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sostanze angeliche, e precisamente del coro dei cherubini. Degli altri luoghi poi che cita, quello del I, 76-77 non si riferisce a tutti i cieli, ma al solo primo mobile: quello del XXII, 64 a 66: Ivi (ne l'Empireo) è perfetta, matura ed intera Ciascuna disïanza; in quella sola (spera) E ogni parte là dove sempre era, non accenna tassativamente ai cieli; anzi, a parer mio, li esclude, perché i cieli non so se potranno mai, come gli angeli e gli uomini, sodisfare nell'Empireo la sete che li affatica: quello infine della epistola a Cane, 25, non vedo che c'entri, non facendo, almeno ne la mia ediz. del Fraticelli, se non dimostrare perché l'Empireo sia il ciel che più de la sua luce prende (de la luce di Colui che tutto move).

Alla quarta. Mi oppone il Filomusi che nel suo scritto, parlando dei filosofi che, secondo le antiche interpretazioni, avrebbero dovuto dimostrare il primo amore, ecc., egli osservò che i passi che se ne adducono sarebbero sempre un puro e semplice accenno, un'asserzione, non mai una dimostrazione de l'esser Dio il primo amore. Io invece gli avrei attribuito, ch'essi mostrano, non dimostrano esser Dio il primo amore, ecc. Non posseggo al momento lo scritto succitato, non avendo tutti gli autori la buona abitudine di mandare dei loro lavori due copie, una pel recensore, l'altra per la Direzione del giornale. Ma non dubito punto che la cosa sia precisamente cosí. E con questo? Forse che l'accennare una cosa non è un mostrarla? Se non è zuppa, è pan molle. E se s'intende il verso di Dante nel senso di Colui che mi mostra il primo Amore, ecc., si ha per l'appunto l'accenno, l'asserzione, che l'A. sembra non voglia riconoscere nel dimostra, mentre dovrà pur riconoscerlo nel Che ne dimostri là dove si guada, che io gli ho presentato.

Alla quinta. Io non ho mica inteso difendere il Costa, il quale per sustanzie sempiterne intese: anime ed angeli. Io volli solo mostrare che quei due concetti poteansi benissimo comprendere nella espressione platonica, amore, il primo di tutti gli DEI. — Ma com'è, si obietta, che migliaia di questi Dei se ne vanno a l'Inferno? È naturale però che l'intendimento del Costa dovesse essere di solo quelle anime che riescono a raggiungere il loro fine, e cosí a partecipare della divinità: si capisce che i dannati, i quali odiano Dio, non possano mai entrare in causa quando trattasi di dimostrare l'amore che le creature portano a Dio.

Alla sesta. Dunque il Sole è un argomento. Anzi dovrebbe essere (a tanto io non arrivava) l'argomento per antonomasia, Colui che dimostra. Ma Dante dice di sé ch'egli deve amar Dio, per argomenti filosofici, e per autorità divina. Segue un' argomentazione a forma di sillogismo aristotelico; e questo sarà uno dei filosofici argomenti. Il Sole sarà poi un secondo: non è dunque l'argomento principe, l'argomento per eccellenza. Ma analizziamo più addentro il preciso modo col quale Dante si esprime. Il bene appena appreso accende amore, quanto più è bene. Dio è sommo bene. Dunque Dio accenderà il sommo amore in ciascuno che sia in grado di apprenderlo, e di riconoscere quindi la verità delle due premesse di questo sillogismo. Ma questa verità me la porge Dionisio, me la porge Mosè, me la porgi tu, san Giovanni. Cosí mi pare che il discorso di Dante fili abbastanza bene. Ma mettendo il Sole, argomento, al posto di Dionisio, autorità, come filerebbe? Molto male, mi pare: giacché, mentre con la espressione: Tal vero allo intelletto mio sterne Colui che, ecc., si designerebbe un argomento, con le altre che seguono, e che pur sono simmetriche a questa, Ster nel la voce, Sternilmi tu ancora, non sarebbero piú due nuovi argomenti che si designano, bensí due autorità: si salterebbe cosí di palo in frasca senza avvisarci.

Alla settima. Mi chiede se ho pensato che ne sarebbe del mondo, se il Sole non fosse. Non è la quistione. Tutti sanno che il Sole è un bene; ma

che sia il bene per eccellenza, che basti toccare di un gran bene, perché tutti devano pensare al Sole, questo è un altro paio di maniche. E poi il Sole è bene per noi uomini; lo è forse pei cieli che ne ricevon la luce; ma non lo è affatto per gli angeli, anche pei quali pur dovrebbe dimostrare Dio sommo bene.

