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pregiudizi e chiama il volgare pane di biado e non di frumento ed il latino invece sovrano e per nobiltà e per virtú e per bellezza. E se egli finalmente nella divina Commedia si libera dal triste preconcetto dell'inferiorità dell'italiano rispetto al latino, ne ha i rimproveri di tutti i dotti contemporanei, i quali continuano a rimanervi, e quelli dello stesso Petrarca, che affida all'Africa quella gloria, la quale gli verrà data dal Canzoniere.

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Mi par dunque che s'allontanino un po' dal vero quegli storici che vorrebbero dare soverchia importanza ad un'altra causa, all'assenza cioè in Italia del contenuto per una letteratura. Gli Italiani non ebbero, dicono, quella gioventú immaginosa, piena di sogni e di poesia, che, rompendo le leggi del reale, crea il sovrumano ed, allargando i contorni dei fatti, genera le leggende fantastiche ei miti favolosi, che sogliono essere il contenuto poetico di tutte le letterature delle origini. Non si formò quindi in Italia una vera e propria saga cavalleresca ed anch'essa fu presa ad imprestito dalle altre nazioni. Inoltre, non essendo qui la barbarie stata cosí fitta come altrove, anche la cavalleria ed il feudalismo furono prodotti d'importazione.

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Tutto questo è vero, ma non bisogna neppure qui esagerare. Noi, per voler essere romani, non fummo mai abbastanza medioevali; però, non ci mantenemmo cosí immuni da ogni miscela con la barbara ma vergine civiltà germanica, da non sentire, nelle nostre fibre infiacchite, i giovini entusiasmi ed i fremiti della novella vita, che d'ogni parte penetravano il mondo latino. Al formarsi infatti della feudalità e della cavalleria, o almeno al loro costituirsi nettamente in forma sociale, la maggior parte d'Italia non era essa provincia barbara? Carlomagno non imperava qui come in Gallia? Ed i Saraceni non erano anche nostri nemici? E non prendemmo noi parte alle guerre contro di loro? La feudalità e la cavalleria non nacquero dunque spontaneamente in Italia, ma ben presto entrarono nella vita italiana e di sé la improntarono in modo che la società, nel fondo almeno, fu feudale, e gl'ideali cavallereschi concorsero a costituire la coscienza del nuovo popolo. Fu questo il felice connubio tra il mondo antico ed il medioevale, tra la romanità, conservata con venerazione, e la barbarie, che aveva tutto allagato. Le due civiltà, urtandosi, si compenetrarono. I vecchi ideali ci tennero lontani dalle ristrettezze d'una troppo rigida feudalità, i nuovi rinsanguarono le nostre vene di popolo decadente, e noi sentimmo, in quella dolce primavera della vita italiana, piú forte il bisogno della letteratura, che ci mancava. Cosí, quando ci vennero di Francia le due forme letterarie, prodotte da' due coefficienti maggiori della cavalleria, il valore personale e l'amore, perché esse corrispondevano realmente agl' ideali a' sentimenti alle condizioni morali ed intellettuali della nostra società, noi non solo le accogliemmo con entusiasmo, ma ci servimmo del loro contenuto per la nostra poesia.

1 Ib., I, V.

GASPARY, La Scuola sic., pag. 5.

Il popolo prese le leggende eroiche del ciclo carolingico e brettone, le conservò in sé e le coltivò con tanto amore, che esse divennero poi il patrimonio della nostra poesia epica.1 Le classi elevate si compiacquero invece delle dolci e leggiadre rime cantanti l'amore, che la cavalleria aveva ingentilito e raffinato, e la lirica amorosa di Provenza divenne di moda ne' geniali ritrovi delle corti dei palazzi e de' castelli, cantata dagli eleganti trovatori e ascoltata con piacere dalle dame e da' cavalieri innamorati. E tale fu il favore, con cui fu accolta qui da noi la poesia trobadorica che, mentre nell'Italia settentrionale si venne formando una scuola che poetò nello stesso idioma provenzale e fu un ramo ed una continuazione poi della letteratura occitanica, in Sicilia, alla corte di Federico II (1218-1250), un'altra ne nacque, che prese di Provenza tutta la materia della poesia ed il modo tutto speciale di concepirla; ma adoperò nel trattarla il volgare del paese.

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Questo sulla bocca de' colti e raffinati cortigiani dello Svevo aveva dovuto senza dubbio ingentilirsi ed assumere grande pulitezza ed eleganza, inalzandosi al disopra del dialetto popolano. Questo perfezionamento s'era necessariamente compiuto, accostando il volgare a quel fondo comune di tutti i dialetti italiani, che è somministrato dalla lingua latina. E quel fondo, che avviava il linguaggio parlato alla corte sveva verso quel volgare "illustre cardinale aulico e cortigiano 2 che Dante aveva proclamato come nostro vero ed unico idioma, aveva dovuto essere tanto più facile ad acquistare, in quanto esso suonava sulle bocche di persone istruite e familiari con il latino, ed era, a quel tempo, meno diverso dalla lingua, che lo aveva non lontanamente generato. Rispetto alla lingua i Siciliani si trovavano dunque in condizioni migliori che gli altri Italiani. Essi avevano nelle loro mani, quantunque semplice e rozzo, lo strumento necessario per una letteratura e se ne servirono per poetare sul contenuto cavalleresco della poesia amorosa provenzale.

Alla corte sveva questa trovò un terreno a sé propizio; gl'ideali de' trovatori provenzali e le loro rime raffinate e signorili corrispondevano perfettamente agl'ideali a' costumi al vivere gaio e spensierato di quella sicula società, colta liberale e galante. Cosí nacque e si svolse rapidamente la “Scuola poetica siciliana, che rappresenta il periodo primitivo della lirica delle nostre origini. E come essa veniva a riempire un vuoto nello svolgimento del pensiero italiano, passò nel continente, si estese per la penisola, si raccolse specialmente nella Toscana, dove si formò una nuova scuola poetica, che fu la continuazione della scuola siciliana, e si può riguardare come il secondo periodo di essa, intendendo per Siculi tutti quei rimatori che fiorirono in Italia prima del "dolce stil novo3. I quali, imitando pedissequamente i loro modelli, ne presero non solo i concetti le immagini e le frasi stesse, ma anche i difetti. Questi anzi fu

1 Era tanto il concorso de' menestrelli e de' giullari nelle città italiane, che ci è pervenuto un ordine del Comune di Bologna, per es., vietante ai "cantores francigenae, di fermarsi a cantare su' crocicchi delle vie, per non disturbare la circolazione (CASINI, La coltura, etc. in loc. cit., pag. 22).

2 De Vulg. Eloq., I, XVI.

3 GASPARY, La Seuola sic., pag. I, il quale sta con DANTE, De Vulg. Eloq., I, 12.

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rono nella nuova scuola esagerati; e, se nella lirica trobadorica la ristrettezza degli argomenti aveva presto causato monotonia e convenzionalismo, nella sicula a questi vizi ereditari la servile imitazione aggiunse fin dal principio freddezza e vuotaggine nella sostanza e maggiori ricercatezze e lambiccature nella forma, "mentre si smarriva la originaria venustà ed eleganza nel nuovo idioma pesante e disadatto L'unico argomento della nuova lirica, come già della provenzale, fu l'amore cavalleresco: il vassallaggio umile e devoto del poeta verso una donna adorna d'ogni bellezza e di ogni virtú, e, se non “spietosa „, causa d'ogni “gioi' compita,, alla quale il poeta appena osa manifestare il suo amore infelice e dalla quale esso spera un conforto; mancando questo, il misero morrà ed il danno sarà di Madonna. È l'eterno amore, da nessuno sentito, ma da tutti concepito nello stesso modo ed espresso con le stesse frasi; un semplice mezzo di poetare secondo la moda universale. Quindi non sentimento vero e spontaneo non vita non calore e non colore: dovunque studio aridità monotonia: uno sforzo esteriore di rendere piú peregrina la forma, per sostituire la mancanza dell'intima inspirazione.

