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stero, fu data in moglie ad Arrigo V. Svevo imperatore, e figlio di Federigo Barbarossa. Nacque da questo matrimonio Federigo Secondo: e siccome tant' egli che il padre e l'avo suo furono superbissimi, però è chiamato il terzo vento, vale a dire la terza superbia. Terminato il ragionamento, intuona Piccarda la salutazione angelica, e svanisce per l'aria volgesi Dante a Beatrice, nè potendone sostenere l'aspetto troppo folgorante in confronto dello splendore men vivo che tramandavano le anime le quali avea vedule finora, si trattiene subitamente dall' interrogarla.

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CANTO III.

uel sol, che pria d'amor mi scaldò il petto,

Di bella verità m' avea scoverto,

Provando e riprovando, il dolce aspetto:

Ed io, per confessar corretto e certo
Me stesso, tanto quanto si convenne,
Levai lo capo a profferir più erto.

Ma visione apparve, che ritenne

A se me tanto stretto per vedersi,

Che di mia confession non mi sovvenne.

Quali per vetri trasparenti e tersi,

Ovver per acque nitide e tranquille,
Non si profonde che i fondi sien persi,

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TOMO III.

Tornan de' nostri visi le postille

Debili si, che perla in bianca fronte

Non vien men tosto alle nostre pupille; Tali vidio più facce a parlar pronte,

Perch' io dentro all' error contrario corsi

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A quel ch' accese amor tra l'uomo e il fonte. Subito si com'io di lor m'accorsi,

Quelle stimando specchiati sembianti,

Per veder di cui fosser, gli occhi torsi;

E nulla vidi, e ritorsili avanti

Dritti nel lume della dolce guida,

Che sorridendo ardea negli occhi santi. Non ti maravigliar perch' io sorrida,

Mi disse, appresso il tuo pueri coto,

Poi sopra
il vero ancor lo piè non fida,
Ma te rivolve, come suole, a voto.

Vere sustanzie son ciò che tu vedi,
Qui relegate per manco di voto.
Però parla con esse, ed odi, e credi
Che la verace luce che le appaga
Da se non lascia lor torcer li piedi.

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Ed io all' ombra, che parea più vaga

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Di ragionar, drizzaimi, e cominciai,

Quasi com' uom cui troppa voglia smaga:

O ben creato spirito, che a' rai

Di vita eterna la dolcezza senti,

Che non gustata non s'intende mai;
Grazioso mi fia, se mi contenti

Del nome tuo e della vostra sorte;
Ond'ella pronta e con occhi ridenti:

La nostra carità non serra porte

A giusta voglia, se non come quella Che vuol simile a se tutta sua corte. Io fui nel mondo vergine sorella;

E se la mente tua ben mi riguarda,
Non mi ti celerà l'esser più bella;
Ma riconoscerai ch'io son Piccarda,

Che, posta qui con questi altri beati,
Beata son nella spera più tarda.
Li nostri affetti, che solo infiammati

Son nel piacer dello Spirito Santo,
Letizian, del su' ordine formati.

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E questa sorte, che par giù cotanto,
Però n'è data, perchè fur negletti

Li nostri voti, e voti in alcun canto.
Ond' io a lei Ne' mirabili aspetti

Vostri risplende non so che divino, Che vi trasmuta da' primi concetti. Però non fui a rimembrar festino;

Ma or m'aiuta ciò che tu mi dici, Si che 'l raffigurar m'è più latino. Ma dimmi: Voi che siete qui felici, Desiderate voi più alto loco

Per più vedere o per più farvi amici? Con quell' altr'ombre pria sorrise un poco, Da indi mi rispose tanto lieta,

Ch'arder parea d'amor nel primo foco :

Frate, la nostra volontá quïeta

Virtù di carità, che fa volerne

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Sol quel ch'avemo, e d'altro non ci asseta.

Se disiassimo esser più superne,

Foran discordi gli nostri disiri

Dal voler di Colui che qui ne cerne,

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