Alla ottava. Io dicevo che se anche Dante avesse scritto per disteso tutto quello che vorrebbe il Filomusi che s' intendesse, però senza nominare il Sole, ben pochi sarebbero stati quelli che ce l'avrebbero veduto. Egli mi risponde che sarebbero ugualmente pochi quelli che ci vedono san Dionisio. Ma invece di sustanzie sempiterne mettasi, gerarchie angeliche, e pur senza nominarsi Dionisio, non solo non sarà difficile pensare a lui, ma non sarà possibile pensare ad altri: ciò costituisce tra la mia versione e la sua una differenza abbastanza sensibile; con la concomitanza altresi a favore di Dionisio, che fu questo appunto uno di quegli autori ai quali Dante applicò di preferenza, e che se fossero, come il Filomusi stesso desidera, svolti dagli interpreti con diurna e notturna mano, dovrebbero certo facilitare la intelligenza di molti dei luoghi difficili che si incontrano nella Commedia.

Quanto poi a coloro i quali in Colui che dimostra vedono Aristotile, of Platone, o Pitagora, o altro antico filosofo non ancora ben precisato (qui pure facendosi convergere a un fine Filosofia e Rivelazione), faccio osservare che ciò non può basarsi che sulle espressioni: filosofici argomenti e intelletto umano usate ai v. 25 e 46. Ma se queste espressioni le si vogliono usate nel senso di autorità umana, e non di ragione umana in genere, che cosa sarà il ragionamento di Dante il quale comincia che il bene, e finisce, questa prova, e occupa cosí ben tre terzine? Il poeta dunque, nel rispondere alla dimanda di s. Giovanni, Chi drizzò l'arco tuo a tal bersaglio? avrà messo li per primo, in prova del fondamento del suo amore divino, quel lungo ragionare; ma del ragionare stesso non avrà fatta nessuna menzione, non po. tendosi davvero nelle due espressioni surriportate comprendere tutti e due i concetti in una volta!

Né ciò sarebbe possibile anche per altro riguardo. Colui che mi dimostra non può essere un filosofo, perché in tema di autorità Dante non accenna ad altra se non a quella che quinci scende, cioè alla divina; e questa sola altresí ha ragione di chiamarsi concorde a l' intelletto umano: infatti un autorità umana concorde a l'intelletto umano non avrebbe forse del pleonasmo alquanto ridicolo? In tema di raziocinio insomma, Dante non tira in ballo autorità, perché era uomo da ragionare, sia pure sulle orme di un altro, ma sempre colla testa propria: in tema di fede invece da vero credente, egli se ne rimette completamente alla autorità dei Padri, della Bibbia e del Vangelo. Che se anche tutto ciò non persuadesse i sostenitori di quel tale antico filosofo, io mi limiterò a dir loro: mettetevi almeno d'accordo: diteci di che filosofo si tratta: citateci il passo preciso che Dante ebbe di mira e poi discuteremo.

Ho creduto bene, perché il lettore sia posto in condizione di pronunciare un giudizio con maggior cognizione di causa, di sottoporgli anche questi nuovi elementi, ai quali ha dato occasione il recente scritto del prof. Filomusi. Non mi resta ora che attenderne il giudizio; e stringere in ogni modo e fin d'ora la mano a l'avversario.

Roma, 5 di febbraio 1896.

FERDINANDO RONCHETTI.

RIVISTA CRITICA E BIBLIOGRAFICA

Recensioni.

G. IORIO. Una nuova notizia della vita di Dante. (Ne La Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti, X, 7-8).

Con questo titolo, alquanto arrischiato, il sacerdote professor Giuseppe Iorio ha publicato, togliendoli dall'Archivio vaticano dietro indicazione del signor Carlo Meder, alcuni luoghi di un processo contro Matteo e Galeazzo Visconti per tentato sortilegio verso Giovanni XXII, nei quali occorre il nome di Dante.

