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Il sesto cerchio nella topografia dell' " Inferno „.

(Esercitazione filologica).

I.

Se fervono tuttora le discussioni intorno alla topografia materiale e morale dell' Inferno, il più perfetto accordo regna fra gli studiosi del poema e i suoi topografi nel credere che il sesto cerchio sia posto sullo stesso piano del quinto. Ma è codesta credenza veramente indiscutibile?

Che nell' Inferno si scenda di grado in grado sino al centro della terra, è cosa che l'autore stesso ha avuto cura di farci sapere piú d'una volta, non soltanto in generale, ma anche nei singoli casi. Passato l'Acheronte, Dante e Virgilio discendono da una sponda, proda, IV, 15, o sommità, IV, 68 (dove altri legge sonno invece di sommo), giú nel limbo. Di qui, cioè dal “cerchio primaio discendono "giú nel secondo,, V, 1 e sg. Non è indicata la discesa dal secondo cerchio dei lussuriosi al terzo dei golosi, bensí quella dal terzo al quarto, IV, 103:

e ancora in VII, 16:

Venimmo al punto dove si digrada,

Cosí scendemmo nella quarta lacca ;

e cosí l'altra dal quarto al quinto, VII, 97, 105. Non è neppur notata la discesa al sesto, ma nuovamente troviamo quella dal sesto al settimo in X, 134 segg., e XII, 1, 27 sg., 58, dal quale scendono sugli omeri forti di Ge.rione nell'ottavo, e quella dall'ottavo al nono, dove son posti giú da Anteo: e in mezzo al nono è il centro della terra. Due volte però il poeta ha tralasciato d'indicare la discesa; e a ben considerare, ve ne sarebbe anche un'altra. La porta dell' Inferno è posta certamente non sulla superficie del nostro emisfero, ma sotto la volta della terra, per quanto abbiano almanaccato gli espositori; se non vogliamo che Dante si mettesse nell'imbarazzo di designare un punto del nostro emisfero come l'adito immediato dell'abisso: imbarazzo maggiore di quello che volle schivare il Manzoni avvolgendo nel mistero degli asterischi molti luoghi e nomi del suo romanzo. Dipiú le sue parole:

Entrai per lo cammino alto e silvestro

accennano chiaramente ad una via profonda, per la quale vi si dovesse scendere. E che l'entrare abbia qui il senso di discendere è già stato osservato da altri, e trova perfetto riscontro in altri luoghi, come p. es. IV, 23:

Cosí si mise, e cosí mi fe' entrare

nel primo cerchio che l'abisso cigne,

dove entrare risponde al discendiamo del v. 13; e cosí in VII, 105:

E noi in compagnia dell'onde bige
entrammo giú per una via diversa.

Sicché diceva uno sproposito Antonio Manetti, stando a ciò che gli attribuisce il Benivieni, quando asseriva che entrai per lo cammino alto vuol dire salii sopra un monte!! Una montagna nei campi Flegrei, che se uno volesse cercarla con le sue indicazioni, non ve la troverebbe mai, quantunque non ve ne sia penuria! Ma ripigliando il discorso, bisogna, sebbene non sia espressa, sottintendere la discesa anche tra il secondo e il terzo cerchio: il poeta l'ha compiuta durante lo svenimento, forse sulle braccia di Virgilio, o come che sia, ma certo senza coscienza, e perciò non poteva notarlo: ma l'euritmía la richiede; e d'altra parte il bisogno di non ripetersi, o il desiderio di schivare un mezzuccio per informare il lettore di una cosa facilissima a comprendersi, spiegano abbastanza il silenzio del sommo poeta.

Non resta adunque che il passaggio dal quinto al sesto cerchio: e in questo solo i critici non transigono, e poiché Dante non parla di discesa, non vogliono parlar di discesa neanche loro, né, credo, sentirne parlare.

II.

Non sempre veramente gli espositori del poema sono stati di questo avviso. Il primo a manifestarlo fu Cristoforo Landino nella dissertazione premessa al suo commento pubblicato il 1481, e riprodotta fedelmente in molte edizioni successive. Ma il Landino aveva accettata tutta la teoria espostagli da Antonio Manetti, ed è il Manetti il vero autore dell' opinione che il quinto e il sesto cerchio stieno sullo stesso piano, avendo egli diviso il ba ratro infernale in otto gradi, e introdotta una distinzione fra gradi e cerchi che in Dante non c'è, e che egli avrebbe dovuto ben guardarsi di adottare. Nondimeno per tutto il sec. XVI la sua opinione fu ritenuta senza che nessuno trovasse a ridire, dal Giambullari, dal Gelli, dallo stesso Alessandro Vellutello, che pure lo combatté in molte parti. Si aggiunse a questi il grande Galileo Galilei, il quale entrato a decidere, per commissione di Baccio Valori, tra il fiorentino Manetti e il lucchese Vellutello, accolse dall'uno e dall' altro l'opinione surriferita confortandola con la sua autorità, pur dando ragione al Manetti, e torto al Vellutello nelle misure dell' Inferno. Certo, non fu la parola del ventiquattrenne Galilei che valse a stabilire definitivamente la comune credenza: come s'è visto, essa non era stata mai discussa, e andò, per dir cosí, di vaso in vaso, nella illustre dicendenza dei dantofili sino allo Scolari, al Sorio, e al benemerito Principe di Teano. Veramente farebbero eccezione il Balbo, Vita, II, 8, e il Ponta, Nuovo esperimento, 2a ed., Novi, 1846, p. 272 sg., ma qui non si sono occupati di proposito del sesto cerchio, né mi risulta che l'abbiano fatto altrove. Nel 1863 Adolfo Borgognoni si fermò sulla quistione, espose bene le contraddizioni cui dava luogo la comune credenza, ma senza ricercarla piú a dentro, anch'egli l'accettò, e

