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nella Monarchia (II, 5) ascritta a Seneca, mentre nel Convito (III, 8), senza dubbio in seguito a studi più maturi, la cita senza nome d' autore. La lettura de' classici ed altri autori si palesa poi nel Convito molto più estesa che non nella Monarchia.

» Rimane da citarsi un argomento, il quale, quantunque meno ovvio, ci sembra aver gran peso nel determinare la priorità della Monarchia. Si sa quanta importanza quella età abbia dato alle questioni in questo libro esaminate. Non vogliamo già attribuire soverchio peso al fatto, che mentre Dante lamenta la temporalis Monarchiæ notitia maxime latens, ed annunzia volere intentatas ab aliis ostendere veritates, di già sotto Arrigo VII, Engelberto, abbas Admontensis, si accinse a somigliante dimostrazione nel libro De ortu et fine Romani Imperii. Ma altra coincidenza rimane da osservarsi. Verso la fine del 1302 papa Bonifazio VIII pubblicò la bolla Unam Sanctam, la quale, quantunque più specialmente diretta contro le pretensioni di Filippo il Bello, sviluppa una teoria generale delle relazioni tra il potere ecclesiastico e il temporale, teoria affatto contradicente a quella di cui l' Alighieri si fece il campione. Ci asteniamo dall' ammettere che se la bolla avesse preceduto il Trattato della Monarchia, l'autorità di papa Bonifazio avrebbe bastato a ritener Dante dalla dimostrazione delle sue idee; anzi non parrebbe strano che l'autore del Trattato avesse voluto combattere le ragioni papali senza nominarne l'autore. Ma in tal caso saremmo autorizzati ad aspettarci una replica o confutazione compiuta e salda delle ragioni addotte da si eccelso avversario. Quantunque però l'una e l'altra argomentazione intorno a questione molto combattuta, in vari luoghi s' incontri, com'è ben naturale, contuttociò una siffatta confutazione manca a tal segno da farci giudicare impossibile l'aver Dante conosciuta la bolla allorchè compose la Monarchia. Le ragioni dalle Sacre Scritture dedotte affine di provare la dipendenza del poter secolare dall' ecclesiastico, a cui rispondono i capitoli 4 e 9 della Monarchia, sommano a sei: altrettante se ne trovano nella bolla: ma essa e il Trattato non coincidono se non in due di questi passi, tolli da Luca, XXII, 38, e da Matteo, XVI, 19. Dei quattro altri su cui il Pontefice si fonda, nella Monarchia non si fa menzione; anzi, ed è ́cosa notabile, l'autore ne cita uno (Giovanni XIX, 23, Monar

chia, III, 10), qual argomento in suo favore, senz' altra osservazione; mentre si mette a combattere quattro sentenze che nella bolla non si trovano difese nè punto nè poco.

» Se a queste ragioni positive aggiungiamo altra negativa, essere cioè la Monarchia, oltre la Vita Nuova, unica tra le opere Dantesche in cui non si alluda all' esilio, non possiamo non esser d' avviso, che il più volte ricordato Trattato abbia avuto origine prima del 1302, anzi prima del 1300. Trovandosi nella Monarchia (II, 1, ut ipse solebam) la dichiarazione dell' autore intorno all' aver partecipato nella prima gioventù alle opinioni guelfe della patria e casa sua, è agevole il conoscere di quale e quanta importanza pel retto intendimento dell' indole di Dante e della sua attitudine politica, sia il fatto d' aver egli, appena giunto a vera maturità, non solamente abbracciate le opinioni ghibellino-imperiali, che dovettero poi decidere della sua sorte, ma di averle ridotte già sin d' allora a compiuto sistema. >>

A queste osservazioni del Witte credo opportuno dover far seguire alcune mie parole. Che la Monarchia non sia un libro composto a difesa di spedizione contemporanea (la spedizione d'Arrigo), vale a dire, non sia un libro di circostanza, ma un libro che abbia tutto il carattere d'un lavoro teoretico, bene è stato dal Witte dimostrato. Ma se per gli argomenti da lui posti in campo si prova che il libro è anteriore al 1310, non discende la conseguenza che sia pure anteriore al 1300, anteriore non solo all'esilio di Dante, ma eziandio al suo Priorato. Non starò qui a dir le ragioni, per le quali io credo non essere stato il Convito pubblicato da Dante prima del 1314; ma anco ammettendo col Witte che fosse pubblicato nel 1308, e convenendo con esso (nè qui v' ha principio di dubbio) che al Convito sia anteriore la Monarchia, non veggo la ragione per la quale non si possa a questo libro assegnare una data meno dal 1308 lontana di quello che il Witte vorrebbe, per esempio il 1305 o 1306. Ma, dice il Witte, la Monarchia dover essere anteriore anco al 1302, perciocchè in quest'anno essendo da papa Bonifazio stata pubblicata la bolla Unam Sanctam, il libro di Dante avrebbe dovuto essere una confutazione compiuta e salda delle ragioni addotte da si eccelso avversario. Pure io osservo che una confutazione diretta delle parole d' un Pontefice non poteva convenire ad un buon

