AL CANTO XI. Per chi è già tra i beati, esser denno soggetto di pietoso disdegno le cure degli uomini, che ponendo fede nelle cose di quaggiù, sudano ansiosamente dietro loro, e s'affannano. Però, trovandosi Dante colassù, compiange i traviamenti del mondo: e volto quindi a pensieri migliori, è richiamato dall'anima di Tommaso perchè ascolti appianarsi due dubbi onde aveva ingombrata la mente. Egli dunque non intendeva che avesse voluto significare il sapiente d'Aquino là ove, parlando dell'ordine Domenicano, disse nel Canto precedente che ivi ben s'impingua se non si vaneggia: nè vedeva quanto fosse conforme al vero ciò che poco dopo soggiunse lo spirito benedetto, rapporto a Salomone, quando assicurò che a veder tanto, quant' egli, non surse il secondo. Il perchè, rispondendo in questo Canto al primo dubbio, tesse Tommaso la vita di San Francesco d'Assisi, e rileva com'egli si fe' glorioso per la povertà professata con voti solenni, e mantenuta costantissimamente fino alla morte. Poi argomenta da ciò qual convenne che fosse il compagno di lui San Domenico, destinato da Dio a regger con esso la navicella di Piero; e si rammarica perchè i discendenti di tanto patriarca si discostino dagli esempi di lui, e vadan soggetti a brighe diverse. No, per altra via non puòssi arricchir lo spirito nello stato monastico, che quella bat tendo della povertà, per cui s'avviarono quegl'insigni maestri. Per la qual cosa, conchiude Tommaso, potrà ora intendersi dal Correggiero (così chiama i religiosi Domenicani dalla correggia onde si cingono) che cosa volli dire con quelle parole: U'ben s'impingua, se non si vaneggia; perocchè allora soltanto si cammina in perfezione, quando nè vanità di cariche nè amor di tesori guastano il cuore di coloro che abbracciaron la vita claustrale. insensata cura de' mortali, Quanto son difettivi sillogismi Quei che ti fanno in basso batter l'ali! Chi dietro a iura, e chi ad aforismi 4 E chi regnar per forza e per sofismi, 7 E chi rubare, e chi civil negozio, Chi, nel diletto della carne involto, TOMO 111. רי Quando, da tutte queste cose sciolto, Con Beatrice m' era suso in cielo 10 Poi che ciascuno fu tornato ne lo 13 Punto del cerchio, in che avanti s' era, Fermossi come a candellier candelo. Ed io senti' dentro a quella lumiera, Così com' io del suo raggio m'accendo, 16 19 Li tuoi pensieri onde cagioni, apprendo. Tu dubbi, ed hai voler che si ricerna 22 In sì aperta e si distesa lingua Lo dicer mio, ch' al tuo sentir si sterna, Ove dinanzi dissi: U' ben s' impingua, 2.5 E là u' dissi: Non surse il secondo; E qui è uopo che ben si distingua. La provvidenza, che governa il mondo Con quel consiglio, nel quale ogni aspetto 28 Perocchè andasse ver lo suo diletto La sposa di Colui, ch' ad alte grida 31 In se sicura ed anche a lui più fida, 34 Duo Principi ordinò in suo favore, Che quinci e quindi le fosser per guida. L'un fu tutto serafico in ardore, 37 L'altro per sapïenza in terra fue Di cherubica luce uno splendore. Dell' un dirò, perocchè d' ambedue Si dice l'un pregiando, qual ch'uom prende, Perchè ad un fine fur l'opere sue. Intra Tupino, e l'acqua che discende Del colle eletto dal beato Ubaldo, Fertile costa d' alto monte pende, Onde Perugia sente freddo e caldo Da porta Sole, e dirietro le piange 40 43 46 Per grave giogo Nocera con Gualdo. Di quella costa, là dov' ella frange 49 Più sua rattezza, nacque al mondo un sole Come fa questo tal volta di Gange. |