solo mise fuori una congettura strana, come soleva talvolta quel dotto e coraggioso uomo, che cioè per ritrovare i nove cerchi coi nove gradi, si dovesse contare come un cerchio e un grado anche l'antinferno o vestibolo dove sono gl' ignavi. Dopo di lui coloro che ripresero in esame la misurazione dell'abisso, il Michelangeli, l'Agnelli, il Russo, sebbene abbiano rivagliate le opinioni degli antichi, e senza riguardo cercato di mostrarne le falsità, pure hanno senza molto indugiare accettata quella rispetto al sesto cerchio; anzi il Russo polemizza col Lubin, che solo fra' commentator sostenne, nel commento pubblicato il 1881, la discesa dal quinto al sesto cerchio. E fatta eccezione del sistema del Michelangeli, la questione del sito del sesto cerchio si trova in tutti i sistemi collegata con le misure dell'abisso, e uno il quale sostenesse un'altra opinione, dovrebbe dimostrare l'errore di misura di ciascuno. Ma basterebbe rivolgersi al Manetti, il quale ha dato per il primo questo cattivo esempio delle misurazioni. Egli guardò la geniale costruzione dell' Inferno dantesco con l'occhio del geometra, volle provarsi poi a misurarla realmente, e il calcolo di sua pura fantasia spacciò come cosa di Dante. Quelle immensità stupende dell'alto poeta si restringono liquidandosi in miglia e passi, e d'altra parte fanno esclamare al lettore: Ma come mai, se Dante pose la distanza di 405 miglia fra un cerchio e l'altro, poteva percorrerle cosí facilmente; e che pendio esse avevano? Dall'altezza pari a quella di una montagna cento volte maggiore dell' Imalaia, quest'uomo non doveva provar nulla, e dirci nulla? La discesa dell'Inferno deve avere una certa agevolezza allegorica, come la difficoltà della salita del Purgatorio, ma a un tal punto l'allegoria sopraffarrebbe la ragione della lettera e dell'arte, cosi da ingenerare l' inverosimile, e il grottesco. Sarebbero mai questi calcoli un puro esercizio della propria fantasia, gabellati per esatte e ben meditate escogitazioni della mente di Dante? E sieno fatti dal Manetti, o dal Vellutello, dal Giambullari o dal Galilei, dal Sorio o dall'Agnelli, sembrano poco credibili; e la prima ragione è appunto la insormontabile difficoltà che ciascuno di essi trova a star d'accordo con l'altro. Eppure, si dice, la matematica non è un'opinione. Ma quei computi sono cosí disparati, la loro variazione tocca dei punti cosí lontani ed estremi che il lettore si domanda qual possa mai essere il loro fondamento, e se c'è un fondamento. Il Manetti calcola la profondità del baratro 3750 miglia, il Ponta non più di 95 miglia dal primo cerchio in giù!!! Il fondamento, come ognun sa, è nella misura data dal Poeta della nona e della decima bolgia, la prima delle quali avrebbe ventidue miglia di circuito, la seconda undici, con un traverso di mezzo miglio. Ma prescindendo dalle assennate e decisive note del Michelangeli, per stabilire la misura delle altre bolge varrà la proporzione aritmetica o la geometrica? e perché l'una e non l'altra? E quale proporzione esiste più tra il settimo e il cerchio di Malebolge, e tra quello e gli antecedenti? Poiché qui manca affatto qualsiasi indicazione. Ma se delle bolge Dante ci ha detto il circuito, il quale ci servirà per stabilir quello degli altri cerchi, quale è il fondamento della misura delle altezze?

Qui, non v'è sofismi e arzigogoli che valgano, non ve n'è alcuno! Se è vero quel che molti pur ritengono falso, cioè che la profondità di tutto l'abisso sia eguale al raggio terrestre, poiché l'umbilico di Lucifero trovasi al centro della sfera, quante delle miglia che lo costituiscono spettino a ciascun cerchio, non vi è alcuno che possa ricavarlo mai dalle parole di Dante. La pina di San Pietro a Roma? Ma a che serve codesta misura? se pure ha mai conosciuto esattamente Dante la misura della pina della Basilica. Dalla lunghezza della faccia di Nembrotte, in qual modo si può arguir quella di un solo dei cerchi, se non esiste alcuna relazione tra l'una e l'altra? Né il poeta ve l'ha messa. D'altra parte; come fanno i signori matematici a calcolare il cammino di Gerione, e l'altezza da un cerchio all'altro? Domineddio quanta potrebbe averne posta fra il limbo e il secondo cerchio, se Dante non ha neppur veduto questo cammino? Non poteva egli serbare una certa libertà per farli più o meno vicini? E che cosa ce ne dice mai il poeta? A queste domande nessuno può dare una risposta precisa, categorica, ricavata dalle parole del poeta stesso. Dunque noi non ne sappiamo nulla e tutti codesti calcoli sono innocenti menzogne e perditempo.

