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nell'Italia di tempo fa, dove quei d'una provincia erano quasi stranieri all' altra. Quanti che avrebbero potuto operare grandi cose, ed esser meritevoli d'ogni onoranza, dovettero passare ignorati o travolti nella miseria per capriccio della fortuna e malignità degli uomini !

Uno di questo infelice numero fu Panfilo Serafini, da diciott' anni già morto; nè è maraviglia che ai più giunga nuovo il suo nome, o che sia forse dimenticato. Accennerò soltanto qualche notiziola e per che modo sia toccato all'umile mia persona un sì pietoso ufficio, lasciando raccomandate alla carità dei biografi le sue sventure, alla cui grandezza sol pari furono l'ingegno e la modestia di lui. Per quanto e' sentisse bassamente di sè, la sua patria Sulmona, anzichè d'un semplice letterato, se ne pregiava come d'un sapientissimo, e per tale egli diedesi a conoscere nell' esercizio di pubblico insegnamento e negli scritti che mise alla luce, ancor giovane, in Napoli, sopra materie di filosofia, archeologia e storia, ammirati perfino dalla dotta Germania. Ma ciò che maggiormente dovrebbe a noi render caro e venerato il suo nome, è l'amor della patria, che, unito a quello della virtù, come tenne sempre nella più viva parte del cuore, così lo dimostrò costantemente nelle opere; e per colpa sì bella fu dal Governo della più schifosa tirannide condannato per venti anni ai ferri. Panfilo Serafini è uno de' grandi martiri del nazionale risorgimento. Nè le aure della libertà ch' ei potè al

fine respirare nella patria redenta, valsero a restaurar le sue forze abbattute da inauditi patimenti negli ergastoli del Borbone, ove compagno al Poerio, al Settembrini e allo Spaventa giacque incatenato alla rinfusa con la feccia de' malfattori; e di soli quaranzett'anni finì per sempre di penare. Se l'Italia s'accorse appena d'una perdita sì grande, alto lutto ne menò la cittadinanza di Sulmona, che all' onesto popolano, all' insigne maestro, al martire della patria celebrava solenni esequie con funebre orazione di Donato Matriangeli; ed oggi sulla pietra del suo riposo leggesi un' epigrafe che riferiamo qui appresso,1 dettata dall'illustre cassinese Luigi Tosti. Occorre un altro progresso (diceva in un suo scritto un altro sommo Italiano, testè morto povero, Paolo Gorini), occorre che s'impari ad onorare gli uomini grandi, piuttosto durante la vita, che dopo la morte; ed io confido che anche questo verrà.

Fortuna pel Serafini e per le lettere italiane, che innanzi al morire gl' ispirasse il cuore di affidare il suo manoscritto sul Canzoniere di Dante Alighieri ad un amico de' più provati. E mi perdoni la modestia d'un altro Sulmonese chiarissimo, se di necessità debbo qui registrare il nome di Leopoldo Dorrucci, che non solo custodì religiosamente l' affidatogli pegno, ma volle ancora a proprie spese tramandarlo ai posteri con la stampa. Affaccendato come del continuo

1 Vedi pag. XIV.

egli è da gravi cure in patria per l'indirizzo degli studi, e dall' erculea impresa di darci tradotte in versi tutte le opere latine del suo concittadino Publio Ovidio, delle quali apparve già il primo volume con I Fasti e Le Eroidi, ed è sotto i torchi il secondo con Le Metamorfosi; diede a me l'incarico di assistere all' edizione dell' opera serafiniana pe' tipi del Barbèra e qualora un paziente studio e la più scrupolosa diligenza abbiano alcun pregio in cosiffatti libri, spererei di aver corrisposto, secondo le mie corte forze, alla fiducia di che piacque a lui d' onorarmi.

