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RIVISTA CRITICA E BIBLIOGRAFICA

Recensioni.

GIOVANNI Bovio Dante nella sua generazione: conferenza nella università di Roma nel 22 maggio 1896. Roma, Società editrice Dante Alighieri, 1896, in-8°, di pagg. 32.

Tale conferenza che presenta appena un profilo del poeta, è parte di una lotta combattuta contro uomini che non perdonano né alle culle né alle tombe con la coscienza che il pensiero è più forte di loro. Cosí l'A. in modo abbastanza nebuloso e indeterminato. L'alto ingegno e la dottrina del Bovio non hanno d'uopo certo della nostra illustrazione, e certo egli dice cose assennate e piene di verità; ma altre pure ne dice o ne lascia intravedere che non possono del tutto essere accettate.

Certo il Dante fu un solitario del suo tempo, un giusto la cui voce riusciva molesta a molti e non intesa da altri molti; certo in tempi come i nostri, nei quali si combatte una lotta senza vigore che pare un agonia del bene e del male, in cui allo sdegno manca il calore ed alla fede la sincerità, e sembrano smarriti i concetti di morale e di giustizia, ed a tratti si presenta quasi un cambiamento ormai non piú tanto lontano, si avrebbe bisogno di un grande solitario che, come il Poeta, in sé riassumesse la voce di tanti dolori e di tanti disinganni, e riconducesse un popolo disilluso e depresso a dissetarsi novamente alle fonti perenni del buono, del giusto e dell'onesto.

Questa voce dovrebbe essere quella del Poeta qual fu, o quale sarebbe se ei vivesse fra noi? Lo chiediamo, perché non tanto agevolmente può concedersi, p. es., al Bovio che oggi l'Alighieri si inchinerebbe reverente ai due tumuli di Caprera e di Staglieno. Le dottrine politiche di Dante non consentono, per quanto ammodernati anche i suoi principi, tale illusione. Certi espedienti politici che sono, piú che consentiti, lodati ai tempi nostri, non tutti li accettano né il Poeta li accetterebbe. Le sue riforme politiche doveano compiersi sempre entro l'orbita della legalità, e salvo sempre il rispetto dovuto alle piú alte e supreme istituzioni: quindi quelli stessi Cassio e Bruto, che sono glorificati da Cicerone e da Shakspeare, dal Poeta, che rifuggiva dall'assassinio politico e dal tradimento sia pure per un creduto scopo di bene, sono collocati nel profondo dell'inferno nelle tre bocche, con Giuda, dell'imperator del doloroso regno. Certe divergenze di vedute, nell'attuazione dei mezzi coi quali rimediare ai vizi di un dato reggimento politico, non sono nuove: sono anzi vecchie quanto il tempo. La morale politica dell'Alighieri, o noi

ci inganniamo, si fonda su principî immutabili e non contingenti. Oggi egli non avrebbe bisogno di cambiarli, come trovati fallaci, e si riassumono, come allora, nel principio direttivo unice di procurare ai popoli la pace mercé la giustizia. Per quanto trionfino Rifeo e Traiano nell'Aquila celeste, ed il Poeta mostri reverenza per Farinata, non per questo si può chiamare egli un precursore di Giordano Bruno. Come eresiarca Farinata è posto all'inferno, e la reverenza è solo dovuta al suo grande amore di patria; cosí Rifeo e Traiano trionfano nel cielo, per il grande amore alla giustizia, e non in odio ai teologi. Temiamo anzi che se il Bruno avesse precorso i tempi del Poeta, l'Alighieri lo avrebbe mandato a far compagnia a frà Dolcino. Altrove il Bovio trae i versi di Dante ad altra sentenza ch'ei non tenne. Cosí nel1'" etica da D. a Bruno si citano i due versi, per lor maledizion si non si perde Che non possa tornar l'eterno amore, per far vedere il liberalismo del Poeta, e nella conferenza che si esamina si dice che dove s. Tommaso inspira l'anima rassegnata, Dante vuole spirito nuovo di virtú repleto. Ora non si può citare dal Poema in tal guisa. Questo verso è una perifrasi, per dire che l'anima intellettiva è spirata da Dio direttamente nel feto quando ormai sono in lui formate le altre due anime, la vegetativa e la sensitiva, e non esprime affatto l'idea che l'anima deve esser ribelle piuttostoché rassegnata. Rassegnata o no, ai voleri del cielo, l'anima è sempre spirito nuovo di virtú repleto, separato dalla materia vegetativa e dalla sensitiva. Si stabilisce cioè che l'anima non è fenomeno dinamico della materia viva, ma puro spirito da essa indipendente. Egualmente lo scomunicato dal pontefice può tuttavia, come Manfredi, salvarsi, non in ispregio e in derisione della scomunica, ma solo mentre che la speranza ha fior del verde, il qual verso segue gli altri due ed è complemento del concetto racchiuso in essi. Lo scomunicato può salvarsi, purché si ravveda prima della sua morte: nel qual ultimo istante solo Iddio (l'eterno amore) può perdonarlo e non più il suo Vicario in terra fisicamente impossibilitato a farlo. Cosí sparisce ogni idea di contraddizione, di ribellione alle somme chiavi.

