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barda; ma possiamo imaginare che codesta rettoria non sarà stata senza difficoltà, poiché in quest'anno appunto i Forlivesi, con l'aiuto dei conti di Romena e di Bagnacavallo, tentavano di rimettere in Faenza la parte ghibellina degli Accarisi e abbattere la parte guelfa dei Manfredi; preludio all'aspro assedio che l'anno di poi doveva porre alla città l'imperatore Federico II in persona.

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I fatti civili e militari del Lambertazzi durante le tre podesterie faentine dovettero levar alto il grido del suo nome, sí che, non solo il ricordo di lui sopravvisse in Romagna per piú di mezzo secolo dopo la sua morte, ma le città dell'alta e della media Italia gareggiarono quind’innanzi nel chiamarlo a reggerne il governo; e cosí la sua rimanente vita è tutta una serie di podesterie esercitate in Comuni di primaria importanza: a Brescia nel 1240, 3 a Viterbo nel 1244-45, a Pistoia nel 1251, di nuovo a Brescia nel '52,6 a Pisa nel '52-53 per diciotto mesi, a Modena dall'agosto '54 al dicembre '55 insieme col suo concittadino Alberto Caccianemici, a Pisa un'altra volta nel '56' e finalmente a Forli nel '58,10 il Lambertazzi tenne l'alto ufficio con sapienza e valore, si che anche di lui si sarebbe potuto dire che in sua vita fece col senno assai e con la spada. Le frequenti podesteríe non gli lasciarono tempo da consacrare agli interessi della sua parte in Bologna, presso la quale, se non ne fu proprio il capo effettivo, senza dubbio fu dei piú autorevoli e principali uomini: prova questa, che, convocato nell'aprile del '54 da Tommaso da Fogliano conte di Romagna un parlamento in Ravenna, per provvedere ai mali delle città romagnole turbate dalle fazioni, Fabro fu uno dei pochi cittadini bolognesi che vi parteciparono; e anche quest'altra, che quando Alberto Greco, designato podestà di Bologna per il 1258, promise in Roma a Brancaleone degli Andalò d'esercitare il rettorato nell'interesse di parte ghibellina, nominò in particolare il Lambertazzi e Castellano e Loderengo degli Andalò, che erano di fatto i capi del ghibellinismo bolognese. La podestería forlivese fu l'ultimo atto della vita operosa di Fabro Lambertazzi, 13 per

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1 SAVIOLI, III, II, 182-183: de Fauentia. Faber Lambertacciorum Pot. et rector.

2 MITTARELLI, pag. 320.

3 F. ODORICI, Tavola dei consoli, podestà, vicarii, ecc. di Brescia nei Monumenta Patriae Historiae, vol. XVI, pag. 1584 e seg.: 1240. D. Faber D. Bonifatii Guidonis de Guizzardo.

* G. SIGNORELLI, I potestà di Viterbo negli Studi e documenti di storia e diritto, vol XIII, pag. 355 e segg., da documenti del Liber Clavium assegna alla podesteria di Fabro il 1244-45: il SAVIOLI III, I, 197 la mette al 1246.

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* SAVIOLI, III, I, 249 che cita il SALVI, Ist. Pistoiesi, I, 193.

F. ODORICI, loc. cit.: 1252 febb. D. Faber D. Bonifacii Guidonis Guizzardi bon.

7 Savioli III, I, 268. Nei Fragmenta hist. pisanae in MURATORI XXIV, 644 non è dato alcun nome nel 1253, e nel 1254 Messere Fabro da Bologna podestà mesi 18; ma le date sono secondo lo stile pisano.

8 Annales veteres mutinenses in MURATOR XI, 64; G. da BAZZANO in MUR. XV, 564. ? SAVIOLI III, I, 300 e Fragmenta cit., pag. 645.

10 Non è data dagli storici, ma da un documento nella Classense (Porto n. 1824 G), sentenza pronunziata il 27 aprile 1258 in una causa civile da Rangonus Iudex et Assessor D. Fabri quondam D. Bonefatii Guidonis Guizzardi Potestatis Foroliuii.

SAVIOLI, III, I, 274, 282.