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Questi difetti, parte ingeniti parte acquisiti, andarono naturalmente aumentando coll' estendersi della scuola. Chi ben guarda negli antichi Siculi, può vedere qua e là tratti di poesia dettati con vena e con sentimento. Nella canzone S'eo trovo pietanza dell'infelice Re Enzo, in quella Oi lasso non pensais di Ruggerone da Palermo, in quelle Amorosa donna fina — In amoroso pensare ed Oramai quando flore di Rinaldo d'Aquino, lore ed un amore veramente sentito. E nella canzone Oi lassa ta' di Odo delle Colonne e nell'altra del medesimo d'Aquino Giammai non mi conforto quanta angoscia e quanta passione! In quest'ultima il cavaliere parte per le Crociate e la donna piange e si lagna:

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Santus santus Deo

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che 'n la Vergin venisti

tu salva e guarda l'amor meo

poi che da me 'l partisti.

c'è un doinnamora

Cosí leggansi altri passi, che son frequenti, in Pier della Vigna in Iacopo da Lentino in Guido delle Colonne; leggasi tutto Giacomino Pugliese; e si troveranno in essi accenni ad una poesia, che non è una semplice e vuota astrazione, ma ha in sé calore di vita e di sentimento.

Questi accenni però si vengono diradando man mano che uno s'accosta

1 GASPARY, La Scuola sic., pag. 23.

2 Manuale della Letteratura italiana di A. D'ANCONA ed O. BACCI. Firenze, Barbèra, 1894, Vol. I, pag. 36.

3 Poeti del secolo della lingua italiana editi dal VALERIANI, Firenze, 1816, Vol. I, 121. VAL., I, 219.

4 Id., I, 221.

6 Id., I, 223.

7 Id., I, 199.

8 Manuale del D'ANCONA E BACCI Vol. I, 46. (D'ora innanzi sarà indicato colla semplice abbreviazione di "Manuale „).

www.

al secondo periodo della lirica siciliana. Guittone d'Arezzo esercitò una funesta influenza sulla poesia del suo tempo. Egli ebbe ingegno largo e colto, ma arido e freddo. A giudicare da certi brani, che si rinvengono qua e là, specialmente nelle sue serventesi politiche, forse avrebbe potuto dare migliori frutti: ma egli si ingolfò tutto nell'imitazione provenzale; ogni fonte d'inspirazione s'inaridí in lui e riuscí vuoto ed astratto nella sostanza, contorto e sforzato nella forma. Per opera sua la poesia si mise per una strada peggiore: si venne raccogliendo intorno a lui una schiera di rimatori, che s'allontanarono sempre più dalla schiettezza e dalla verità e s'accostarono alle vuote cincischiature degli ultimi trovatori. I bisticci i giuochi di parole le replicazioni le rime care le rime derivate le rime equivoche e tutte le altre affettazioni divennero di moda e s'arrivò agli arzigogoli indecifrabili di Bonaggiunta da Lucca e di Monte Andrea.

Intanto la vita italiana s'era fatta piú larga e più piena, le menti più colte, i cuori piú gentili, il sentimento piú fine e vivace. In quella intensa vitalità, in quel bisogno universale di espansione, la poesia provenzaleggiante non poteva piú in modo alcuno soddisfare gli spiriti; una riforma era necessaria e non si fece attendere. Essa venne da Bologna per opera di Guido Guinizelli.

II.

Perché una riforma abbia in sé ragione di essere e di durare, deve corrispondere a' sentimenti ed alle tendenze del suo tempo.

Ora la nuova riforma poetica doveva ricevere in sé i tre principali elementi constitutivi della vita italiana della seconda metà del secolo XIII: la dottrina scolastica, il sentimento cavalleresco ed il sentimento religioso.