Nebuloso pure apparisce il concetto, che l'operatore sia più grande dell'artista e del pensatore, mentre senza un precedente pensiero riflesso non può darsi operazione qualsiasi, e la vita attiva non può che attuare la contemplativa. Si accorda invece al Bovio che l'arte non possa sottrarsi alla scienza. Oggi la scienza è generalmente anti artistica e l'arte indotta. Gli scienziati guardano quasi con ischerno alle lettere e queste vivono all'infuori del movimento delle scienze, sí che versi e prose, di pressoché tutti i periodici letterarî, rivestono di bella forma solo delle quisquilie e delle superficialità. Il Poliziano invece disposò la filologia al diritto e fondò la giurisprudenza elegante; Cino da Pistoia era maestro di diritto a Bartolo da Sassoferrato; Omero, Virgilio, l'Alighieri sono fonti e testi di diritto; il Ponta e il Mossotti (per citarne solo qualcuno) bellamente disposarono lo bello stile alla scienza astronomica e matematica; e di tal modo il concetto scientifico raggiunge la sua migliore espressione e le belle lettere acquistano succo di vi

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Jose. Guer's completa quella Fede che non è cieca, supersudije, kaklo, k you you onto a una voce intima che tuttavia la dica asRuths, we refra&mettinata per forza di ragionamento che persuade dhe kom in fide, waso contrario, sarebbe assurdo. Il connubio della rapione RAK, AMG trova in san Tommaso è ripetuto nella Commedia e DOD & John v.4% in disparte come inconciliabile.

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Non ostente se i proconcetti l'opera del Bovio si giudica utile nella cerwww che i voch mi dopo udita la voce di lui, studiando le opere dell'immortale porta, da z rettificheranno gli errori del maestro.

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SILVIO SCAETTA.

per la prima volta. Città di Castello, S. Lapi tipografo-editore, 1896, Dante Vaticano e l'Urbinate descritti e studiati in 10% (41 44 44 della Collezione di Opuscoli danteschi).

I due codici descritti nell'opuscolo del Franciosi sono il notissimo Vaticano 3199 donato dal Boccaccio al Petrarca e l'Urbinate 365, pur esso ap

partenente alla grande biblioteca romana. Il Franciosi divide il suo lavoro n tre parti. Nella prima descrive minutamente i due codici riproducendo dal primo lo stemma di Dante le postille e descrivendo con particolare diligenza le miniature che si contengono in tutti e due. Nélla seconda parte pubblica lo spoglio delle varianti secondo il canone proposto dalla Società dantesca italiana e nella terza finalmente raccoglie le considerazioni tratte dagli studî che precedono.

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Rispetto alle prime due parti confidiamo nella diligenza dell'autore, mancandoci la possibilità di verificarne l'esattezza sui codici; c'intratterremo invece sull'ultima nella quale il Franciosi espone i risultati del suo studio. Il Vaticano 3199, come tutti gli studiosi di Dante sanno, è della seconda metà del secolo decimoquarto come quello che fu inviato dal Boccaccio al Petrarca. Inviato si, ma non scritto dall'autore del Decamerone lo crede il Franciosi, stimando che nessun documento possa avvalorare questa opinione e non essendo utile un riscontro cogli autografi del Boccaccio che ci forniscono solo esempi di carattere corsivo e non calligrafico come è quello del codice dantesco. "La rara bellezza della membrana, l'ampiezza straordinaria dei margini, la magistrale nitidezza ed uniformità della lettera, i fregi, gli stemmi, tutto fa pensare che abbiam dinanzi, non già una trascrizione di letterato come il Terenzio mediceo e il Boezio Vaticano, ma un superbo lavoro calligrafico fatto eseguire a bella posta e per regalarne persona di conto Cosí osserva il Franciosi; ma non mi rettamente, pare perché non mancano esempi di codici scritti con eleganza da letterati; valga per tutti un esempio, il codice cioè 3195 Vaticano, contenente le poesie del Petrarca trascritte in parte dal Poeta. Se non che nella disputa, il Franciosi mette innanzi un fatto che taglierebbe, come si dice, la testa al toro. Secondo lui nelle abitudini ortografiche e calligrafiche di chi scrisse il Vaticano 3199 si manifesta a chiare note la mano di Francesco di ser Nardo da Barberino in Val d'Elsa 2 a cui si attribuiscono i Danti del Cento. La cosa non è impossibile, e fu sospettata già da altri, ma sarebbe stato necessario che il Franciosi l'avesse dimostrato in modo chiaro ai lettori. Per indurre in essi la persuasione che in lui è salda, occorreva pubblicare un facsimile più ampio del codice che non sia quello di una semplice parola che è per giunta una postilla da lui attribuita all' amanuense. 3 Cotesto documento è troppo fallace e manchevole per una conclusione cosí importante come quella cui sarebbe giunto il Franciosi. Inoltre non basta il raffronto colla scrittura dei Danti del Cento sicuri: occorreva fare un raffronto della lezione del Vaticano con quella dei Danti di ser Francesco; raffronto che gli spogii del Marchesini porgevano facile. Io ho fatto il raffronto dei po