Un' opera postuma non è mai priva di serie difficoltà per chi accingesi a pubblicarla, massimamente poi questa, che per essere stata messa insieme negli orrori del carcere, sentiva forse il bisogno d'altre cure per le citazioni manchevoli o errate, per gli opportuni riscontri che rimanevano a farsi, e per la dicitura a volte astrusa e antiquata. A ciò si aggiungono un autografo poco intelligibile, una copia d'altra mano molto spropositata, e non di rado i richiami delle note mal rispondenti al testo, e un nuovo ordine assegnato ai diversi componimenti, riuniti insieme, del Canzoniere e della Vita Nuova. La stessa libertà, illimitatamente concessami nella correzione, mi ritenne piuttosto di qua dai termini d' una giusta misura; anzi per non alterare possibilmente la distintiva impronta dello scrittore, sol mi restrinsi a render più chiara e semplice qualche frase, ovviare a qualche improprietà di vocabolo; e dove ancora du

bitavo di comprendere, sono andato sempre a rilento nel mutare, ma non ho mancato mai di esatti raffronti sin dove mi si offrisse il destro di poter farli, valendomi a tal uopo, nei punti più dubbi, anche dell' intelligente operosità di Piero Barbèra, a cui era pur dovuto un cenno di stima.

Fu già per altri asserito che Dante, se ancora non ci avesse lasciate le tre cantiche del suo divino poema, sarebbe tuttavia il primo poeta d'Italia, da non cedere nella lirica al medesimo Petrarca, di cui certe figure (come osserva il Ginguené), certe forme di stile, certe maniere passionate che si credevano tutte proprie di lui, erano state gran tempo innanzi ispirate a Dante da un sentimento forse più profondo e da un amore altrettanto verace. Laonde maravigliavasi a ragione il Muratori, la cui valida autorità fu ancora citata dal Fraticelli, dell' aver tanti spositori solamente rivolto il loro studio ad illustrare la Divina Commedia, senza punto darsi cura de' componimenti lirici, dove risplende qualche virtù che non appar troppo spesso nel maggior poema. Ora non si potrebbe più dir così, mercè delle fatiche benemerite che vi spesero assai valentuomini, e in particolare il già ricordato Fraticelli e il Giuliani. Restava però da far ancora qualcosa, per non dir molto, intorno al Canzoniere dantesco, e si pose in cuore di farla il nostro Serafini.

In ciò consiste la somma del suo lavoro. Tre Dissertazioni trionfalmente ragionate sugli amori di

Dante argomento della 1a gli amori con Beatrice Portinari, della 2a amori allegorici e rime filosofiche, della 3 gli amori con Gentucca degli Antelminelli. Il tutto è così ben disposto e concatenato, che non lascia più veruna credibilità a un infinito numero di opinioni disparatissime che si avevano sul conto del fiorentino poeta e su i vari subbietti delle sue rime. La prova de' fatti scaturisce limpida dall' esattezza e ragguaglio delle date, dalla giusta interpretazione de' documenti, dall' acume delle osservazioni, dalla dirittura del raziocinio. Chi avesse voluto sapere il netto degli amori danteschi, non c'era proprio da raccapezzarsi. Povero Dante! Alcuni ne fecero un Don Giovanni Tenorio, presentandocelo innamorato, dopo morta Beatrice, non soltanto della famosa Gentucca, ma d'una Casentinese ancora e di Alagia del Fiesco, moglie a Moroello Malaspina; poi d'una Bechina, d'una Selvaggia, d'una Bolognese e d'una Padovana, madonna Piera degli Scrovigni. Alcuni altri per l'opposto tennero sodo a farne quasi un nuovo Abelardo; ed ogni poesia che non credevasi riferibile a Beatrice, la si voleva riferita per forza alla Filosofia, per non sapersi dir altro. Forse Dante, dalla morte di Beatrice fino al 1307, non amò veruna donna, eccettuatane, se non vogliamo fargli un gran torto, la Gemma Donati, che lo rese padre di sette figli; ma essendo di sua natura, com' egli dice, trasmutabile per tutte guise, con quella vena di poesia che gli bolliva nel petto, e con tutti que' suoi pensieri

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