La scolastica fu una delle caratteristiche più spiccate della coltura del dugento. Gl'ingegni, ritemprati e riposati nella lunga barbarie de' secoli anteriori, inceppati nelle aridità della teologia e della filosofia, limitati dalla ristrettezza dello scibile medioevale, non potendo essere né larghi né profondi, furono sottili ed acquistarono una singolare attitudine al sillogismo ed alla speculazione. Donde la scolastica, forma cosí universale ed appariscente della coltura di quel tempo. Concorrevano a costituirla le memorie del passato e gl'ideali dell'antichità classica immiseriti nell'arida grettezza della scuola, la filosofia greca passata attraverso al crogiuolo del concetto cristiano e delle dottrine chiesastiche, la teologia lottante nello sforzo continuo di metter d'accordo i filosofi greci con i Santi Padri. Essa penetrò in ogni ramo di dottrina, nella storia nella grammatica nelle leggi nella scienza e nella teologia. La informavano le teorie aristoteliche. Oggetto prima di sommo studio ed onore, Aristotele era divenuto addirittura popolare quando Federico II ne ordinò la traduzione delle opere in latino. Aristotele allora

3 GASPARY, La Scuola sic., pag. 135 e segg.

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s'infiltrò in tutte le scuole, fu commentato in tutte le università, studiato da tutte le persone colte; divenne il maestro venerato, l'autorità indiscussa in ogni parte dello scibile. Cosí la scolastica si estese, invase tutti gli spiriti e li accerchiò, costringendoli in sé e impicciolendoli. Essa rappresenta una parte della civiltà di quell'epoca, la parte piú sottile ed intellettuale, ma anche la piú gretta e noiosa.

Accanto alla pedanteria scolastica il vivere gaio e spensierato della società cavalleresca. La cavalleria fu il risultato de' diversi tentativi religiosi e politici fatti durante la barbarie de' secoli di mezzo per convertire la forza brutale ed egoistica delle classi guerriere in una forza umana e generosa, protettrice della società.1 Ed i due sentimenti, che ebbero maggior efficacia per indurre quegli uomini rozzi e feroci a proteggere la debolezza ed il diritto, furono l'amore e la religione. Per essi i barbari divennero cavalieri e la cavalleria fu un mezzo potente di civiltà e di gentilezza. Essa, penetrando in tutti i paesi, mutò ne' particolari negli accessori nella forma e nelle conseguenze morali e politiche, ma restò in fondo sempre la stessa dappertutto.

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Questa nuova forma sociale si manifestò presto anche in Italia, dove, modificatasi al contatto delle persistenti consuetudini romane, portò gli Italiani alla libera civiltà de' Comuni, a quella vita cosí gaia cordiale ed espansiva, che era in aperto contrasto colle passioni violente e feroci, reliquie della non lontana barbarie, colla grettezza della scolastica e col sentimento cupo ed atterrito degli asceti.

Il Gaspary nella sua Storia della Letteratura italiana 3 dice: Quest'epoca di entusiasmo religioso è stata un'epoca d'un allegro amor della vita; non tutti si disciplinavano, si amavano le feste splendide.... si formavano..... società di giovani per godere insieme le gioie della vita. E riporta testimonianze di contemporanei, come il grammatico Boncompagno, che narra (verso il 1215) nel suo Cedrus: "Si formano certe società di giovani, le quali si pongono nomi come la società dei falchi, dei leoni, della Tavola Rotonda e altri, e come il Villani, il quale nella sua Cronica (VII, 89) racconta che nel 1283 “si formò nel giugno alla festa di san Giovanni..... una compagnia di più di mille persone tutti in abiti bianchi, sotto un duce, che s'appellava Signore dell'Amore. Cosí il Villani ci descriverà altrove le maggiolate ed altri ameni passatempi di dame cavalieri popolani e popolane. Ora chi non vede nelle stesse testimonianze riportate dal Gaspary una prova dell'esistenza in Italia della cavalleria, nel suo aspetto piú ameno piú gioviale piú poetico, in quell' aspetto erotico sotto cui essa appunto figura nella lirica delle nostre origini? E di questa cavalleria il Gaspary negherà in

1 Dante et les origines de la langue Italienne par O. FAURIEL. Paris, Durand, 1854, Vol. II, pag. 281.

2 FAURIEL, loc. cit., pag. 282. La causa del ritardo d' una letteratura presso di noi non fu dunque la mancanza del contenuto, che anche presso le altre nazioni neolatine fu costituito dalla feudalità e dalla cavalleria. Ci mancava la lingua: ma la questione della lingua si collega con l'altra piú larga della tradizione latina, che forse tratterò poi separatamente.

3 Vol. I, pagg. 186-187.

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