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pubblica era il refugio ed il porto de' Re, de' Popoli e delle Nazioni. I Magistrati e Imperatori Romani in questo massime si sforzavano di conseguir lode, nel difendere cioè le provincie, nel proteggere gli alleati con fede ed equità, e gli esempi di Cincinnato, di Fabrizio, di Cammillo, di Bruto, di Muzio, de' Decii e de' Catoni sono di cotanta virtute e specchi e riprove. È dunque a conchiudersi che come il romano popolo soggiogando l' intiero mondo intese al fine della giustizia, e provvide al pubblico bene, a buon diritto arrogossi la suprema dignità dell' Impero.

Io non dirò che queste opinioni del ghibellino scrittore siano del tutto vere e inconcusse, nè che la sua teoria, quantunque sembri in astratto probabile, possa nel fatto realizzarsi. Troppo smisurate cose appare manifestamente aver egli dette per istudio di parte, e per l'amor della causa Imperiale: dover cioè tutto il mondo appartener di diritto all' Impero de' Romani, e sola l'universal Monarchia esser quella, all'ombra di cui le nazioni goder possano pace e felicità; mentre, per un lato, quel preteso diritto de' Romani, come quello di tutti i popoli conquistatori, non consisteva che nella violenza e nella fortuna delle armi loro; e per l'altro, ogniqualunque forma governativa può esser atta a procurare la felicità de' governati, quando coloro che siedono al timon dello Stato si sforzino, con tutti i mezzi che sono in loro potere, di conseguire quell' altissimo fine. Ma se la tesi del ghibellino scrittore del comprendere in un sol corpo politico la terra intiera, mentre pure l'Italia, la di lui patria, si stava sotto a' suoi occhi tutta sminuzzata, divisa ed in se stessa discorde, è da riporsi nel numero delle utopie, ella non potrà a meno di dirsi grande e magnifica, e degna dell'alta mente di Dante.

Se oggi adunque che la nostra civil condizione è affatto cambiata, non possiamo ammettere in tutte le parti la teorica dell' Alighieri e le pratiche conseguenze che da essa derivano, potremo in questo libro ammirare l'ingegno, la dottrina e la probità dell' autore, é dovremo studiarvi le sue opinioni politiche affine d'intender meglio alcune particolarità della Divina Commedia.

Otto o nove edizioni di questa operetta hanno finora veduta la luce, la prima delle quali fu fatta nel 1559 in Basilea per Gio. Opo

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DISSERTAZIONE SULLA MONARCHIA.

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rino: ma la lezione per colpa de' secoli e degli editori n'era così scorretta e malconcia, che più di cento strafalcioni m'è venuto fatto d' emendare nel darne al pubblico la presente ristampa; 1 come, a cagion d'esempio, correggendo dicentes ipsum recepisse in dicentes Cristum recepisse (lib. III); facere tamen ascendere in faceré terram ascendere (ivi); gestis humanis in gestis romanis (ivi); non enim Decius in non enim dicimus (ivi); divinæ prudentiæ in divina providentia (ivi), ec. ec.

La traduzione italiana, che per me vide la prima volta la luce nel 1839, e che è opera del celebre Marsilio Ficino, il quale volle intitolarla a due suoi amici Bernardo Del Nero ed Antonio Manetti, è tratta dal Codice 1173, Classe VII, della Magliabechiana. Ed abbenchè io l'abbia collazionata sopra altro esemplare, di cui mi fu cortese il chiarissimo signor Marchese Gino Capponi, essa sarebbe rimasa in più luoghi o guasta o mutila o inintelligibile per colpa più degli amanuensi che di lui che dettolla, se io con un po' di critica e col soccorso del testo latino non l'avessi raddrizzata e corretta. Nel che fare ho usato tal parsimonia e tal diligenza, che io sono per credere non sia per esservi alcuno, che vorrà farmene rimprovero, anzi sapermene qualche grado.

Dal novero di queste edizioni scorrette va eccettuata l'accuratissima stampa fattane dal chiarissimo signor dottor Alessandro Torri in Livorno, sei anni appresso la mia prima edizione.

Tali correzioni furono infatti approvate, e nella massima parte adottate nella succitata stampa del Torri, ove in apposite note sono state tutte riportate, ed ove potrà riscontrarle chi avesse di vederle vaghezza.

IN QUAL TEMPO FU SCRITTO DA DANTE

IL TRATTATO DELLA MONARCHIA,

NOTA DEL PROFESSOR CARLO WITTE.

Un dotto alemanno, il signor Wegele, avendo in un suo libro, Vita ed opere di Dante nella loro connessione colla storia dell' incivilimento, Jena 1852, emessa l'opinione, che la fede ghibellina di Dante, cioè la sua convinzione d' un potere imperiale ordinatore e moderatore, non sottoposto alla potestà pontificia nelle cose politiche, debba essere anteriore all' esilio suo; giudicò il Witte opportuno di sviluppar le ragioni che lo mossero ad assegnare al Trattato de Monarchia una data di gran lunga anteriore a quella che generalmente gli s'attribuisce, anteriore cioè agli anni 1310-1313. Il Witte pertanto ragiona così:

