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Finalmente in luogo del numero sei, si trovò segnata la voce AM (sa) corrispondente in qualche modo al greco ε, ed al latino sex (1).

Senza pertanto fare strane congetture, ed entrare in discussioni da cui nulla di certo si potrebbe concludere; non mi estenderò ora più a lungo circa la numerazione etrusca: in seguito, parlando della numerazione romana, dovrò dire qualche cosa che si può riferire anche a quella etrusca con cui essa è strettamente collegata; ed allora si avrà un complemento a quanto ho finora esposto circa la medesima in questo Capitolo.

(Continua)

*IV.

ELEGIA

DE CHRISTO NATO

DI VINCENZO MONTI

VOLGARIZZATA

DA GIOVANNI MONTI

Tutti i biografi di Vincenzo Monti ci raccontano come giovinetto nel Seminario di Faenza egli imparasse assai bene e assai per tempo la lingua di Virgilio e di Orazio, e come sortito da natura quella divinæ particulam auræ che prorompe a poesia, si desse al verseggiare improvviso. Rivoltosi peraltro, per consiglio de'savi precettori, allo scrivere meditato, compose alcune soavi ed eleganti elegie, delle quali si legge onorato ricordo nell'Emilia dell'abate Girolamo Ferri, gran latinista del secolo scorso, maestro e amico dello stesso Vincenzo. E non pure di queste elegie è a noi venuta memoria,

(1) M. A. MIGLIARINI, ivi.

Nell'articolo inserito nell'Archivio Storico, procurasi di mostrare l'analogia delle parole numeriche etrusche con quelle sanscrite: non vi ha dubbio che il sanscrito, l'etrusco ed il greco abbiano una comune origine; ma la corrispondenza delle suddette parole non sempre apparisce. Noto questo per indicare la ragione per cui non ho riportato nel testo le parole sanscrite citate dal Migliarini.

Vedi pure BULLETTINO dell' Istituto di Corrispondenza Archeologica. Roma, 1848, 60.

ma altresì d'un carme in esametri latini per le nozze Maradi-Pasi, che si sarebbe pubblicato nel 1770, quando cioè Vincenzo sedicenne era ancora nel Seminario. Ma questa poesia oggidì è sconosciuta, e sapendosi inoltre essere riuscite vane alcune ricerche fatte in Faenza ed altrove per ritrovarla, è nato dubbio se veramente fosse stata mai posta in luce, o soltanto manoscritta, tanto più che il Monti stesso ci fa sapere che nel 1776 fu la prima volta ch'egli ebbe la «< miserabile compiacenza » di vedere stampato il suo nome nel Capitolo la Visione d'Ezechiello.

L'unica elegia pertanto che si conosca, lavoro di quegli anni giovanili, si è quella intitolata de Christo nato, preziosissima gemma adorna di frase elegante, di verso facile e dignitoso, d'idee lucide e svolte con crescente e tenero affetto, tanto che ci prova come il poeta si sentisse fin d'allora inspirato a quella mirabile schiettezza e a quel vivo splendore di forma, che poi doveva essere la più bella dote della sua musa. Apparve da prima quest'elegia nel Saggio di Poesie dell' abate Monti, edito a Livorno l'anno 1779, ove tuttavia era corso un errore di quantità nel verso 42° leggendosi:

Necteret, in tepido deponeretve sinu.

Ora in un esemplare, conservato nella biblioteca della famiglia Trivulzio in Milano, vi è autografa questa correzione:

Necteret, aut tepido poneret ille sinu,

adottatasi di poi nell' edizioni successive.

>>

>>

Del rimanente ecco quanto lo stesso Vincenzo ci narra del suo poetar latino e delle sue elegie. Scriveva all'abate Ferri i 5 luglio 1774 da Fusignano « Dacchè sono in patria » non ho ancora fatto sentire alla penna l'odore dei versi >> latini, ma se Apollo non si disgusta, vo' terminare le mie elegie. Quando non possa esserle di disturbo la terrò ragguagliata di quanto andrò canterellando sul colascione. » Scrivendo non guari dopo all'abate Francesco Leopoldo Bertoldi, valente antiquario, diceva: «Non è molto che io coram pluribus e donne e preti, feci un sacrificio a Vulcano di >> tutte quante le mie cose poetiche, non perdonandola anche all'elegie, che adesso sono cenere e polvere. Per esse non >> si discorre più di stampa, perchè sono diventato scrupo>> loso senza essermene accorto. Sono però in impegno d'andar

