RIME DI DUBBIA AUTENTICITÀ. CANZONE XXI. 1 Ai fals ris per qua traitz avetz Miserum ejus cor, qui præstolatur. Eu vai speran, e par de mi a non cura: Ai Dieus quanta malura,8 Atque fortuna ruinosa daturo A colui, che, aspettando, il tempo perde, Ne giammai tocca di fioretto 'l verde.10 Conqueror, cor suave, de te primo,11 Che per un matto guardamento d'occhi 7 Unde querelam sisto.18 Ella sa ben, che se il mio cuor si crulla 19 22 Ben sai l'Amor, s' eu jes non ai secors,2* S'ella no fai, que per son sen verai,” Mas ieu me 'n dopt, si gran dolor en ai: 83 29 Si saccia per lo mondo, ogni uomo il senta: Nel Convito e nel Volgare Eloquio condannò l' Alighieri tutte quelle poesie, che non si allontanassero dai particolari dialetti, e non procurassero l'avanzamento d' una lingua italiana comune: ed egli infatti colla maggior parte delle opere sue mirò a questo scopo. La canzone poi è da lui chiamata (Volg. Eloq., lib. I, cap. 3 e 8) un componimento sopra tutti gli altri nobilissimo, che richiede scelta accurata non solo di vocaboli e frasi, ma pur d'argomenti. Però dimostrossi critico acerbo contro l'aretino Guittone, e contro gli altri poeti, soliti d'usare un linguaggio plebeo ne' vocaboli e nelle costruzioni: e con tutta ragione disse per bocca di Bonagiunta, che le sue rime erano dettate in un nuovo stile, nuovo non tanto per la forza del sentimento, quanto per la purità e nobiltà del linguaggio. Avvenutoci più volte di riscontrare nelle opere di Dante, com'egli fosse noiato delle meschine cantilene de' suoi contemporanei, e come amasse scrivere la lingua italiana a preferenza d'ogni altra, siamo stati indotti a dubitare, se a que sto grande scrittore appartenga la canzone presente. In essa non si rinverranno nè quella gravità di sentenze, nè quell'armonica disposizione di versi, nè quella scelta di vocaboli, nè quell' eccellenza di costruzioni, le quali, mediante acume d'ingegno, assiduità d'arte ed abito di scienza, debbono insieme riunirsi (secondo il giudizio di Dante medesimo) in una canzone. In essa, per essere i suoi versi alternativamente dettati in tre lingue, non si ravviserà il fine voluto quasi che sempre dall' Alighieri di dar lustro all' idioma italiano. Onde potremo conchiudere, che la canzone o non sia di Dante, o che al più possa essere uno de' primi suoi giovanili, e forse rifiutati, componimenti. Infatti se alcuni codici e l'edizion giuntina a c. 22 retro l'attribuiscono a Dante, altri (come per esempio il laurenziano 15 del Plut. XLI) l'ascrivono ad Incerto. Quindi, finchè non si abbiano maggiori dati o per l'ammissione o per l'esclusione, io reputo che debba aver luogo fra quei componimenti, che lasciano tuttora dubbio se siano o no del cantor di Beatrice. Comunque sia, dirò che siffatta specie di componimento venne in Italia dalla Provenza. Dai Provenzali era chiamato descortz, cioè discordio o discordo, perchè era un componimento poetico dissonante, sia che fosse scritto con irregolarità metrica e con rime in ogni stanza dissimili, come la frottola e il ditirambo; sia che fosse dettato (com'è questo attribuito a Dante) in più lingue diverse. Quanto alla lezione de' versi provenzali (essendo la volgata assai erronea) ho adottato quella datane dal Galvani nelle sue Osservazioni sulla poesia de' