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citati dall'egregio critico i detti aggettivi non ricorrono piú che in altri, anzi ricorrono meno. L'impietosirsi di Laura raggiunge il colmo molto dopo, a partire cioè dal sonetto CCXCV: Deh qual pietà. Piú eloquenti dei tre esempi che il Moschetti porta in suo favore, ci paiono i seguenti che parlano in fa

vor nostro.

Sonetto CCXCV:

Deh qual pietà, qual angel fu sí presto

a portar sopra 'l cielo il mio cordoglio? Ch'ancor sento tornar, pur come soglio, Madonna in quel suo atto dolce onesto ad acquetare il cor misero e mesto,

piena sí d'umiltà, vôta d'argoglio,

e 'nsomma tal, ch'a morte i' mi ritoglio,
e vivo, e 'l viver piú non m'è molesto.
Beata s'è, che pô beare altrui

co' la sua vista, o ver co' le parole
intellette da noi soli ambedui.

"Fedel mio caro, assai di te mi dôle;

ma pur per nostro ben dura ti fui „:
dice; e cos'altre d'arrestare il sole.

Sonetto CCXXXVI, 7-8:

Vien tal, ch'a pena a rimirar l'ardisco,
e pietosa s'asside in su la sponda.

Sonetto CCXXXVII, 9-11:

Oh che dolci accoglienze e caste e pie!

E come intentamente ascolta e nota
la lunga istoria delle pene mie!

Sonetto CCCX, 9-11:

Ella si tace, e di pietà depinta

fiso mira pur me; parte sospira,
e di lagrime oneste il viso adorna.

E inoltre nella canzone XXVII Laura è ancor pietosa più che mai. Questa pietà, ha poi uno svolgimento di cui non sapremmo trovare il modello nello svolgimento della gentilezza della Donna che conforta Dante. Infatti dal sonetto CCLXXIII, 6 Mente mia appare che Laura cominciasse ad essere pietosa prima di morire, alla canzone XXII Che debb'io far il poeta la prega che abbia pietà di lui, nei sonetti CCXL-CCXLV (XIVXVIII) Laura esaudisce il voto dell'amante, ma dal sonetto CCXCIV: Dolce mio caro appare che Laura cessi per un momento di confortarlo per farsi poi di nuovo mite e raggiungere il colmo della pietà, come abbiamo detto, a partire dal sonetto CCXCV.

Il vero è che il Petrarca amò come amano tutti gli altri uomini, che anche lui perciò invocò pietà dalla sua donna, anche lui credette ora d'ottenerla ed ora no; quella pietà, che anche Dante avea invocata da Beatrice.

Né ha valore il confronto che il Moschetti fa tra il principio del sonetto CCXLIV (XVII in M.) del Petrarca e il sonetto XX di Dante. Lasciando stare che invece il Cesareo crede riflesso di questo il sonetto XIV e il LIII, diciamo che quei due sonetti sono diversissimi. Si leggano insieme.

"Dante volle dire, lasciamo parlare chi è estraneo alla quistione "che la donna consolatrice rimaneva compresa di pietà considerando l'aspetto di lui, piú che altra donna rimanesse mai vinta d'amore per la vista dell'amatore o vinta di pietà per la vista di chi piangesse dolorosamente

Il Petrarca non ha nulla di tutto questo: il pensiero principale del suo sonetto è che non la madre al figlio, non la donna allo sposo dan consigli davanti ad un pericolo in modo tale, quale Laura li dà a lui per salvarlo dalle lusinghe del mondo.

Dante non ha in quel sonetto il pensiero principale del Petrarca, che cioè la donna lo invia al Cielo, questi non ha quello di Dante, che cioè ella cangiava di colore. Tutta la somiglianza non si riduce che al prender come termine di confronto la donna, ma anche quella sparisce, ove si consideri che Dante parla di donna in generale, mentre di una madre e di una sposa il Pe

trarca.

La chiusa del sonetto CCXLVI (XIX in M.) in morte di Sennuccio e il sonetto CCXLVII corrisponderebbero rispettivamente al sonetto XXIII e XXIV della Vita Nuova. La somiglianza dei primi due è in ciò che si Dante come il Petrarca piangono. Ma, i due poeti piangono solo a questo luogo? Ed abbiamo nei versi del Petrarca pur una parola, una movenza che ricordi la lotta dei due affetti e la descrizione del lagrimar di Dante?

Oltre a ciò, questi scrive il sonetto in seguito al rinascere del primo amore e col fine di far parere distrutto l'altro desiderio malvagio, significando il suo stato angoscioso. Invece ben diversa è l'occasione per cui il Petrarca scrisse il suo sonetto, cioè la morte di Sennuccio, un fatto non inventato; onde anche perciò capiremmo forse che un sonetto come quello di Dante fosse imitazione di quello petrarchesco ma non questo di quello.

Per simili ragioni il sonetto CCXLVII del Petrarca non può dirsi ispirato dal sonetto XXIV di Dante, in cui è chiamata dolente la città stessa di Beatrice. Non una, ma parecchie sono le poesie in cui il Petrarca dà anima e sentimento a tutte le cose che lo circondano3, e con uguale diritto altri potrebbe dire che dal sonetto di Dante derivasse, per es., la canzone XIV Chiare fresche e dolci acque, il sonetto XXVIII Solo e pensoso, il sonetto CCLX, Valle che de' lamenti, ecc. Il Moschetti, in cuor suo doveva essere convinto della debolezza del suo argomento, e soggiunse che se in Dante c'è l'idea dei pellegrini

1 Op. cit., pag. 36:

6

2

Op. cit., pag. 493-4.

3

CASINI, V. N., ed. cit. pag. 186 in nota.

4

MOSCHETTI, Op. cit., pag. 37-8.

5 Un bell'esempio dà il BARBERINO, Reggimento, pag: 208-9.

* Cfr. CINO, Signor e non passò mai peregrino.... ed. cit. pag. 117.

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che si recano a Roma e nel sonetto del Petrarca no, egli è perché questi“ la aveva già adoperata in altro luogo né poteva quindi credere opportuno ripetersi. Ma chi non sa quanto frequenti sieno le ripetizioni nelle rime del Petrarca? Epperò, se questi avesse avuto davanti il sonetto di Dante, e avesse voluto imitarlo, siam d'avviso che non avrebbe avuto tanto scrupolo ad esprimere nuovamente quell' idea. Ma, a che tante parole? Piú d'ogni discussione vale il leggere contemporaneamente i due sonetti: diversa è l'occasione e, al solito, nel Petrarca che trovasi in Valchiusa non meno reale che quella di Dante, diversissimi i pensieri, diversissime le parole. Che cosa è uguale? Questo, che Firenze piange come i luoghi di Valchiusa. Ognun vede che importanza si può dare a tale coincidenza.

Omettendo di discorrere della somiglianza fra il sonetto CCLXXI (XXIV in M.) Levommi il mio pensier e il sonetto XXV di Dante, la quale, da noi pur riconosciuta, è superata da grandi differenze, "veniamo finalmente all'ultimo capitolo della Vita Nuova e al modo con cui il concetto che lo informa fu inserito e ampiamente svolto nel Canzoniere

Piú innanzi esaminaremo in che relazione stiano la divina Commedia e i Trionfi, qui subito dobbiam dire che quella è certamente annunziata nella Vita Nuova, questi no nel Canzoniere. Il Moschetti stesso1 conviene esser dubbio che essi siano accennati in questi versi (son. CCLVI [XXIV in M.] vv. 13-14):

. .

Forse averrà che 'l bel nome gentile

consecrerò con questa stanca penna,

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"perché qui si potrebbe credere che il poeta accennasse al compimento del Canzoniere stesso Ma s'inganna il nostro critico, quando soggiunge chenel sonetto CCLXXXIII (IV in M.) Laura e l'odore" è chiarissima l'allusione al contenuto dei Trionfi, a quei nobili intelletti con cui parlerà il Petrarca e tra cui farà primeggiare la sua donna Evidentemente l'egregio critico ha frainteso i versi nei quali il Petrarca, contrapponendo i nobili intelletti di quaggiú (non quelli con cui parlerà nei Trionfi) agli spiriti eletti di lassú, dice che come Laura è beata tra questi, sarà immortale tra quelli per le sue rime. E si deve intendere delle sue rime in generale, al pari che nei versi precedentemente riferiti, se è vero che con esse il nome di Laura si sarebbe reso, come si rese, immortale.

Chi volesse cercare accenni ai Trionfi nelle altre opere del Petrarca, li troverebbe forse in due epistole metriche. In una (sez. I, ep. 1a dell'ed. Rossetti), colla quale manda a Barbato il Canzoniere, chiama tenui i frutti della sua musa giovanile e promette prepararne altri di maggiore importanza. Nella seconda (sez. XI, ep. 2a., ed. cit.), dopo aver accennato ai mali di Avignone, cosí si rivolge sdegnato alla sua musa:

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1 Op. cit., pag. 39-40.

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Quanto al pensiero morale de' Trionfi, si trova in germe, come notò lo ZUMBINI (Studi

Né v'ha simiglianza tra le ultime parole della Vita Nuova e le due quartine del sonetto CCCVIII (LXXXVIII in M.) Deh! porgi mano, poiché in queste il Petrarca non dice, come già nella canzone XXV Tacer non posso, se non ciò: Amore, aiutami a cantar come conviene colei che è stata unica al mondo. Con che egli si allontana molto dal poeta che a trattar degnamente di Beatrice si prepara collo studio. Del resto il Moschetti avrebbe dovuto vedere che il Petrarca, anche in ciò dipartendosi da Dante, chiedeva ad Amore che lo aiutasse non già in un'altra opera, ma in quel medesimo sonetto: e infatti Amore soddisfa il desiderio del suo fedele rispondendo nelle due terzine:

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Il Moschetti poi avrebbe voluto trovar nella Vita Nuova le parti che corri spondessero alle poesie in cui il Petrarca descrive il graduale sublimarsi dell'amore di Laura; ma non ci è riuscito, e quindi è andato a ricercarle nella Commedia; e in un modo da provare sempre più che la sua tesi è insostenibile. Per esempio, secondo il Moschetti, "come Dante dalla vetta del Purgatorio, scarico da ogni peccato terreno, dopo aver bevuto alle acque di Lete e di Eunoè si slancia nei cieli seguendo la guida di Beatrice, cosí il Petrarca, che ormai ha col dolore e colla penitenza purgato i folli desiderî e la traviata passione di un tempo, si sente pronto a seguitar Laura fino alla presenza del Creatore e a beatificarsi con lei della sua vista (son. XC [La bella donna.....]),.

Dalla gran distanza che corre fra i suoi due termini ognuno vede come questo confronto non sia ben fatto. E poi, quel sonetto non accenna affatto a Laura, sibbene ad altra donna, forse a quella di Gerardo, e nel codice originale non tiene il posto che ha nella volgata, ma un altro, il settantesimo, che vale a confermar falso il detto confronto. La voce del Petrarca medesimo fa cosí sparire proprio il meglio, l'anello di congiunzione tra il Canzoniere ed i Trionfi, il quale, secondo il Moschetti, sarebbe stato uguale o identico a quello tra la Vita Nuova e la Commedia. Finalmente, l'Alighieri, concepita l'idea della Commedia, pone termine alla Vita Nuova; il Petrarca, concepiti i Trionfi, li viene scrivendo in un colle ultime rime del Canzoniere.

(Continua).

GIOVANNI MELODIA.

sul Petr., pag. 151), nell'Africa II, 428. II PASQUALIGO (Cultura, anno V, 1886 pp. 681-8) avrebbe trovato il germe nella canzone Standomi un giorno, di che vedasi la confutazione del Colagrosso, in Altre questioni letterarie, Napoli, 1888, pag. 171-192.

1 MOSCHETTI, op. cit., pag. 41-2.

2 Op. cit., pag. 42.

Guido Guinizelli e la sua riforma poetica

PARTE II.

L'importanza della riforma poetica di Guido Guinizelli.

I.

La poesia lirica italiana del secolo XIII non fu né spontanea né originale: fu un prodotto dell'imitazione provenzale. Di questo fenomeno singolare le cause sono certamente molteplici; ma tra di esse importantissima la mancanza d'una lingua nazionale, organo indispensabile per una letteratura. Non mi parrà d'aver cominciato troppo in su la trattazione del mio argomento, se sarò riuscito a provare che tra le cause che s'adducono del ritardo d'una poesia presso di noi quella è la principale e che qualche altra è affatto insussistente.

Il fardello, onorifico ma grave, dell'eredità romana incombette per troppo tempo su di noi. Le glorie di Roma erano il nostro vanto; i suoi fasti le sue leggi la sua civiltà il nostro patrimonio, con cura e con venerazione conservato. Ogni nostra energia fu per lungo ordine di secoli esaurita nel custodire e conservar la romanità pura d'ogni contatto esteriore, anche in mezzo all'incalzare delle invasioni barbariche. Oggetto quindi di studio assiduo ed amorevole la lingua e la letteratura latina, che costituivano sí gran parte dell'avíto patrimonio. I chierici, i quali nell'ignoranza universale radunavano in sé ogni sapere, copiavano le opere de' classici, le studiavano e le commentavano, in quello almeno che s'accordavano con i mutati ideali: la lingua latina era universalmente conosciuta, usata nei pubblici uffici, parlata e scritta dalle persone colte. Il grande onore, in cui essa era tenuta, e l'uso largo, che se ne faceva, non solo trattennero il libero svolgersi de' volgari nati da essa, ma ancora impedirono che da noi non s'acquistasse se non assai tardi la coscienza d'una lingua, nata con noi, corrispondente ai nostri ideali a' nostri sentimenti a' nostri bisogni. E la mancanza d'una lingua propria si fece sentire fino al secolo XIV e forse piú in qua. Infatti se la mente divinatrice dell' Allighieri preconizza la grande importanza che assumerà il nuovo volgare nel futuro e si scaglia con tanta violenza contro quelli che lo denigrano, neppure lui si spoglia totalmente dei vecchi

1 Conv., I, XIII.

2 Ib., I, X.

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