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» descrivendo in lettere al padre Federici quelle che mi re>> stano ancora fresche in memoria. Intanto io adesso non ho, >> nè voglio avere più un verso solo del mio scritto presso » di me. » E finalmente in altra lettera al medesimo amico datata del dì 30 luglio 1774 aggiungeva : << Voi parlate coi

calcagni, signor antiquario, e poco conoscete il pregio delle >> mie imprese. Io sono sempre stato un ragazzo savio in tutte » le cose e tutti i galantuomini mi predicano per tale. Se >> ho fatto un sacrificio a Vulcano de' miei scarta facci, cosa » potevasi far di meglio? Il fuoco è un purgante maraviglioso, » e gli speziali non ne sanno comporre dei simili. Dunque » io col fuoco ho purgato i miei versi, e così far si potesse » del nostro cervello, ch'allora avremmo in capo un peso non >> del tutto inutile. »>

Sembra adunque potersi con sicurezza rilevare che il Monti avesse fin da giovanetto di per sè distrutto l'elegie con altri suoi versi, e che l'unica rimasta sia quella de Christo nato, che qui si vuole riprodurre col volgarizzamento in terza rima, esperimentato per la prima volta con l'amorevolezza e la diligenza che si seppe maggiore da un pronipote dell'illustre poeta.

IL NATALE

Fredd' ombre de la valle, irrigui prati,
Limpidi rivi, del selvoso monte
Venticelli soavi e delicati,

Roridi spechi dall' erbosa fronte;

Dite: mentre, di ghiaccio i capei greve,
Il verno arresta nel suo corso il fonte;
Mentre adugge la terra, e lieve lieve

Del suo candido manto a coprir scende
I mesti campi l'iperborea neve;
Dite: chi a la tristezza e a le vicende

Della bruma vi toglie, ed all' incanto
Del più giocondo april così vi rende?
Perchè sudan le querce il miel frattanto,
E corre latte dolcemente il rio?
Del Libano la verga eccelso vanto,
Si la verga Jessea fiorente uscìo!

La manna vien, della giustizia il sole
Splende, e da Vergin madre è nato Iddio.
Fanciul, tu lasci la siderea mole.

L'uman velo a vestir dall'amor tratto,
Del Padre alto incremento, eterna prole?
Tu, per cui lieta del suo gran riscatto
La natura ritorna al prisco impero,
Giaci in presepe umil poverel fatto?
Ma il suol, de' doni tuoi grato ed altero,
Nello splendor di sua virtù nativa
Gode infiorar di rose ogni sentiero.
E il prato, qual nella stagione estiva,
Di narcisi, di croco e d'amaranti

Sorride a un tratto, e il verde smalto avviva.

Oh mi cangiasse il cielo in un de' tanti
Fior, di che si dipinge il margo ombroso
Dei ruscelli d'argento mormoranti !
Me, de la bella forma allor festoso,

De' campi la quïete appagherebbe,

Me d' Euro e del crudel Borea sdegnoso,
A carezzar di Zefiro verrebbe

L'ala gentile, e la rugiada fresca
All'aprirsi del dì mi ciberebbe.
L'ape, cui d'ogni foglia il dolce adesca,
Al nettareo licor ronzando intorno
Sovra il calice mio trarrebbe all' esca.
Ma il pastorel perchè dal suo soggiorno
Non vien del vicin colle, e non adora
Il Nume all'apparir l'alba del giorno?
Chè il fior da lui raccolto alla nov' ora
Ai suoi teneri piedi, o al sen tepente,
O con fato miglior porto al crin fôra.
Starmi adunque potrò soavemente

Al mio Signor sul divin capo, a cui
Spine imporrà l' ebrea turba furente?
Dunque il fianco potrò toccar di Lui,
Che un giorno, fonte d'infinito amore,
Sanguinerà per la ferocia altrui ?
Ogni astro, ogni celeste abitatore
Invidia porti al mio destin beato!
Che parlo, e che deliro in vano errore?
A che mi fingo un sogno avventurato?
Fanciul, perdona! Se a me fia disdetto
In ligustro, o in viola esser mutato,
Sul rigido di paglia ignudo letto,

Che primo ti fu schermo, almen scaldarti
Io possa col respir di questo petto;
Mille agli occhi dir vezzi, e mille darti
Baci alle labbra, in sin che, i lumi ascosi,
Volendo a leggier sonno abbandonarti,
Dolce nel grembo de la madre posi.

