di Giovagallo, e quanta a quello di Villafranca ? Il tempo segnato da Corrado il giovine, nel quale Dante aveva a sperimentare la cortesia de' Malaspini in Lunigiana, corre dall'aprile 1306 all'aprile 1307, ed accenna evidentemente all'andata di Dante in Lunigiana ai marchesi di Mulazzo e di Villafranca alla fine del 1306. Queste lodi perciò non vanno al marchese di Giovagallo; e più verremo in questa sentenza, ove guarderemo per poco all' albero genealogico di questa famiglia. Da Federico, figlio di Corrado l'antico e marchese di Villafranca, nasceva Corrado il giovine ed Obicino. Da Obicino poi nacquero i fratelli Corradino e Moroello, ospiti di Dante in Lunigiana nel 1306. Le lodi perciò, che noi qui sopra leggemmo nell' VIII Canto del Purgatorio, sono dirette particolarmente a questi nipoti di Corrado il giovane ed ospiti cortesissimi di Dante, e non al Moroello di Giovagallo che non discendeva da Corrado il giovane, non era in Lunigiana nel 1306, non ivi accolse in quell'anno la nostra Musa Maggiore. Ma nella lettera, della quale ora parliamo, e che va senza meno riferita alla fine del 1306, ovvero ai principii del 1307, Dante dice di essersi poco prima partito dalla Corte di Moroello Malaspina, e per la costui cortesia dimostrasi dai sensi di gratitudine dominato. Egli perciò scrive non ad altro Moroello che al marchese di Villafranca, e ricorda quella stessa cortesia de' Malaspini, della quale più tardi fece le magnifiche lodi nel Purgatorio. E chi non dirà che Dante volle dedi

Purgatorio, VIII, 127. Corrado fu marito della Cerretta, ospitò Madonna Beritola ed i Capece di lei figliuoli. Sua figlia Spina sposò nel 1282 Giuffredi Capece figliuol d'Arrighetto che in nome di Manfredi resse la Sicilia. Vedi BOCCACCIo, Giorn. II, nov. VI.

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care o dedicò più tardi il Purgatorio a questo medesimo signore magnifico, del quale ivi parlò con tanta lode, come nel 1314 a Cane della Scala dedicava il Paradiso, del quale Cane e di lui fratello Bartolomeo quella Cantica contiene le lodi? E come non voler dedicare una Cantica della Divina Commedia a questo Moroello che lo avea confortato a continuare quell'opera, non lasciata in dimenticanza, ma per qualsivoglia cagione lasciata imperfetta?

§ XII. - Il Boccaccio e Filippo Villani dicono che Dante volea dedicare il Purgatorio a Moroello Malaspina di Villafranca. Tale tradizione è confermata dalla lettera di frate Ilario del Corvo ad Uguccione della Faggiuola, ed anche da quanto abbiamo discorso in questo Capitolo. Ma tale dedicazione fu realmente fatta? Chi ne dubita e chi lo nega. Per me che vado alla buona, non so dubitarne, perchè: 1° frate Ilario del Corvo nella sua lettera ad Uguccione della Faggiuola non include alcun dubbio, mentre l'include per la dedica del Paradiso a Federico re di Sicilia,1 il quale dubbio si fa poi certezza di fatto sì per la dedica del Paradiso a Cane della Scala, e sì pei biasimi gittati sopra Federico di Sicilia tanto nel Purgatorio quanto nel Paradiso; 2° dopo il proponimento di dedicare il Purgatorio, manifestato a frate Ilario del Corvo, Dante proseguiva ad essere grato e benevolo al Malaspina, perchè appunto ne favellò sì teneramente, e pur nel 1314 ricorda con affetto e con alta lode il Pastore Lunense (Antonio Malaspina) che solo non era dato a cupidigia.2

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Ed or che diremo dell' altra tradizione pel conforto dato da questo nostro Moroello a Dante, perchè proseguito avesse opera della Divina Commedia? Il Troya dice esser questa una opinione nata da vaghi rumori sorti in Val di Magra, ed esser cosa bestiale il credere a siffatti rumori. Ciò è troppo, ma il Troya in parte ha ragione, e per me non credo che la Divina Commedia fosse stata cominciata in

Ecco le sue parole: Ab egregio viro Domino Moroello Marchione secundam partem, quæ istam sequitur, requiratis, et apud illustrissimum Federicum regem Sicilie poterit ultima inveniri.

2 Vedi la Epistola a' Cardinali.

italiano prima del 1306, cioè prima che Dante fosse andato in Lunigiana. Perciò vogliamo in parte accostarci all' opinione del Troya, ed in parte ce ne dobbiamo allontanare. E qui non possiamo fare a meno di confessarci immensamente grati a questo gentilissimo Moroello e suoi parenti, per essere stati tanto cortesi al nostro più grande Poeta, e per averlo potentemente stimolato a darci (almeno in italiano) il più grande poema del mondo, con pace dell'uno e dell' altro Omero e di Virgilio. Ma ciò sarà più convenientemente provato nella Cronologia della Divina Commedia.1

CAPO IV.

La lettera a Moroello è del 1306 o dei principii del 1307.