Il processo, o, meglio, il frammento del processo, porta la segnatura di Miscellanea 1320 (9 febr., 11 sept, Ad Vicecomitis. Ioann. XXII an. IV, 1320), ed è un codicetto cartaceo di 18 fogli non numerati, di cent. 321⁄2-241⁄2, tutto di scrittura cancelleresca del tempo. Consta di due atti notarili, contenuti nelle carte 12-16 v, 16 v-17 v, rogati da Gerado di Salò publico notajo di Avignone, segretario della commissione inquirente, che era composta da Bertrando cardinale di san Marcello, da Arnaldo cardinale di santo Eustachio e da Piero abbate di san Saturnino di Tolosa. Innanzi ad essi comparisce, di persona, un Bartolommeo del fu Uberto Canolati, milanese (Bartholomeus Canholati de Mediolano filius quondam domini Uberti Canholati), la lunga testimonianza del quale, conservataci da queste carte, il dottore Iorio riassume alla meglio, recando citazioni del documento malamente tronche e, sia per fretta sua nel trascrivere o nel rivedere le bozze, sia per incuria del tipografo, non sempre scrupolosamente fedeli. Non sarà dunque inutile tornare sopra il curioso documento, e riferire qui, sommariamente, il racconto del Canolati.

Nella metà dello scorso mese di ottobre (1319) trovandosi Bartolommeo nella villa di Panano (in Villa de Panhano), ricevette da un messo di Matteo Visconti l'ordine di recarsi subito a Milano. Bartolommeo, naturalmente, obbedí: e il giorno dipoi giunse in città, dopo avere, in fretta, percorse le venti miglia che correvano dalla sua dimora a Milano, e si presentò subito al Visconti, il quale, senz'altro, lo richiese di un importantissimo servigio, quale egli solo poteva rendergli. Ecco di che cosa trattavasi : "Dominus Scotus... ostendit et exibuit eisdem Bartholomeo et Matheo quamdam ymaginem argenteam longitudinis unius palmi et ultra, habentem figuram hominis, menbra, caput, fa

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ciem, brachia, manus, ventrem, crura, tibias, pedes et naturalia virilia, in cujus ymaginis fronte ipse Bartholomeus vidit et legit sculpturam ad instar literarum latinarum que sculptura et litere continebant verba que sequuntur: Iacobus papa Johannes: et in pectore eiusdem ymaginis erat tale signum et littere que sequuntur videlicet Amaymon Fatta dallo Scoto, per ordine di Matteo, questa presentazione, il Visconti disse al Canolati: "Vide Bartholomee, ecce istam ymaginem quam feci fieri ad destructionem istius pape qui me persequitur et est necessarium quod subfumigetur et quia tu scis facere subfumigationem in talibus volo quod tu facias subfumigationes isti ymagini cum solemnitatibus convenientibus, et scias quod si hoc feceris que rogo, ego faciam te divitem et potentem iuxta me et in terra mea,. A tale richiesta, il Canolati nega recisamente di saper l'arte degli incatesimi: ma il Visconti, sdegnato, lo rampogna aspramente e lo minaccia, e, testimone un "magister Antonius qui erat in alia parte camere,, dichiara di essergli noto come Bartolommeo possegga แ zuccum de Mapello „, che è, appunto, un veleno necessario a far l'incantesimo. Ma il Canolati, cosí preso alle strette, risponde che" verum erat quod semel habuerat [zuccum] modo tamen non habebat, quia quidam frater heremitarum sancti Augustini, vocatus frater Andreas de Arabia, injunxerat eidem in prima quod dictum zuccum de Mapello proiceret in latrina quod et fecit ipse Bartholomeus

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A tale esplicita dichiarazione nulla oppose il Visconti: ma pensando di ricorrere all'arte di un "Petrus Nani de Verona, che, pare, ❝ delle magiche frodi sapea il gioco,, congedò il Canolati, ingiungendogli prima di serbare il segreto, pena la morte. Il Canolati, per altro, non tenne fede al giuramento, e spifferò tutto a Simone della Torre; Simone, a sua volta, ne avvertí la curia di Avignone e un processo fu subito iniziato contro i Visconti con un primo interterrogatorio di Bartolommeo il 9 di febbraio 1320.

Tornato in patria, il Canolati fu imprigionato e posto alla tortura perché dicesse la cagione del suo viaggio ad Avignone: ma fermo nel silenzio, dopo quarantadue giorni di prigionia fu liberato per intercessione di gentiluomini milanesi, a patto che pagasse un'ammenda di due mila fiorini, e si recasse, ogni giorno, alla presenza dello Scoto.