12 SAVIOLI, III II, 354.

13 Resta altresi memoria che Fabro Lam bertazzi fu chiamato podestà a Bagnacavallo in un

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ché nel 1259 egli morí, lasciando alcuni figliuoli che pochi anni di poi si trovarono involti in quelle fierissime lotte coi Geremei onde procedette la rovina della lor casa e della loro parte. E poiché i ghibellini bolognesi si dispersero quind' innanzi per le terre di Romagna, logorandosi per molti anni in vani sforzi per riacquistare le loro sedi in patria, s'intende agevolmente che in Romagna restasse vivo il ricordo di Fabro, che era stato uomo di sí grandi fatti e di sí gran nome, e restasse vivo nella memoria dei partigiani d'impero, sino a che Dante raccogliendolo dalle bocche dei ghibellini lo eternò nelle sue carte immortali, come quello di uno dei piú valorosi e savi uomini dell'antica Romagna.

Se Fabro de' Lambertazzi fu preso per un artigiano, Bernardino di Fosco fu detto figliuolo d'un lavoratore di terra, quasi a dichiarar meglio, precisandola, la parola dantesca: verga gentil di picciola gramigna! Anzi il Lana, del quale è ben singolare l'ignoranza storica che ei dimostra a questo canto, diè a questo proposito un'interpretazione, rimasta, per quanto io so, senza seguito, poiché egli manifestamente prese il ricordo di Fabro (che per lui era “un fabbro,) e di Bernardino come esempi della degenerazione romagnola: "Qui esclama contra tutti soggiungendo che sono abastarditi, quasi a dire estranaturati dalli nostri antecessori larghi e curiali; e questa difettuosa natura ha esordio quando a Bologna venne un fabbro, cioè uno di minima condizione, e quella reggé; e similemente quando in Faenza s'allignò un Bernardino di Fosco, il quale era uomo di piccola condizione e reggeva quella terra,; e la verga gentil significava per il commentator bolognese l'uomo che vuole parere nobile, ed è di vile parentado „. Ma questa interpretazione del Lana peccava, in modo troppo evidente, non pur contro la storia, sí ancora e piú contro lo svolgimento logico dell' episodio dantesco, dove è studio del poeta di enumerare a rimprovero dei viventi le virtú e le cortesie degli avi; come intesero rettamente gli altri commentatori, a cominciare dall'Ottimo:, Detto di sopra di quelli che furono di gentile schiatta e conservarono o avanzarono li nomi e la fama di loro precessori in magnanimitade ed in lieto vivere; qui parla di quelli che, nati in vile luogo, montano in pregio per loro opere... Se non che, anch' egli l'Ottimo e più altri con esso, allargarono erroneamente a Fabro de' Lambertazzi l'attributo di verga gentil di picciola gramigna, che non par dubbio Dante intendesse di riferire solamente a Bernardino di Fosco. Il Lambertazzi non era, è vero, di famiglia feudale o comitale, come altri dei ricordati con lui; sí

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tempo non bene precisato, ma prima del 1253, ma non v'andò o non poté andare; e ne sorse una controversia alla quale si riferiscono piú documenti noti (cfr. SAVIOLI, III, I, 306) e specialmente uno del 12 settembre 1257 riassunto dal BALDUZZI negli Atti e mem. delle RR. Deput, di storia patria per le provincie dell'Emilia, nuova serie, vol. VII, parte I, pag. 137.

La data della morte di Fabro è nel SAVIOLI III, 1, 333, non so per altro da qual fonte dedotta certo dopo il 1259 non si trova piú menzione di lui, e in un atto del 7 agosto 1260 in MITTARELLI pag. 321 egli è indicato come defunto.