cattolico com'era Dante, il quale, cominciando la battaglia contro coloro i quali, indotti da alcuno zelo inverso la Chiesa loro madre, la verità che qui si cerca non conoscono, protesta di voler usare tutta quella reverenza, la quale è tenuto usare il pio figliuolo inverso il padre, pio inverso la madre, pio inverso Cristo e la Chiesa e il Pastore, e inverso tutti quelli che confessano la cristiana religione (III, 3). Dice infatti lo stesso Witte, che l'autorità di papa Bonifazio avrebbe bastato a ritener Dante dalla dimostrazione delle sue idee. Ma come l'avrebbe ritenuto quand' egli avesse, com'ha di fatto, trattato teoricamente il subietto, rivolgendo i suoi argomenti e i suoi sillogismi contro i Decretalisti? E perchè v'era di mezzo una bolla, non poteva Dante, usando tutta la riverenza, siccom' egli protesta, confutare non direttamente il Papa, ma in via di trattazione scientifica, le pretese de' Cherici? Ma Dante, s' insisterà, avrebbe dovuto in un modo o in un altro confutare tutte e singole le ragioni da Bonifazio addotte. Ed io domanderò era egli ciò necessario? era egli ciò indispensabile? E d'altra parte, se a Dante era ignota l'opera di San Tommaso colla quale poteva sciogliere il nodo della questione, non poteva essere ignota la bolla di Bonifazio?

Nel pubblicare la Monarchia l'Alighieri, dice il Witte, sembra uno scrittore, il quale si presenti la prima volta al pubblico con un lavoro di qualche importanza, dicendo di se stesso: Il nome mio ancor molto non suona. Ed infatti, generalmente parlando (il Witte prosegue) la Monarchia ci fa impressione di scritto meno del Convito maturo: il modo di ragionare è inceppato, e non privo di sofismi: l'autore cerca d'imporre al lettore mediante i nomi e il numero delle autorità.

Veramente non saranno molti coloro che di questo libro dell'Alighieri si formeranno un concetto, quale rispetto alle forme estrinseche si è formato il Witte, perocchè, riportandosi al secolo in cui fu scritto, ravviseranno in esso una dottrina non comune ed un acume non ordinario; e come tutti riconobbero il valore di Dante nelle scienze naturali, nelle mattematiche, nelle razionali e nelle teologiche, così da questo libro riconosceranno il valor suo nella civile filosofia. Donde vie più improbabile si renderà, che egli possa averlo dettato nella sua gioventù quando mancavagli, secondo che dice egli

slesso nella Vita Nuova, quel corredo di scienza, che non s'acquista se non cogli anni, e con istudi continuati e severi. Le parole poi di Dante, acciocchè non fossi ripreso del nascoso talento, ho desiderio di dare a' posteri non solamente copiosa dimostrazione, ma eziandio frutto, e dimostrare quelle verità che non sono dagli altri tentale, parmi che tutt'altro suonino che modestia e temenza propria di scrittor giovanile, e nella repubblica letteraria novello.

Comunque sia, a me par molto improbabile, che innanzi il 1300, quando Dante, conforme dice egli stesso, era guelfo, quando per accomunarsi col popolo si faceva ascrivere all'arte degli Speziali, quando ambiva e si procacciava gli officii civili della sua patria, guelfa siffatta, che Farinata esclamava (Inf. X, 83):

".... perchè quel popolo è si empio

Incontro a' miei in ciascuna sua legge? »

egli impiegasse la sua penna in iscrivere un'opera, che molto più che l'avere avversato la venuta di Carlo di Valois, gli avrebbe procurato le ire de' suoi concittadini. Nò: Dante non può aver rivolto le sue speculazioni politico-filosofiche. alla scienza sociale se non dopo aver passato una parte della sua vita in mezzo ai torbidi della sua patria ed alle contese delle fazioni. « Nella storia delle scienze sociali (dice il Carmignani nella sua bella Dissertazione sulla Monarchia) è incontrovertibile il fatto, che le teorie politiche nacquero sempre in circostanze, le quali spinsero l'ingegno umano ad indagare per qual modo i diritti o dell'individuo o della società possano mettersi in salvo da una forza che minacci d'annichilarli e distruggerli.» Ammettendo anco che Dante nella sua gioventù, quando pure andava a Campaldino a combattere i Ghibellini, ravvolgesse nella mente i principii della fazione imperiale, e verso quelli si sentisse inclinato, non parmi possibile ch' ei potesse allora professarli apertamente, e tanto meno scrivere un libro, in cui fino all' entusiasmo, come dice lo stesso Witte, riducendo que' principii a sistema di social convivenza, rovesciasse i fondamenti delle forme politiche della sua patria. È credibile e verosimile (dice il Carmignani) che Dante, dichiaratosi contrario all' intervento di straniero potere nelle cose

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pubbliche del suo paese, già senza questo intervento felice e tranquillo, attribuisse le commozioni che lo agitarono al parteggiare de' suoi concittadini per i due grandi poteri rivali, che sotto specie di protezione aspiravano a farsene arbitri e dominatori. Era questa dualità che l' Alighieri voleva escludere; e reputando inevitabile e necessaria la forza d' uno de' due poteri a comprimere le rivalità tra paese e paese, allora vivissime e micidiali, egli in questa veduta dichiaravasi per la Monarchia universale. »

Deferente inverso le opinioni altrui, e pronto a ricredermi delle proprie ove mi se ne mostri l'erroneità, io credo frattanto che la Monarchia sia stata scritta da Dante anteriormente al Volgar Eloquio, al Convito e alla Commedia, ma non già innanzi il suo esilio.

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