"

Si vedano in proposito le osservazioni di P. DE NOLHAC, Fac-similés de l'écriture de Pétrarque et appendices an Canzoniere autographe„ in Mélanges d'archéologie et d'histoire, VII, 3 e segg.

Dev'essere errore di stampa Val di Pesa come scrive il Franciosi.

3 Si veda il n' IV nella pagina in cui è riprodotto in facsimile il carattere dei postillatori,

chi versi che per caso si trovano nel Canone della Società dantesca e sono riferiti dal Franciosi di sul Vaticano, cogli spogli del Marchesini e ho trovato che i codici fiorentini del Cento discordano quasi sempre dal Vaticano. Certo questa discordanza da me rilevata non può permetterci di negare l'asserzione del Franciosi, ma basta a renderla dubbia e a far nascere il bisogno di uno studio piú profondo.

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Quanto alle postille del codice il Franciosi non concorda col Pakscher il quale avea creduto di vedere in alcune di esse la mano del Boccaccio. Secondo lui la prima" al. laperto, appartiene a Francesco di ser Nardo da Barberino che l'avrebbe tratto forse dal margine di un esemplare della Commedia, da lui tenuto sott'occhio. Le tre seguenti di la, fansi, tor. „ sarebbero del Petrarca e cosí anche altre otto "il dipartiro, pastura, Gherardo, men, a le, ciel, alti, sua. Queste ultime sono sparse nel solo Purgatorio e, secondo il Franciosi, hanno un valore psicologico. "Sarà strano pensare, egli dice, che il Petrarca, in cui rigermogliò l'anima di Virgilio, rinnovellata ai soli della Provenza e all'ombre pensose dell'Umbria, si soffermasse più volentieri pe' cerchi della montagna santa che non giú nel cupo dell'abisso? E seguita notando certa corrispondenza fra i sentimenti del Petrarca e la qualità degli episodi presso a' quali si trovano le rare postille. Altre infine di queste postille appartengono secondo poté accertare il Franciosi, a Bernardo e a Pietro Bembo. Quanto alle miniature il Franciosi ripete l'osservazione del Taüber secondo il quale esse tengono dell'ingenuità un po' ruvida di quelle dei Danti del Cento, ma non offrono le stesse immagini. Il che dovrebbe anche far pensare un po', prima di dar per cosa certa che il Vaticano 3199 fosse di quelli che servirono a ser Francesco per maritare le sue figliuole. Rispetto all'arte il Franciosi riconosce che esse rivelano nel miniatore calligrafo "assai buona conoscenza del Poema,,; infatti quelle miniature non sono del tutto ornamentali, ma illustrano passi della Commedia. In fine quanto al testo il codice è giudicato ragionevole se non ottimo com' ebbe a dire il Borghini.

Passando a discorrere del codice urbinate il Franciosi ne mette in rilievo. la bontà del testo esaminando alcuni particolari luoghi e poi viene a parlare delle miniature per le quali l'Urbinate è molto superiore al Vaticano 3199. Queste miniature furono già argomento di studio e variamente attribuite ora ad uno ora ad altro artista. Senza tener conto dell'opinione di Pietro Selvatico estense, che le attribuisce allo scrittore medesimo del codice, Matteo de' Contugi, ricorderemo come il Lacroix, il Beissel, il Bradley, il Müntz le attribuiscono a Giulio Clorio; il D'Agincourt quelle della seconda cantica alla scuola del Perugino, quelle della terza alla scuola degli Zuccheri; il Barlow quelle nell' Inferno crede opera del Mantegna o della sua scuola e finalmente Ludovico Volkmann sta incerto tra Pier della Francesca e il Mantegna. Ultimamente il Cozza Luzi ritrovò nella Vaticana i bozzetti delle miniature ch'egli crede opera del Clovio, e raffrontatili colle nostre e colle miniature delle Vite dei Duchi d'Urbino (cod. Urb. 1764-1765) è venuto nella

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