« Il non trovarsi nel Trattato de Monarchia nessuna allusione a circostanze attuali o ad avvenimenti speciali dovrebbe muover dubbiezza contro al fondamento della supposizione, che si tratti di scritto composto a difesa di spedizione contemporanea. L'Imperatore della Monarchia è personaggio meramente ideale, senza che si scuopra traccia d'un particolare individuo; nè si allude a condizioni o a casi del tempo e della venuta del settimo Arrigo. Si badi alla differenza che passa tra questo libro e la notissima lettera ai Principi e Popoli d'Italia, il cui scopo era precisamente quello, che erroneamente si è voluto attribuire alla Monarchia, di difendere cioè i diritti d'Arrigo VII, di far animo agli aderenti di lui, e di procacciargli nuovi amici. Il raziocinio nell' uno e nell' altro scritto è quasi identico, ma diversissimi sono e il modo e l'espressione e il sentimento. Nella Monarchia tutto, sino all' entusiasmo, partecipa d' un carattere teoretico nella lettera all' incontro non c'è riga in cui il lettore non senta il risuonare de' turbini or ora passati, la tristezza de' tempi non moderati da sommo reggitore, il risvegliarsi di nuove e liete speranze. Fin anche una testimonianza diretta si trova, tale da esclu

dere positivamente la contemporaneità di queste due apologie dell'Impero. La lettera nomina Arrigo qual benedetto dal Papa: Hic est, quem Clemens, nunc Petri successor, luce apostolicæ benedictionis illuminat; mentre la Monarchia (III, 3) cita il Papa fra coloro che avversano l'Impero nel senso di Dante: Summus Pontifex D. N. J. C. vicarius et Petri successor..... nec non alii..... de zelo forsan, non de superbia contradicunt. Chi mai potrebbe supporre l'Alighieri avere scritto, nel tempo stesso e nella medesima occasione, due sentenze così contradittorie? Nel Convito (IV, 4 e 5) incontriamo nuova argomentazione intorno alla divina origine dell'Impero; e quantunque essa di sovente si discosti da quella ch'è nella Monarchia, le somiglia però nella pacatezza teorica, e nell' essere scevra d'allusioni alle condizioni del presente. Ora quel Trattato del Convito venne scritto di certo prima della discesa d'Arrigo in Italia. Ci crediamo dunque giustificati negando la connessione della Monarchia con siffatto avvenimento. Resta ora a decidere a qual tempo essa appartenga: se cioè debba collocarsi prima o dopo del viaggio del Lussemburghese.

» Il Trattato della Monarchia comincia colle seguenti parole: Il principale officio di tutti gli uomini, i quali dalla natura superiore sono tirati ad amare la verità, pare che sia questo: che com' eglino sono arricchiti per la fatica degli antichi, così s'affatichino di dare delle medesime ricchezze a quelli che dopo loro verranno. Per che molto di lungi è dall' officio dell' uomo colui che, ammaestrato di pubbliche dottrine, non si cura di quelle alcuno frutto alla Repubblica conferire. Costui non è legno, il quale piantato presso al corso delle acque, nel debito tempo frutti produce; ma è più tosto pestilenziale voragine, la quale sempre inghiottisce e mai non rende. Pensando io questo spesse volte, acciò che mai non fussi ripreso del nascoso talento, ho desiderio di dare a' posteri non solamente copiosa dimostrazione, ma eziandio frutto, e dimostrare quelle verità che non sono dagli altri

tentate.

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È egli da ammettersi che Dante, conscio del suo valore, e libero di falsa modestia, abbia potuto scrivere così nel 1311, o forse più tardi ancora? Poteva egli farlo, parècchi anni dopo d'aver pub

blicato i quattro Trattati del Convito, di quell' enciclopedia della sapienza del suo secolo, lasciando anche da parte la Vita Nuova e le molte liriche poesie? O quelle parole non indicano esse uno scrittore, il quale si presenta la prima volta con un lavoro di qualche importanza, dovendo dir di se stesso: il nome mio ancor molto non suona?

» Se continuiamo a tener la Monarchia a confronto col Convito, composto verso la fine del 1308, incontreremo altri passi additanti la priorità di quella. Nella Monarchia (11, 3) si dice: Constat, quod merito virtutis nobilitantur homines, virtutis videlicet propriæ vel majorum: est enim nobilitas virtus et divitiæ antiquæ, juxta philosophum in Politicis. Nel Convito (IV, 3) ripudia con asprezza tale sentenza: Questa opinione, che gentilezza era antica ricchezza e bei costumi, è quasi di tutti...., che fanno altrui gentile per esser di progenie lungamente stata ricca, conciossiacosachè quasi tutti così latrano. La contradizione è ovvia, nè si può dubitare quale delle due sentenze sia anteriore all' altra. Se nella Monarchia Dante dice constare che nobiltà si acquista per la virtù propria e quella de' maggiori, egli non si mostra consapevole dell' altra opinione, che dalla sola propria virtù la fa derivare. Allorchè poi nel Convito, con parole aspre, cita come opinione quasi di tutti quella, che ricchezze ereditate procacciano nobiltà, sembra indicare essere stato egli medesimo di siffatto parere. Si aggiunge poi, che il luogo ben noto del Paradiso (XVI, 1-9) tiene molto più del ragionamento del Convito, che non di quello della Monarchia.....

» Generalmente parlando, la Monarchia ci fa impressione di scritto meno maturo. Il modo di ragionare è inceppato, e non privo di sofismi. L'autore cerca d'imporre al lettore mediante i nomi e il numero delle autorità, da lui non sempre appositamente citate. Alcune citazioni sono così inesatte da non potersi rintracciare: per esempio quella d'Orosio (II, 3), mentre altre sono assolutamente false. .Nel libro II, cap. 5, si attribuisce a Tito Livio un passo intorno a Cincinnato, che senza dubbio è preso da Orosio (II, 12). Nel nono capitolo cita Livio quale autorità per una delle tradizioni medievali d'Alessandro Magno. L'opera di San Martino Dumiense, o Bracarense, sulle Virtù Cardinali, secondo l'opinione prevalsa ne' bassi tempi, è

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