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326 DEL PARADISO CANTO XXVIII.

E se tanto segreto ver profferse

Mortale in terra, non voglio ch' ammiri ;
Chè chi il vide quassù gliel discoverse

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AL CANTO XXIX.

Dappoichè Beatrice lesse i desiderj dell'amico suo nel punto luminosissimo, dal quale raggiava l'essenza divina, imprende a ragionargli della creazione. Adunque, non per aver bisogno d'alcun bene, che a lui mancasse, ma perchè vi fossero conoscitori della sua grandezza, creò Iddio quest'universo, dando l'essere nel medesimo istante agli Angeli, alla materia, alla forma, e assegnando alle creature le convenienti lor sedi. Dal che si riprova la sentenza di coloro, che pensano con San Girolamo, aver Iddio create le sostanze angeliche gran tempo avanti la creazione del mondo, e si mostra essa poco in accordo colle divine Scritture e coll' umana ragione. Ben presto peraltro ebbe luogo la colpa fra gli Angeli; e ben presto fulminato da Dio cadde il superbo Lucifero negli abissi d'Inferno, traendo seco molti dei suoi, che rimasero in gran parte nell'aria inferiore dove turbano lo stato degli elementi, e dove molti danni cagionano: gli Angeli mansueti e fedeli al Creatore, ricevettero da lui la conferma nella divina grazia e trovarono la loro felicità nell'eterna visione beatifica. Di questa guisa ragionava Beatrice intorno alla creazione delle cose; protestandosi che già per quanto aveva udito da

lei, poteva l'Alighieri, senz'altro aiuto, comprender da se medesimo altri misteri toccanti le angeliche schiere. Tuttavolta vuol ella stessa istruirlo sulla questione se diasi memoria negli Angeli; e dice, che vedendo essi tutto in Dio, cui nulla è nascosto, non han d'uopo di ridursi alla mente, siccome noi, verun concetto che siasi già cancellato da quella. Il che vuol dire che ne perdono le apprese cognizioni a misura che loro ne sopravvengono delle nuove, nè hanno memoria simile alla nostra. Laonde rimprovera la Donna e quelli che ai tempi di Dante insegnavano non esser negli Angeli memoria d'alcuna sorta, e quelli che pretendevano in loro la stessa facoltà che abbiam noi. Ma se pur questi son condannabili meno di quelli, è anche più scusabile il fatto di chi s'inganna filosofando, ella soggiunge, che non il fallo di chi non attende la divina Scrittura, o anche a mal senso la torce. Per la qual cosa inveisce contro l'ignoranza e l'avarizia de' Predicanti, che lasciando l'Evangelio da parte, non altro fan sonare sui pergami che profittevoli ciance; poi tornando alle Angeliche intelligenze, ne dice infinito il numero, e diversa la carità, secondo che diversamente ad essi Colui si partecipa, che riflettendo la propria immagine in tante migliaia di specchi, uno sempre ed indivisibil si resta.

CANTO XXIX.

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uando ambeduo li figli di Latona,

Coverti del montone e della libra,

Fanno dell' orizzonte insieme zona,

Quant'è dal punto che il zenit inlibra, 4 Infin che l'uno e l'altro da quel cinto, Cambiando l'emisperio si dilibra,

Tanto, col volto di riso dipinto,

Si tacque Beatrice, riguardando

Fiso nel punto che m'aveva vinto;

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Poi cominciò: Io dico, non dimando

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Quel che tu vuoi udir, perch' io l'ho visto

Ove s'appunta ogni ubi ed ogni quando.

Non per avere a se di bene acquisto,

Ch'esser non può, ma perchè suo splendore

Potesse, risplendendo, dir, subsisto ;

In sua eternità di tempo fuore,

Fuor d'ogni altro comprender com' ei piacque S'aperse in nuovi amor l'eterno amore.

Nè prima quasi torpente si giacque ;

Chè nè prima nè poscia procedette

Lo discorrer di Dio sovra quest' acque :

Forma e materia congiunte e purette

Usciro ad atto che non avea fallo,

Come d'arco tricorde tre saette;

E come in vetro, in ambra od in cristallo
Raggio risplende sì, che dal venire
All'esser tutto non è intervallo;

Così il triforme effetto dal suo sire

Nell' esser suo raggiò insieme tutto,
Senza distinzion nell' esordire.

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