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Sì che Prudenza ed ogni sua sorella
Abbi tu teco, e tu non lor rubella.
Serena e gloriosa in sulla ruota
D'ogni beata essenza

(Se questo fai), regnerai onorata;

E'l nome eccelso tuo che mal si nota

Potrà poi dir Fiorenza,'

Dacchè l'affezïon t' avrà ornata,

Felice l'alma che 'n te fia creata!
Ogni potenza e loda in te fia degna:
Sarai del mondo insegna.

Ma, se non muti alla tua nave guida,
Maggior tempesta con fortunal morte
Attendi per tua sorte,

Che le passate tue piene di strida.
Eleggi omai, se la fraterna pace
Fa più per te o'l star lupa rapace.

Tu te n'andrai, Canzone, ardita e fera,
Poichè ti guida Amore,

Dentro la Terra mia, cui doglio e piango;
E troverai de' buon, la cui lumiera

Non dà nullo splendore,

Ma stan sommersi e lor virtù è nel fango.
Grida Sorgete su, chè per voi clango.
Prendete l'arme, ed esaltate quella;
Chè, stentando, viv' ella,

E la divoran Capaneo e Crasso,
Aglauro, Simon Mago, il falso Greco,
E Macometto cieco;

2

Chè tien Giugurta e Faraone al passo.

Poi ti rivolgi a' cittadin suoi giusti,
Pregando sì, ch'ella sempre s' augusti.

Potrà poi dir Fiorenza. Così leggiamo col Perticari. Il Dionisi,

col quale tengono il Fraticelli ed il Giuliani, vuole piuttosto leggere:

Potra' poi dir Fiorenza, Nella nostra lezione si ha questo senso: O Patria, quando avrai ciò fatto, il tuo nome, che pel suo senso altissimo, ed al quale con proprio danno non si pone mente, è veramente eccelso, significherà Fiorenza, cioè la città florida, la città de' bianchi fiori, e di virtù e civiltà fiorente. Nella seconda lezione siamo costretti a togliere il pensiero da Patria per concentrarlo a Fiorenza, e dire che questa potrà dire eccelso

il suo nome (quando avrà ciò fatto); mentre tal nome è sempre eccelso per sè, però mal si notava, e Fiorenza ma lo portava. Dante fa spesso allusione al nome di Fiorenza, dandolo anche alla celeste Gerusalemme veduta in forma di florido giardino e di eterna primavera.

2 Chè tien. Il Cod. Ottoboni 2321 legge: Tenendo. Il Giuliani vorrebbe seguirlo. Posi l'accento sopra chè, dandosi ragione del perchè Fiorenza vive stentando ec.

SONETTO XXXV.

È indirizzato a Cino da Pistoia, perchè si corregga dalla sua leggerezza e volubilità di amare.

II Sonetto pare scritto negli ultimi anni della vita di Dante.

Io mi credea del tutto esser partito
Da queste vostre Rime, messer Cino;
Chè si conviene omai altro cammino
Alla mia nave già lunge dal lito.

Ma, perch' i' ho di voi più volte udito,
Che pigliar vi lasciate ad ogni uncino,
Piacemi di prestare un pocolino

1

A questa penna lo stancato dito.

Chi s'innamora, siccome voi fate,
Ed ad ogni piacer si lega e scioglie,
Mostra, che Amor leggiermente il saetti.
Se il vostro cuor si piega in tante voglie,
Per Dio vi prego, che voi 'l correggiate,
Sì che s'accordi il fatto a'dolci detti.

Piacemi. Alcune stampe leggono male: Piacciavi.

2 il fatto. Così leggesi in un Cod. Laurenziano. La lezione comune ha: i fatti. Così abbiamo una discor

2

danza di numero col verbo, la quale non si trova nell'Alighieri se non forse in qualche passo del Convito. Seguiamo il Fraticelli ed il Giuliani.

SONETTO XXXVI.

Risponde a Giovanni Quirino, confortandolo a spregiare i beni vani e guardare al secolo futuro.

Lo re che merta i suoi servi a ristoro
Con abbondanza, e vince ogni misura,
Mi fa lasciare la fiera rancura,

E drizzar gli occhi al sommo Concistoro.
E qui pensando al glorïoso coro
Dei cittadin della Cittade pura,
Laudando il Creatore, io creatura
Di più laudarlo sempre m'innamoro.

Chè, s'io contemplo il gran premio venturo,
A che Dio chiama la cristiana prole,
Per me nient'altro che questo si vuole:
Ma di te, caro amico, sì mi duole,
Che non rispetti al secolo futuro,
E perdi per lo vano il ben sicuro.

PARTE TERZA.

GLI AMORI CON GENTUCCA DEGLI ANTELMINELLI.

CANZONE XIII.

Dice di essere nuovamente innamorato, essendo preso di Gentucca degli Antelminelli.

La Canzone è drizzata a Moroello Malaspina nel 1306.

Amor, dacchè convien pur, ch'io mi doglia, Perchè la gente m'oda,

E mostri me d'ogni virtute spento;

Dàmmi sapere a pianger com' ho voglia,1
Sì che il duol che si snoda

Portin le mie parole, come 'l sento."

Tu vuoi ch'io muoia ed io ne son contento;
Ma chi mi scuserà, s' io non so dire

Ciò che mi fai sentire? 3

Chi crederà, ch' io sia omai sì còlto?

Ma se mi dài parlar quant' ho tormento,"
Fa', mio Signor, che innanzi al mio morire,
Questa rïa per me nol possa udire;
Chè, se intendesse ciò, ch'io dentro ascolto,
Pietà faría men bello il suo bel volto.

Io non posso fuggir, ch' ella non vegna
Nella immagine mia,

Se non come il pensier che la vi mena.

L'anima folle che al suo mal s'ingegna,
Com'ella è bella e ria,

Così dipinge, e forma la sua pena;

Poi la riguarda, e, quand' ella è ben piena
Del gran desío, che dagli occhi le tira,
Incontro a sè s'adira,

Che ha fatto il foco, ov'ella 5 trista incende.
Quale argomento di ragion raffrena,
Ove tanta tempesta in me si gira?"
L'angoscia che non cape dentro, spira
Fuor della bocca sì, ch'ella s'intende,
Ed anche agli occhi lor merito rende.
La nemica figura che rimane
Vittoriosa e fera,

E signoreggia la virtù che vuole,
Vaga di se medesma, andar mi fane
Colà, dov' ella è vera,

7

Come simile a simil correr suole:

Ben conosch'io, che va la neve al sole;
Ma più non posso: fo come colui

Che, nel potere altrui,

Va co' suoi piè colà, dov' egli è morto:
Quando son presso, parmi udir parole
Dicer: Via via, vedrai morir costui?
Allor mi volgo per vedere, a cui

8

Mi raccomandi: a tanto sono scôrto

Dagli occhi che m'ancidono a gran torto! Qual io divegna, sì feruto, Amore,

Saitilo tu, non io,

Che rimani a veder me senza vita;

E, se l'anima torna poscia al core,

Ignoranza ed oblio

Stato è con lei, mentre ch'ella è partita: Com' io risurgo, e miro 10 la ferita

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