DE CHRISTO NATO

Irriguæ valles, gelidæque in vallibus umbræ,
Et blando trepidans vitrea lympha pede,
Auraque per virides spirans placidissima colles,
Antraque muscosis roscida pumicibus;
Dum tristi canos glacie concreta capillos
Tellurem immiti frigore adurit hiems,
Et fontis cursum, sinuosaque flumina sistit,
Moestaque hyperboreis arva tegit nivibus;
Dicite, quis vobis luctum brumasque rigentes
Dispulit, amissum restituitque decus.
Dicite mella cavæ cur sudent dulcia quercus,
Leniter et rivis lacteus amnis eat.
Scilicet egreditur Jessæo e stipite virga,
Magnus Idumæi virga decor Libani.
Rore fluunt cæli, demittunt nubila Justum,
Et Deus e casta Virgine natus homo est.
Sancte Puer, tune æterno devinctus amore
Induis humani corporis exuvias?

Tune Dei soboles magnum patris incrementum,
Ut posito per te, qui fuit ante, situ

Pristina naturæ redeat cum fœnore forma,
Tune jaces gelido squallidus in stabulo?
At tibi, qua potis est, tanto pro munere tellus
Grata pruinosas fert ubicumque rosas.

Narcissumque crocumque immortalesque amarantos
Submittunt facili mollia prata sinu.

O utinam in tenuem mutarent me quoque florem
Numina labentis propter aquam fluvii!
Tunc me conspicuæ felicem munere formæ
Mulceret tacito rure beata quies;

Spernentemque Euros, et nimbosos Aquilones.
Succuteret blandi penna levis zephyri.
Tunc quoties Aurora dicm reseraret olympo,
Aurora nitidis pascerer a lacrymis.
Atque apis ad flores alis adla psa sonoris
Nectar dulce meo sugeret e calice.
Quin et vicino decurrens vertice pastor
Visurus natum sole oriente Deum,
Nocturno legeret me totum rore madentem,
Et Pueri teneros ante pedes jaceret.
Aut potius sacris fato meliore capillis
Necteret, aut tepido poneret ille sinu.
Mene igitur fronti divinæ insistere, cui mox
Extruet hebrææus spinea serta furor?

Mene latus, largum cui quondam vulpus hiabit,
Mene sinus Domini tangere posse mei?
Invideant nostram fulgentia sidera sortem,
Invideant cuncti ex æthere cœlicolæ.

Quid loquor insanus? Quid mecum suavia fingo
Somnia successus non habitura suos?

Parce precor, Puer: in niveum si fata ligustrum,
Si renuunt mollem vertere me in violam;
Ah! saltem liceat frigenti in stramine nudum
Pectoris afflatu te refovere meo.

Et sexcenta tuis me figere basia labris,
Atque oculis dulces dicere blanditias.
Donec victa levi declinans lumina somno
Materno recubes molliter in gremio.

V.

NECROLOGIA

Come è mai doloroso ad un' anima sensibile, il perdere di quando in quando i più cari, i più fidi, i più antichi amici, rapiti per sempre dalla inesorabile falce della morte! Reca conforto però il rammentare le tracce luminose, che i defunti lasciarono nella loro carriera mortale, come un faro, che serve di guida alle azioni dei superstiti.

Tra gli amici perduti debbo ora annoverare anche il cavalier Pietro Gambao. Nacque egli il 29 luglio 1796 da onorati genitori, e ben presto si applicò sedulamente allo studio dell' amena letteratura, e quindi a quello severo delle matematiche, e vi fece ragguardevole profitto. Tuttora costituito in verde età meritò di conseguire il titolo e il libero esercizio di architetto.

Fu nominato architetto della reverenda Camera Apostolica, ed in seguito della reale Azienda Farnesiana. Fu architetto altresì di parecchi monasteri e luoghi pii, dove gra

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