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SUL VOLGARE ELOQUIO.

Due nostri antichi scrittori, Giovanni Villani1 e Giovanni Boccaccio, l'uno contemporaneo di Dante Alighieri, l'altro di poco ad esso posteriore, affermarono essere stata da lui scritta un' Opera intitolata De Vulgari Eloquio: e Dante istesso avea detto nel suo Convito ; 3 che se gli bastasse la vita, avrebbe un giorno dettata un' Opera di Volgare Eloquenza. Di quest' Opera due soli libri, comecchè di quattro dovesse comporsi," sono a noi pervenuti, sia che alla morte dell'Alighieri andassero gli altri perduti, sia che l'Opera non fosse portata al suo compimento per l'affrettata fine dello scrittore. Di questa seconda opinione, che a me par la più vera, sono ambedue gli scrittori summentovati. Quest' Opera vide primamente la luce in Vicenza nel 1529, non però nel suo originale latino, ma sibbene in un' italiana traduzione d'anonimo, che alcuni dapprima supposero falsamente

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Altresi fece Dante uno libretto, che s'intitola De Vulgari Eloquio, " ove promette fare quattro libri; ma non se ne trova se non due, forse » per l'affrettato suo fine, ove con forte e adorno latino e belle ragioni ripruova tutti i volgari d'Italia. » GIO. VILLANI, lib. IX, cap. 136.

« Appresso, già vicino alla sua morte, compose Dante uno libretto >> in prosa latina, il quale egli intitolò De Vulgari Eloquentia; e come per » lo detto libretto apparisca, lui avere in animo di distinguerlo e di ter» minarlo in quattro libri, o che più non ne facesse dalla morte soprappreso, o che perduti sieno gli altri, più non appariscono che i due pri"mi. >> BOCCACCIO, Vita di Dante.

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a Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libro che io intendo di fare, Dio concedente, di volgare eloquenzia. » Convito, » Tratt. 1, cap. 5.

V. De Vulgari Eloquio, lib. II, cap. 4 e 8.

esser Dante medesimo, e che quindi fu riscontrato essere il Trissino. L'originale latino fu poi nel 1577 dato alla luce in Parigi da Jacopo Corbinelli, cui Pietro del Bene, gentiluomo fiorentino, rimise l'unica copia MS. che fosse allor conosciuta, e che da lui era stata in Padova ritrovata.

Le scritture dettate in lingua volgare non rimontavano al tempo di Dante a molto antica data, perciocchè (secondo che dice pure egli stesso) non se ne avea d'anteriori al 1150. Ma qual era allora, e qual poteva essere quel volgare, se non un miscuglio informe di varii dialetti? Ond' egli, valendosi degli elementi che presentavagli la lingua parlata, scegliendone le voci migliori, e dando loro e forma e regole, concepì l'idea di fondare un idioma, che in bellezza, in dolcezza e in efficacia pareggiasse la lingua del Lazio, e fosse accomodato a tutte le parti d'Italia come organo generale della manifestazion de' pensieri degl' Italiani. Ed ei fu il primo che un'idea siffatta concepisse; idea che nella sua attuazione tornavagli opportuna per volere egli dettare in questo perfezionato volgare il suo grandioso e direi enciclopedico Poema. L'argomento adunque d'un' Opera intorno il volgare linguaggio se era interessante al tempo dell' Alighieri, non lo è meno al presente, dopo tante questioni mosse intorno la lingua nostra, e non ancor terminate.

Incomincia l'Autore la sua trattazione dall' origine dell' umana loquela, e dice che per volgare idioma intende quello, il quale senza altra regola, imitando la balia, s'apprende. Havvi ancora (ei prosegue) un altro parlare, il quale i Romani chiamano grammatica; e questo hanno pure i Greci ed altri, ma non tutti, perciò che pochi all'abito di esso pervengono; conciossiachè, se non per ispazio di tempo ed assiduità di studio, si ponno prendere le regole e la dottrina di lui. Quindi dopo aver accennato, che solo l' uomo ha il commercio del parlare, e che questo commercio all' uomo solo fu necessario; dopo aver cercato a qual uomo fu primamente dato il parlare, qual fu la sua prima parola e di qual lingua; e dopo altre ricerche, ch' appariscono essere del gusto scolastico di quel tempo, e che oggi possono a noi ben poco interessare, viene alla divisione del parlare in più lingue. E qui, incominciando dalla confusione per la torre di Babel avvenuta, e brevemente tenendo dietro alla diffusione de' varii