§ XIII. Il Troya dice che questa lettera era stata fatta del 1307 per alcuni sulla falsa credenza d'essersi tenuto in giugno del 1307 il congresso nel coro di San Godenzo. Ma già si vide, egli aggiunge, che tennesi nel 1304; e perciò riferisce questa lettera al 1311, come il Witte al 1310. Però pare che a rimuovere le difficoltà che nascono dal porre questa lettera nel 1310 ovvero 1311, il Torri ed il Fraticelli vollero riferirla con maggior prudenza al 1307; e questa data non si distrugge dal perchè si tenne presto o tardi un congresso nel coro di San Godenzo. Contra la conclusione del Witte e perciò pure contra quella del Troya sta bene ciò che dice il Fraticelli con queste parole: << Non pose mente il Witte all' argomento della lettera, argomento che, come sopra lo avvertimmo, ingenera dubbiezza che potesse ella essere inviata ad un vecchio soldato; non avvertì che pur un altro Moroello (quello di Villafranca) amico di Dante, viveva allora in Lunigiana; e non considerò, come nel 1310, dopo un anno o due che Arrigo era

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Il Tommasèo sta per un altro Moroello, figlio di Alberto e marchese di Trebbia. Lo vorrebbe vicario imperiale di Brescia nel 1312, e quello, cui forse Dante, secondo la lettera di frate Ilario, dedicava il Purgatorio. Ma il Tommasèo doveva prima risolversi sulla data della lettera di frate Ilario, perchè confessa quel Moroello esser già morto nel 1312 e forse prima del 1207.

stato eletto imperatore, e che era in sulle mosse per discendere in Italia, quando cioè le speranze de' Ghibellini si erano riaccese, e quando Dante scriveva la nota sua lettera ai principi e popoli d'Italia, non avrebbe tenuto discorso col Malaspina, qualunque egli fosse o quello di Giovagallo o quello di Villafranca, della bella Casentinese e del suo innamoramento, nè avrebbe espresso il concetto di aver deposto le armi, e di essersi rassegnato al suo acerbo destino:

O montanina mia canzon, tu vai:

Forse vedrai Fiorenza, la mia terra,
Che fuor di sè mi serra,

Vôta d'amore e nuda di pietate.

Se dentro v'entri, va' dicendo: Omai
Non vi può fare il mio signor più guerra;
Là d'ond'io vegno, una catena il serra
Tal, che, se piega vostra crudeltate,
Non ha di ritornar più libertate.

Ma per quali argomenti riferisce il Troya al 1311 questa lettera? Per l'uno de' versi appunto posti qui sopra. Il verso:

Non vi può fare il mio signor più guerra,

svela al Troya l'intenzione occulta dell' Alighieri nella canzone detta l'Alpigianina, e ferma la data sì della lettera come della canzone ai principii del 1311. Dante voleva tornare a casa, dice il Troya, e voleva tornarsi per grazia. Riferisce perciò queste parole poste da Leonardo Bruni di Arezzo nella Vita di Dante: « Essendo in questa speranza di ritornare PER VIA DI PERDONO, sopravvenne l'elezione di Arrigo di Luzimborgo imperatore; per la cui elezione prima, e poi per la passata sua, essendo tutta Italia sollevata in speranza di grandissime novità, Dante non potè tenere il proposito suo dell'aspettare grazia, ma, levatosi coll'animo altiero, cominciò a dir male di quelli che reggevano la terra, appellandoli scellerati e cattivi, e minacciando loro la debita vendetta.... Di qui si scorge, soggiunge il Troya, che la lettera è dei cominciamenti del 1311, allorchè Dante dopo la passata d' Arrigo ancor contenevasi ed aspettava la grazia. Il suo lungo soggiorno fuori d'Italia, e l'essersi dedi

cato agli studi della Teologia e della Filosofia gli davano il diritto od il pretesto d'affermare nella canzone, ch'egli non potea più far guerra a Fiorenza.1

Ma le parole del Bruni sono contrarie alla induzione fatta dal Troya, perchè Dante dopo la passata di Arrigo non potè tenere il proposito d'aspettare la grazia, essendosi levato coll'animo altiero. E di fatto lo stesso Troya dice che al sentire la prossima venuta di Arrigo, Dante scrisse alla fine del 1310 il VI e VII Canto del Purgatorio, che non mostrano affatto un animo che ancor si contenga ed aspetti la grazia (quei canti però furono scritti prima e forse fin dal 1308); e pur lo stesso Troya crede, benchè per erronea interpretazione della epistola presente, che Dante fosse tornato feroce dopo il lungo esilio. E certo alla fine del 1310 Dante non aspettava la grazia, scrivendo la Epistola ai principi e popoli d'Italia, ed allora o meglio a' principii del 1311 la bellissima canzone:

O patria, degna di trionfal fama.

E molto meno aspettava la grazia ai principii del 1311, quando l'ira sua maggiormente ribolliva e traboccava indi nella fierissima epistola a' Fiorentini.

Ed in qual modo il lungo soggiorno in Parigi ed i fatti studi di Teologia gli davano il dritto od il pretesto di dire che non potea più far guerra a Fiorenza? Per me nol comprendo, mentre comprendo bene la ragione postane nella stessa canzone, che Dante serrato d'una catena amorosa in mezzo alle Alpi non avea più libertà di tornare a casa nè per grazia nè per guerra, e questa guerra, che più non potea fare, era quella già intrapresa o minacciata co' Bianchi negli anni precedenti a Fiorenza.2

§ XIV. È strana la interpretazione di alcuni della lettera a Moroello fatta dal Troya per sostenere che questa lettera fosse stata scritta dopo il ritorno da Parigi. Dante

Veltro allegorico de' Ghibellini, pag. 145 e 146.

Ai principii appunto del 1307 l'Alighieri, scrivendo il secondo libro della Volgare Eloquenza, c. VI, manifesta il suo desiderio di tornare in patria, e la piena speranza che gliene rideva.

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