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TORINO

Eruditamente

litamente scrisse di TORINO il Cibrario (1), il quale ce ne mostra la derivazione dai popoli taurini sino dai rimotissimi tempi delle prime trasmigrazioni dei popoli dell' Asia in Italia. Cotesti taurini furono quei tirreni, che vennero ad abitare appiè delle Alpi ; ed ebbero questo nome, come se dirli si volesse montani, perchè nella maggior parte degl' idiomi dell'Asia taur o tor significa monte. Così almeno suppone il Cibrario. Ma non saprei trovare poi veruna convenienza tra questa sua etimologia ed il toro (taurus), ch'è lo stemma della città di Torino. Gli antichi geografi la dissero Augusta Taurinorum. Giace essa presso al confluente del Po e del Dora; colà, cioè, dove questo si scarica in quello.

I taurini divennero amici e fedeli di Roma, nel 224 prima di Cristo; dopo di esserne stati, per due buoni secoli, avversarii. La loro città fu espugnata da Annibale tre anni dopo la loro alleanza coi romani. Allora Torino diventò colonia romana, e fu chiamata Giulia da Cesare. Di Torino romana non rimase altro monumento, che quel palazzo, ridotto a prigione e chiamato le Torri, ch'era una volta porta della città (2). Ma i marmi avanzati dalle ingiurie del tempo ce ne commemorano le antiche glorie. Torino era aggregata alla tribù Stellatina, ch' era la XXII del popolo romano. Giove n' era detto il custode

JVPITER CVSTOS AVGVSTAE TAVRINORVM.

Vi avevano inoltre altari e riti Venere Ericina, detta Madre dei Cesari, Pallade Attica, Mercurio ed Iside. E sulle Alpi Taurine, chiamate poi

(1) Luigi Cibrario, Storia di Torino, pubblicata nell'anno 1845, tom. 2.

Vol. XIV.

(2) Ved. il Cibrario, pag. 48 del tom. I.

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Cozie e Graje, erano invocati, come numi tutelari, Apollo sotto il nome di Beleno, Ercole e le dee matrone, appellate Monginevra. Erano a Torino il teatro, il circo, archi di trionfo, trofei militari. Nella decadenza dell' impero di Roma, andò soggetta anche Torino a tutte le vicende, di cui furono vittime le altre città dell'Italia per le invasioni dei goti, dei vandali, dei longobardi e di tutti gli altri barbari, che di mano in mano se ne usurparono il dominio. Sotto i longobardi, Torino fu governata dai duchi; sotto Carlomagno ed in seguito, ebbe i suoi conti; più tardi, i marchesi. Nel duodecimo secolo, si eresse, benchè per breve tempo, in comune, ed ebbe allora i consoli, e poscia il podestà: pochi anni dopo diventò soggetta ai conti di Savoja: fu in guerra con questi, per ricuperare la propria indipendenza. Nel secolo decimoterzo, sofferse varie vicende e fu di varii padroni: di Tommaso II di Savoja, di Carlo d'Angiò re di Sicilia, di Guglielmo VII marchese di Monferrato, e finalmente dei principi di Savoja, divenuti duchi, sotto i quali continua ad essere sino al presente, malgrado le politiche vicende, che in tanta serie di secoli ne contrastarono ad essi il dominio.

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Chi primo predicasse il Vangelo ai torinesi, è affatto ignoto: l'opinione di que' che lo dissero predicato dall' apostolo san Barnaba cade da sè, per le molte ragioni da me addotte quando parlai della chiesa di Milano; cosicchè il primo a recarne qui la luce potrebb'essere stato il vescovo di Milano sant' Anatalone, nel primo secolo, o forse con più probabilità san Calimero, successore di quello in sulla metà del secolo secondo. Nel secolo seguente bensi, san Dalmazzo, nato in Magonza di padre italiano e consolare, dopo di avere predicato la fede cristiana ai popoli della Provenza, la predicò anche agli auriatesi, che abitavano le rive del Gesso e del Vermenagna, ai Torenesi e ad altri popoli circostanti. Ma nel 254 cercato a morte dai sacerdoti auriatesi, mentre tornava per confermare nella legge di Cristo i già convertiti, raggiunto presso al ponte del Vermenagna, fu ferito di spada mortalmente nel capo. Continuò qualche momento il cammino, varcò l'alveo del Gesso e sulla riva cadde 'e mori. In sul declinare dello stesso secolo, circa l'anno 285, una intiera legione di soldati, mandati da Tebe ai servizi di Massimiano, fu trucidala per ordine di questo imperatore, perciocchè adoratrice di Gesù Cristo. Spintala infatti nelle gole del Vallese, sotto colore di marciare contro i bagaudi, la fece pigliare in mezzo dalle pagane coorti e passare