2 Com., II, 163; ma qui e altrove sarà da correggere il testo, corrotto nell'edizione dello Scarabelli.

3 Ott. Comm., II, 250.

era di nobiltà cittadina, di famiglia antichissima, gloriosa di consoli, di potestà, di cavalieri crociati, di poeti, ricca di possessi di case di torri, capo di fazione in città principalissima, era uno dei grandi antichi e gentili uomini ghibellini, come allor dicevasi, in un comune guelfo, di razza adunque aristocratica e magnatizia, e mal sarebbesi qualificata la sua stirpe come " picciola gramigna,. Invece le origini di Bernardino di Fosco erano oscure, e recenti le grandezze e ricchezze sue; e cosí l'attributo dantesco acquistava valore di una determinazione storica assai precisa. Udiamo gli antichi commentatori, che raccolsero tradizioni tarde, ma non senza alcun fondamento di vero. Seguita l'Ottimo: "Questo messer Bernardino, figliuolo di Fosco, lavoratore di terra e di vile mestiero, con sue virtuose opere venne tanto eccellente, che Faenza di lui ricevette favore; e fu nominato in pregio, e non si vergognavano li grandi antichi uomini venirlo a visitare per vedere le sue orrevolezze ed udire da lui leggiadri motti". Benvenuto: "Iste Bernardinus fuit filius Fusci, viri rustici, sed virtute sua honoratus in patria, ad quem non erubescebant nobiles faventini accedere, ut audirent eius bonas sententias et pulcra scommata; et eius dicta moralia et notanda allegabant. Con maggiore abbondanza, l' Anonimo fiorentino, nel suo bel volgare: "Fu questi nato di piccola gente, et fu cittadino di Faenza, grandissimo ricco uomo; et tenea molti cavalli et molti famigli, et avea imposto a' famigli suoi che chiunque chiedesse veruno de' cavalli suoi, che a tutti gli desse. Avvenne che un dí, volendo costui cavalcare a' suoi luoghi, comandò a' famigli che facessero porre la sella a' cavalli; fugli detto che tutti erano prestati: mandò richeggendo de' cavalli de' cittadini, et perché erono in diverse faccende aoperati, veruno ne poté avere. Chiama uno suo famiglio, et fassi recare uno libro per giurare; il famiglio, che il conoscea cortese, perché egli non giurasse cosa ch'egli s'avesse a pentere, credendo che del caso fosse irato, non gliele volea recare: nell'ultimo, avendogli recato il libro, giurò che mai niuno cavallo gli sarebbe chiesto, quantunque egli n'avesse bisogno, ch'egli non prestasse; però ch'egli avea provato quanto altri avea caro d'essergli prestati, quando altri n' avea bisogno,.

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Queste tradizioni tarde non hanno, si capisce, un gran valore storico; pur sono osservabili come testimonianza della fama di Bernardino di Fosco sopravissuta in Romagna per oltre un secolo dal tempo in cui egli si può creder fiorito. Poiché è ben singolare che di tanto uomo, quale ci apparirebbe dall'accenno dell'Alighieri, non sieno rimaste memorie certe nelle carte contemporanee. Che Bernardino fosse figliuolo di un lavoratore di terra, non farebbe maraviglia; perché ben sappiamo come in Romagna nel secolo XIII e di poi attendessero e lavorassero di lor mano ai propri campi anche persone assai facoltose: potrei citarne molti esempi, confortati di prove indiscutibili, tra i quali mi contenterò di ricordare i progenitori degli Attendoli di Cotignola. Ma seb

1 Com., III, 390.

2 Comm., II, 229.

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bene sieno assai frequenti nelle carte romagnole del dugento i campagnoli di nome Fosco o Foscolo, nessuna di tanta antichità mi è occorsa con quel nome da potervisi ravvisare il ricordo del padre di Bernardino, “verga genti di picciola gramigna „: la più vecchia, ma già non fa piú al caso, concerne un Fosco da Corneto, della corte di San Cassiano nel distretto faentino, che aveva terre in Albereto, a pochi chilometri da Faenza nel 1289. 1 Né di Bernardino e dei suoi fatti possiamo dir molto, oltre ciò che s'è udito raccontare dai commentatori antichi di Dante: pare fuori di questione che egli nel 1249 fosse podestà di Siena e probabile che nel 1248 avesse esercitato lo stesso ufficio in Pisa, mentre è piú che dubbio che nel 1233 l'avesse tenuto a Lucca. Piú onorevole menzione è fatta di lui, come uno dei tenaci difensori di Faenza contro Federico II, il quale, posto l'assedio all'animosa città nell'agosto del 1240, vi si affaticò intorno quasi un anno, poiché non riuscí ad averla in sue mani se non nell' aprile del 1241. Durante l'assedio Faenza era retta dal veneziano Michele Morosini podestà, intorno al quale si raccoglievano i primi della città e gli alleati di fuori; e grande corse per l'Italia il grido della loro ostinata difesa, tanto che un poeta straniero, Ugo di Sain Circ, dalle terre della Marca trivigiana, ov'era ospite dei signori da Romano, mandò loro un serventese d'incoraggiamento e di lode:

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Un sirventesse vueill faire....

que farai a Faiensa mandar an Guillelmi,
et al comte Gui Guerra en Miquel Moresi,
et an Bernart de Fosc et a sier Ugoli,

et als autres que son lains de lor vesi;

e sapchan, com c'a lor de laintre esti,

quel sens, el noms, el pretz, el laus c'om de lor di,

los coronan d'onor, sol fassan bona fi".