idiomi pel mondo, si ferma a quelli d'Europa, e più particolarmente a quelli dell'Europa meridionale, che in tre sommariamente distingue per le tre loro affermazioni. Questi tre idiomi, che son quelli dell' oc, dell'oil e del sì, derivano secondo Dante (ed egli mal non s'appose) da una radice comune, dappoichè comuni a tutti e tre sono tanti e tanti vocaboli principali. Ma come questo primitivo idioma coll' andare del tempo in tre si variò, così queste tre variazioni ciascuna in se stessa non poco si varia. E la ragione n'è questa: che ogni nostra loquela dopo la confusion di Babel, la quale nient'altro fu che una oblivione della loquela prima, essendo a nostro beneplacito racconcia ed alterata, ed essendo l'uomo instabilissimo e variabilissimo animale, la nostra locuzione nè durabile nè continua può essere e come le altre cose, costumi ed abiti, secondo le convenienze di luogo e di tempo si mutano, così questa secondo le distanze di luogo e di tempo si varia. Fatte queste premesse, viene a trattare dell'idioma del sì, e distingue ed esamina quattordici de' principali dialetti allor parlati in Italia, il siciliano e il pugliese, il romano e lo spoletano, il toscano e il genovese, il calabrese e l'anconitano, il romagnolo e il lombardo, il trivigiano e il veneziano, il friulano e l'istriano, i quali tutti trova essere inornati od aspri o sconci o in alcun che difettosi. Quindi parla del volgar bolognese, e non dissente da coloro che a quel tempo dicevano essere il migliore di tutti gli altri volgari: non lo trova però sì eccellente che sia degno di essere agli altri di gran lunga preferito: perciocchè esso non è quello che da lui si cerca, e ch'è detto illustre, cardinale, aulico e curiale che se quello si fosse, il massimo Guinicelli, Guido Ghisliero, Fabrizio ed Onesto, poeti e dottori illustri, e delle cose volgari intelligentissimi, non avrebber cantato: Madonna il fermo core; - Lo mio lontano gire; · Più non attendo il tuo soccorso, Amore ec.; le quali parole (e questo si noti bene) sono, dice lo stesso Dante, in tutto diverse delle proprie bolognesi.

Or poichè tutte queste ricerche e disamine del nostro autore ad altro non tendono che a far conoscere, come nessuno fra i dialetti italiani era degno d'ottener sopra gli altri il primato in modo da essere a buon dritto chiamato quell'illustre linguaggio, in che tutti i sapienti italiani avrebbon dovuto scrivere, così conchiude che il 9

DANTE.

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volgare illustre, cardinale, aulico e curiale in Italia è quello, il quale è di tutte le città italiane, e non pare che sia di niuna. Passa poi a dir le ragioni per le quali dà a questo volgare quei quattro titoli; ed ei lo chiama illustre, perchè, inalzato di magistero e di potenza, inalza i suoi d'onore e di gloria, vale a dire perchè, ridotto civile e perfetto, fa i suoi familiari gloriosi; cardinale, perchè su di esso, quasi uscio su cardine, si girano tutti gl'italiani dialetti, e come diligente coltivatore purga l' italica selva degli spinosi arboscelli; aulico, perchè se noi Italiani avessimo (egli dice) aula, o corte, esso sarebbe palatino, essendochè quelli che conversano nelle corti regali parlano sempre con volgare illustre; lo chiama finalmente curiale, perchè è quasi una ponderata regola delle cose che s' hanno a fare, e perchè tutto quello che nelle azioni nostre è ben ponderato, e perciò conforme alla legge, può chiamarsi curiale. E come si può trovare un volgare ch' è proprio di Cremona, uno ch' è proprio di Lombardia, ed un altro ch'è proprio di tutta la sinistra parte d'Italia, così egli dice potersi trovare quello ch'è proprio di tutta Italia. E se il primo si chiama cremonese, il secondo lombardo, e il terzo di mezza Italia, così questo, ch'è di tutta Italia, dee chiamarsi volgare italiano; e questo, egli esclama, è veramente quello che hanno usato gl'illustri dottori, che in Italia hanno fatto poemi in lingua volgare. Qui termina il primo libro, ch'è il più importante, sì per la storia della nostra lingua, sì per la vita e per le opinioni di Dante.