a fil di spada. Là peri con la sua preclara milizia il glorioso capitano san Maurizio. Pochi scamparono, i quali dispersi qua e là per la Liguria e per la Lombardia si diedero al pietoso uffizio di guadagnare anime a Dio, e dopo di essersi formati non pochi proseliti, vi trovarono anche essi il martirio. Tra questi pochi, furono, secondo l'antichissima tradizione della chiesa torinese, i santi Solutore, Avventore ed Ottavio, che venuti a Torino vi furono ben presto scoperti dai Cesariani.. Avventore ed Ottavio furono qui trucidati: vuolsi, che Solutore fuggisse ad Ivrea, e che là, dopo qualche giorno, fosse riconosciuto e decapitato, nel mentre, che salito sopra di un sasso, faceva ad alta voce professione della sua fede dinanzi al popolo circostante. Santa Giuliana, gentildonna cristiana, condusse da Ivrea a Torino il corpo di san Solutore, e gli diè sepoltura insieme con quelli de' suoi compagni. Probabilmente il luogo, ov' essi giacevano, fu in Torino l'oratorio, ove i primi cristiani raccoglievansi ai santi uffizi ed alla preghiera; e questo luogo sembra, che fosse colà, dove fu poscia eretta in loro onore la chiesa di san Solutore, alla quale, nel secolo XI, fu aggiunto dal vescovo Gezone un celebre monastero di benedettini.

Pensano gli scrittori torinesi (1), che dopo la libertà concessa alla Chiesa dall'imperatore Costantino, il vescovo di Vercelli sant' Eusebio avesse cura del territorio di Torino, d'Ivrea, di Novara, ed esercitasse il suo pastorale ministero sopra la Val d'Aosta e le colline del Monferrato sino a Testona. Pretendono anzi, che nei primi tempi del suo episcopato siasi egli adoperato a cancellare dalla città di Torino gli avanzi, che ancor rimanessero delle pagane superstizioni, o le eresie che vi si fossero introdotte ; perciocchè di lui predicava san Massimo, che i torinesi gli andavano debitori dello splendore dell' ordine sacerdotale, della ortodossa loro credenza, della purità dei costumi. Aggiungono per altro, che a quando per la persecuzione mossagli dagli ariani sant' Eusebio fu relegato a Scitopoli di Palestina, pare che Torino già avesse il proprio » vescovo, perchè nella lettera indirizzata nel 556 da quel luogo di esilio » ai suoi diocesani, in cui tutte ne distingue le genti, ancorchè piccole, » come sarebbero gl' industriesi, gli agamini, ed i testonesi, non ricorda » i torinesi, ben altrimenti famosi. » Ed avevalo certamente: non già

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(1) Ved. il Cibrario, pag. 58 del tom. I.

perchè l'esilio del vescovo sant' Eusebio abbia dato forse occasione di smembrare la diocesi di Vercelli e di creare un vescovo a Torino, come opinò il Cibrario (4); ma perchè da più rimota età avevalo, e forse il vercellese sant'Eusebio vi esercitò episcopale giurisdizione in occasione soltanto di vedovanza della sede. Nè già io ammetto sulla cattedra torinese quel primo vescovo Vittore, da cui l' Ughelli incominciò la sua serie, del quale dice aversi memoria sotto l'anno 310 in tabulis hujus Ecclesiae: perchè di lui non ho potuto trovare traccia od indizio storico, che me ne assicuri l'esistenza. E così appunto dichiarò anche il Cibrario (2), escludendo il san Vittore del 510, perchè l'asserzione di chi lo ammise non ha conforto nè di prove nè d'indizii storici. So bensì, che il Bima si studiò di mostrarne l'esistenza, affermando, che nel 511 S. Viltore sottoscrisse gli atti di un concilio Romano in tale qualità: ma il buon uomo, in un argomento così contrastato, avrebbe dovuto almeno dirci dove esistano gli atti di cotesto concilio, mentre nelle grandi collezioni non se ne hanno traccie nè indizii; cosicchè mostrandocisi falsi i fondamenti, a cui se ne vorrebbe appoggiare l'esistenza, tanto più ce ne riesce sospetta la verità.