Sebbene non facessero buona fine, pur gli assediati uscirono di quella lotta coronati d'onore, come augurava il vagabondo trovatore; e forse per le prove fatte nell'assedio della patria, piú che per altre cagioni di merito, rimase cosí lungamente viva in Romagna la memoria di Bernardino di Fosco, rinfrescata ed eternata poi da Dante con uno di quei mirabili accenni cui debbono tanti uomini la loro immortalità.

(Continua).

1 Archivio Comunale di Ravenna, S. Vitale, vol. 559, c. 24".

TOMMASO CASINI.

A. DEI, Cron., in MURATORI XV, 27: 1249, Berardino Foschi da Faenza podestà.

Fragm. hist. pis. in MURATORI XXIV, 644 all'anno 1249 (stile pisano): Messere Bernardo da Faenza podestà anno uno.

A Domino Bernardo di Romagna registra come podestà di Lucca nel 1233 l'Antica cron. volg. pubbl. da S. BONGI, Lucca 1892; ma si vedano la serie dei podestà lucchesi del CIANELLI in Mem. e documenti di storia lucch. II, 315 e segg. e la piú completa del BONGI, Inventario del R. Arch. di Stato in Lucca, II, 306, e segg.

Annales Caesenates in MURATORI XIV, 1097; P. CANTINELLI in MITTARELLI, pag. 233.

6 Cito dall'ottimo Manualetto provenzale di V. CRESCINI, Padova 1892, pag. 139; rinvio, per chi fosse curioso di conoscere le discussioni fatte su questo serventese, al mio studio I trovatori nella Marca trivigiana nel Propugnatore, vol. XVIII, p. I, pag. 149 e seg. e a quello di N. ZINGARELLI, Un serventese di U. di S. C. nella Miscellanea di filol. e linguistica in memoria di N. Caix e di U. A. Canello, Firenze, 1886.

DANTE E FRANCESCO DA BARBERINO

Mentre studiavo i due poemi del Barberino per vedere quanto delle immaginazioni e della lingua di questo scrittore si trovasse nelle rime del Petrarca, venivo ad ora ad ora notando una certa corrispondenza di pensiero e di forma tra quelli e la divina Commedia, massime tra i luoghi del Reggimento in cui si svolge l'allegoría di Madonna e il contenuto dei primi canti dell'Inferno.

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Possibile, ho domandato a me stesso, che tra tanti studiosi del trecento non se ne sia avveduto nessuno? Eppure, non se ne è avveduto il Thomas, il cui libro deve essere il punto di partenza per ogni successivo studio sul Barberino, ma che parla assai brevemente del contenuto dei lavori di questo; non gli altri critici, che di proposito o di passata si sono occupati del Barberino; non quelli che hanno descritto la fortuna di Dante. Solo il prof. Antognoni aveva intravisto che forse uno studio su le allegorie usate ne' poemi dottrinali del nostro e da lui stesso dichiarate nel commento latino ai Documenti potrebbe recar qualche luce, alla Commedia: ma, nel modo stesso un po' inderterminato e fugace con cui si esprime, è chiaro che egli intende parlare di luce che potrebbe venire sullo svolgimento storico dell' allegoria nel trecento, in generale, e sulla retta interpretazione di alcuni passi allegorici della Commedia in particolare. Tant'è, posso dunque dire co! Kerbaker, la fortuna alcuna volta conduce i disadatti a fare certe scoperte, a cui non arrivano gli accorti, coi piú validi argomenti dell'ingegno e della dottrina".

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Ho voluto notar tutto ciò e in servigio, dirò cosí, della storia della trattazione e perché fosse rilevato che le seguenti osservazioni sono nate spontancamente, senza che le andassi cercando col lanternino; onde hanno, mi pare, tanto più valore. Le credo poi di grandissima importanza, giacché per esse si potra determinar meglio il particolare carattere delle opere barberiniane, e si potrà aver nuovo, insperato documento per fissare la data delV'Inferno.

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› Prancesco da Barberino et la litterature provençale en Italie au moyen âge. Paris, 1883. * "Un contemporaneo di Dante e i costumi italiani, in Saggio di studi sopra la Commedia di Dante, Livorno, 1993. pag. 60

* Lo studio, cui accenna PAntognoni, e il nostro, cul né egli né altri ha pensato, condotti in certa guisa, si lumeggerebbero a vicenda, Noi, grati all'egregio professore delle gentilezze usateci, lasciamo a lui il compito del primo, contenti solo di potere col nostro sollecitare un po' 11 800,

Amd. R. Acc, Arch, left, art, di Napoli, XIII, parte I, pag. 2.

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