Che i cerchi infernali come le cornici del Purgatorio abbiano fra loro una certa proporzione, non si può negare, perché vanno gli uni e le altre sempre piú restringendosi da un massimo di circonferenza ad un minimo. Ma poiché tra un cerchio successivo e l'antecedente non è sempre la stessa distanza, vuol dire che il loro diametro varia in modo che un cerchio può esser rispetto al superiore assai piú stretto che non questo rispetto ai suoi antecedenti. Ma dicono alcuni che se non vi può essere eguaglianza proporzionale di diametro, vi è eguaglianza del traverso dei, cerchi. E perché? Anche un anfiteatro suole avere ripiani più larghi, per fini speciali, e non comprendo come Dante per una semplice ragione di simmetria, che in fondo non mena a nulla, potesse da sé stesso, cioè dove avea piena libertà, imporsi un ordine che gli poteva riuscire piuttosto dannoso che utile. Insomma il lettore può immaginarsi tali utili varietà nel traverso dei cerchi, che non potrebbe se gli fosse imposto di crederlo sempre eguale. Né Dante in vero glielo ha mai imposto. Le parole

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non significano altro se non che vi sono tre cerchietti digradanti come son digradanti quelli che lasci; e che non ve n'è nessuno il quale sia contiguo ad un altro o in un ordine diverso da quello che trovasi sino ad esso. E non

è necessario che codesti gradini siano sempre uguali come quelli tra una scala e la discesa dell' Inferno.

Io credo che se il poeta avesse voluto darci le dimensioni del suo Inferno, se egli avesse attaccato una speciale importanza a questi particolari, avrebbe usato tali mezzi da non lasciarci un cosí vasto campo di arzigogolare su due dati che egli fornisce di due parti estreme piccolissime, spropor. zionate rispetto a tutto il rimanente. È vero che le misure di undici miglia

e poi di ventidue miglia, e del mezzo miglio di traverso, son numeri cosí ben precisi che il lettore insieme col senso di meraviglia dinanzi alla grandiosità della gola infernale, deve pur provare uno stimolo a misurarla: c'è la proporzione dell'undici al ventidue, ci è la frazione del mezzo miglio di traverso che spingono subito a domandarsi: Quale sarà il traverso della bolgia di ventidue miglia? È costante, è variabile? costante, è variabile? Ma consideri il lettore che son dieci bolge, consideri che esse sono sormontate da un cilindro di cui non si può misurar la lunghezza, e su di questo vi è un cerchio che ha sullo stesso piano un fiume una selva ed un deserto, che su di questo, in capo a un sentiero alpestro, vi è un altro grande cerchio cosparso di tombe, e poi una palude e ancora piú sú quattro altri cerchi, e sulla bocca di questo abisso un gran fiume, e in giro uno spazio grandissimo che accoglie un infinito numero di anime; consideri tutto ciò il lettore e veda come gli è impossibile tener dietro a queste misure e stupisca egli piuttosto innanzi a questo indefinito che appunto per quelle misure gli sembra immensurabile! E qui tornano a proposito i versi del Leopardi:

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D'altra parte, questa contiguità del quinto col sesto cerchio doveva essere ben osservata da chi guardava alla distribuzione dei peccati dell' Inferno, da chi ne studiava insomma la topografia morale; e tanto piú vi è l'occasione alle piú varie e ingegnose spiegazioni perché giusto in quel punto sembra interrompersi l'ordine dei peccati mortali, e cominciarne un altro; e sia proprio cosí, o nella città di Dite si prosegua nei peccati mortali classificati dal cristianesimo, certo è che l'eresia è un peccato nuovo, diverso dagli altri, e la sua collocazione sta ad indicare a quale si avvicini più o meno, e in che grado e ordine. Ma poiché importa in primo luogo di osservare la lettera del poema, e queste conclusioni rispetto alla distribuzione morale dipendono dall'ordine effettivo e reale, non è necessario frattanto di tenerne conto.

IV.

Non bastando dunque le ragioni dell'euritmía, valse per la taciuta discesa dal secondo al terzo cerchio, per farla riconoscere anche tra il quinto e il sesto, pur non trovandosi alcuna prova negativa cosí nei calcoli delle misure infernali, come nei sistemi di topografia morale; è necessario esaminare mi

1 V. l'esame di questa quistione presso F. D'Ovinto, Della topografia morale dell' "Inferno dantesco, in Nuova Antologia, t. III, v. 53, pag. 204 e segg.

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