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Chi fossero adunque i vescovi, che ressero la chiesa torinese, prima di sant'Eusebio di Vercelli, e contemporaneamente a lui, non ci è possibile il dirlo nè perciò verun altro più antico di SAN MASSIMO ci presenta nel governo spirituale di essa. Lo che appunto affermò anche il Cibrario, dicendo, che « la vera storia de' vescovi Torinesi ha lieto comincia» mento dall' immortale san Massimo. » Ed è questo san Massimo il celebrato scrittore e dottore di santa Chiesa, il quale pontificò, non già dal 415 all' incirca fin dopo il 452, come scrisse il Cibrario, ma circa il 380 ed in seguito, come provano le ragioni, che sono per esporre.

E primieramente trovo, che Gennadio prete di Marsiglia, il quale scrisse il suo libro de Scriptoribus Ecclesiasticis circa l'anno 491, afferma, che san Massimo vescovo di Torino moritur Honorio et Theodosio juniore regnantibus: dunque tra il 408 e il 423. Taluno, per conciliare l'asserzione di questo grave scrittore, si vicino di tempo e di luogo, con la comune opinione, che vorrebbesi difendere dell'esistenza di san Massimo sino al 466; cioè, dopo il concilio romano del papa sant' Ilario, a

(1) Luog. cit., pag. Go.

(2) Luog. cit., pag. 59.

cui lo si dice intervenuto; volle, che alle parole di Gennadio, invece di moritur si avesse a sostituire floruit. E così, secondo questa correzione, il vescovo san Massimo avrebbe fiorito tra il 408 e il 425 e sarebbe in seguito vissuto altri quaranta e più anni, sino al tempo del concilio di Roma tenuto nel 465. Ma fatto è, che i più antichi e più stimati manoscritti (4) offrono invariabilmente la parola moritur. Come dunque poteva trovarsi al sinodo romano del 465 quello stesso Massimo, che tra il 408 ed il 423 era morto? Inoltre, in quel suo libro de Scriptoribus Ecclesiasticis, il prete Gennadio conservò sempre l'ordine cronologico, commemorandone appunto gli scrittori secondo la progressione dei tempi, in cui vissero. Ora, san Massimo vescovo di Torino è commemorato da lui dopo sant' Agostino e sant' Orosio, e prima di san Petronio vescovo di Bologna, i quali sappiamo avere toccato con la loro vita i primi anni soltanto del secolo quinto; nessuno di loro avere oltrepassato il 420. Dunque fu erronea la sostituzione del floruit alla parola moritur scritta dal Gennadio: dunque il Massimo, che mori Honorio et Theodosio Juniore regnantibus, non è a confondersi col Massimo, che nel 465 sottoscriveva al concilio romano. Più al concilio provinciale di Milano, convocato da sant' Ambrogio contro Gioviniano, nel 590, intervenne un vescovo Massimo, senza indicazione di sede: nè a quel tempo verun' altra delle chiese suffraganee di Milano aveva un vescovo di questo nome. Tuttavolta, di arbitrio dell' editore della lettera sinodica di quei prelati, fu aggiunto al nome di Massimo il titolo di Æmoniensis, perciò soltanto, che nel 381 s'era trovato al sinodo provinciale di Aquileja un Maximus Emoniensis, cosicchè, sull'appoggio di quest' aggiunta, dovrebbe dirsi vescovo di Emonia, ossia di Città nova, nell' Istria, quel Massimo stesso, che fu al concilio provinciale di Milano, siccome lo era il Massimo, che sottoscrisse al sinodo aquilejese. L'argomento sarebbe incontrastabile se il vescovo di Emonia, ch' era suffraganeo del patriarcato di Aquileja, avesse potuto aver luogo tra i vescovi suffraganei della provincia ecclesiastica di Milano. Ma poichè ciò non può ammettersi, perciocchè la lettera del papa Siricio, in risposta alla sinodale del milanese arcivescovo, è diretta ai soli prelati della provincia di Milano; resta dunque dimostrato,

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(1) Tutti i codici pubblicati avanti del Mireo, che fu il primo a sostituirvi la paTola floruit.

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