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ma tema gli artigli dell'aquila che straziaron s te rivali più forti di lui. Molte volte i figliuoli pagarono il fio per la colpa de' padri loro, e ciò ben potrebbe intervenire anche a Carlo: però non creda egli che Dio tramutar voglia dal romano impero alla Francia la signoria dell' universo. Terminata quest' invettiva, scende Giustiniano a istruir l'Alighieri, esser pieno quel cielo dell'anime di coloro che operarono per lasciar fama dopo di se; la qual intenzione fu loro d'impedimento a innalzarsi più liberamente all'amore del sommo Bene. Per lo che non sortiron esse maggior grado di gloria; ma sono tuttavia contente di quello, si perch' egli è proporzionato a' meriti loro, sì perchè, denudando Iddio le loro affezioni, non hanno stimolo nè d'invidia, nè di presunzione. Conchiude Giustiniano coll'avvisare il poeta, esser ivi fra le altre l'anima di Romeo, del quale pur conta la storia. Costui tornando dal suo pellegrinaggio a San Giacomo di Galizia, capitò in Provenza, ed acconciossi in casa del conte Ramondo Berlinghieri. Qui governando i beni di esso conte, gli accrebbe talmente che quattro figliuole di lui poterono maritarsi a quattro re. Ma posto dagl' invidiosi baroni in odio a Ramondo, partissi quel giusto, e andò mendicando a pezzo a pezzo la vita.

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osciachè Costantin l'aquila volse

Contra il corso del ciel, ch' ella seguio
Dietro all' antico, che Lavina tolse,
Cento e cent' anni e più l'uccel di Dio
Nello stremo d' Europa si ritenne,
Vicino a' monti de' quai prima uscio,
E sotto l'ombra delle sacre penne

Governò il mondo lì di mano in mano,
E si cangiaudo, in su la mia pervenne.
Cesare fui, e son Giustiniano

Che, per voler del primo amor ch'io sento,
D'entro alle leggi trassi il troppo e il vano;

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E, prima ch' io all' opra fossi attento,
Una natura in Cristo esser, non piue,
Credeva, e di tal fede era contento;

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Ma il benedetto Agabito, che fue
Sommo pastore, alla fede sincera
Mi dirizzo con le parole sue.
Io gli credetti, e ciò che suo dir era
Veggio ora chiaro, si come tu vedi
Ogni contraddizione e falsa e vera.

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Tosto che con la chiesa mossi i piedi,
A Dio per grazia piacque di spirarmi
L'alto lavoro, e tutto in lui mi diedi.
Ed al mio Bellisar commendai l'armi,
Cui la destra del ciel fu sì congiunta,
Che segno fu ch' io dovessi posarmi.

Or qui alla quistion prima s' appunta
La mia risposta; ma sua condizione
Mi stringe a seguitare alcuna giunta ;
Perchè tu veggi con quanta ragione

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Si muove contra il sacrosanto legno,

E chi il s'appropria, e chi a lui s'oppone:

Vedi quanta virtù l' ha fatto degno

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Di riverenza, e cominciò, dall' ora

Che Pallante mori per dargli regno.

Tu sai ch'e' fece in Alba sua dimora

Per trecent' anni ed oltre, infino al fine
Che i tre a tre pugnar per lui ancora.

Sai quel che fe' dal mal delle Sabine

Al dolor di Lucrezia in sette regi,

Vicendo intorno le genti vicine.

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