Pietro Nani, frattanto, avea già, con suoi sortilegi, incantato la statuetta di papa Giovanni, ma senza ottenerne alcun buon effetto: sí che Galeazzo di Matteo, dubitando della valentía del veronese, volle provarsi ad indurre, con buoni modi, Bartolommeo a prestargli la desiderata opera sua. A questo effetto, ordinò allo Scoto lo lasciasse libero, e con le due lettere che qui riproduco invitò il Canolati a recarsi da lui, a Piacenza.

I." Amico Carissimo Bartholomeo Conholato Galaas vicecomes civitatis et districtus placiencie dominus generalis salutem et Amorem sincerum. Rogamus amiciciam tuam quod cum Lamfranco Ravuo notario nostro debeas venire ad nos placentiam et de hoc non facias verba cum aliquibus. Dat. placent. XV. maii. "

II. "Discreto viro Bartholomeo canholato Amico carissimo Galas Viceco

mes Civitatis et distructus placencie dominus generalis salutem et sincere dilectionis af. placeat credere discreto viro Lamfranco Ravno notario nostro lateri presencium ea que ex nostra parte duxerit resferenda [sic] et illa adimplere sine tarditate nostri Amore. Dat. placent. XIX, mai „.

Vinto dalle parole affettuose e dai cortesi inviti di Galeazzo, il Canolati si recò a lui, che era apud Placentiam et secum fuit dice il documento - in exercitu Castri Mallei,, dove il Signore amicamente lo accolse, e chiestogli scusa dei cattivi trattamenti paterni, lo tenne dieci dí, colmandolo di cortesie e di doni. "Galeas ostendit in vultu et in verbis - cosí il documento multum sibi displicere quia dictus Bartholomeus sic fuerat gravatus, et dedit sibi unum equum et fecit sibi multos honores, et demum quandam diem [sic] cum dictus Gala adintravit Placentiam, vocavit ad cameram suam dictum Bartholomeum, dicens:... Tu enim Bartholomee vides quod notorium est quod iste papa est partialis et facit partem cum parte gelfa et facit gelfos eiectos reduci in domos suas et non permittit quod ginbellini reducantur ad domos suas set cassat et persequitur gebellinos, et ideo sciat pro firmo Bartholomee quod magnam elemosinam et misericordiam faceret quicumque daret mortem isti pape. Et ideo rogo te Bartholomee quod tu facias ea de quibus ego rogo te. Et tunc dictus Bartholomeus respondit super predictis: Domine Galas sciatis quod ego cogitabo super praedictis quid ego potero facere.... Cui Galas dixit eidem Bartholomeo: Scias quod ego feci venire ad me magistrum Dante Alegriro [sic] de Florencia pro isto eodem negocio pro quo rogo te. Cui Bartholomeo [sic] dixit: Sciatis quod multum placet michi quod ille faciat ea que petetis. Cui Bartholomeo dictus galas dixit scias Bartholomee quod pro aliqua re de mundo ego non sustinerem quod dictus Dante Alegiro in praedictas poneret manum suam vel aliquid faceret ymmo nec revelarem sibi istud negocium qui daret michi mille floreni [sic] auri, quia volo quot tu facias quia de te multum confido

Se il Canolati facesse, dopo tante e tanto calde esortazioni, paghe le voglie del Visconti non sappiamo; ma è assai probabile che se anche il mal pensiero di Galeazzo poté avere effetto, l'arte del Canolati dovette trovare il pontefice sufficientemente munito contro un'insidia alla quale era pur troppo avvezzo. Eccone, a prova, due lettere assai curiose, ritrovate da me nell'Archivio vaticano (Reg. 109, Epist. 75 e 76 fol. 18 e 18 v.) scritte da papa Giovanni nel primo o nel secondo anno del suo pontificato a Margherita di Foix:

I. "Dilecte in Christo filie nobili mulieri Margarite comitisse Fuxensi. Gratum filia nobis multum accessit et placidum, quod tu de sospitate ac vite nostre longevitate materno amore solicita cornu illud serpertinum factum ad modum manubrii cultellini cujus virtus dicitur ad detegendas insidias veneni valere, nobis tam liberaliter comodare curasti quem (?) equidem sub certis modis et obligationibus per dilectos filios Raymundum de Bearnio archidiaconum Larvallensem in ecclesia Lascurrensi, et Manaldum de Castrotino Canonicum Olerensem nuncios tuos qui nobis cornu ipsum tuo nomine tradi

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