Nel libro secondo cerca l'autore se tutti gli scrittori possano e debbano usare il volgare illustre, e conchiude che solo i sapienti debbano usarlo. Cerca in quali materie questo illustre linguaggio debba essere adoperato, e trova che solo in tre cose, cioè nel trattare della gagliardezza dell' armi, dell' ardenza dell' amore e della regola della volontà, o, per ripeterlo con esso lui più concisamente, dell' armi, dell' amore e della rettitudine; perciocchè essendo questo volgare ottimo sopra tutti gli altri, consegue che solamente le ottime materie siano degne d'esser in esso trattate. Viene poi a dire in qual modo debba adoperarsi; e, lasciata la prosa, tratta delle tre forme di poesia allora usitate, il Sonetto, la Ballata e la Canzone, e conchiude che la Canzone è il modo più nobile che per lui si cercava. Della Canzone egli tien quindi discorso, e distinti brevemente i

tre stili, il tragico, il comico e l'elegiaco, parla a lungo de' vocaboli, de' versi, delle stanze e delle rime, onde compor si dee la Canzone. Nella qual trattazione prescrive che le Canzoni elegiache cominciar debbano col settenario, e le tragiche coll' endecasillabo, come altresì coll' endecasillabo terminar debba ogni Canzone. E dicendo il verso d' undici piedi sopra tutti gli altri nobilissimo, e chiamando rozzi i versi di sillabe pari, n'esclude insiem con questi il trissillabo e il novenario (ch'è il trissillabo triplicato), e concede appena che nelle grandi Canzoni si frammettano agli endecasillabi due quinarii ovvero alcuni pochi settenarii per ogni stanza. Loda Gotto mantovano suo coetaneo, perchè nella prima stanza della Canzone lasciava uno o due versi scompagnati, che ripigliava poi nella seconda, e facea con essi consuonare. E quantunque dica le desinenze degli ultimi versi esser bellissime se in rime accordate si chiudano, pure dà al poeta ogni licenza d'ordinarle a suo talento, purchè sia in esse una bella concatenazione, e si schivino le soverchie ripetizioni.1 Qui termina il

'Il P. M. Giovanni Ponta disse, che se quest'analisi del secondo libro « vuol lodarsi per concisione, pure per più mende si mostra difet» tosa nel suo concetto, come quella che non riferisce tutta la mente di >> Dante. » In ossequio di quell' onesto e valent' uomo riferisco qui appresso le sue parole, per le quali non solo viene a dichiararsi più minutamente l'intendimento di Dante, rispetto ai tre stili, ma altresì a risolversi meglio ch' io non abbia fatto, e che dico più avanti, la questione dell' aver egli usato nella Commedia alcune di quelle voci, che qui nel Volgar Eloquio aveva dannate:

È vero che nel secondo libro si decide che solo i sapienti debbono adoperare il linguaggio illustre; ma ben lungi che vi sia stabilito che >> debbano usarlo sempre, si pone invece al cap. IV l'avviso che non lo » debbano adoperare nello stile comico, nel quale è dovere imposto dalla » discrezione che sia scritto col volgare talora mediocre, talora umile, sic» come verrà insegnato nel quarto libro. Ecco le formali parole dell' au» tore: - Si tragice canenda videntur, tunc adsumendum est vulgare illu» stre..... Si vero comice, tunc quandoque mediocre, quandoque humile vulgare sumatur; el eius discretionem in quarto huius reservamus oslen» dere.

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D

» É veramente gravissimo danno alle lettere italiane che quest'opera >> sia imperfetta. Se compievasi, Dante assegnava le regole al volgare di qual sia composizione, sino al parlare d' una sola famiglia; dei quali tutti » si fa uso nella Commedia, chi ben ne cerca: - Ab ipso (parla Dante del vol» gare illustre) tamquam ab excellentissimo incipientes etc. tractabimus; >> quibus illuminatis, inferiora vulgaria illuminare curabimus, gradatim de

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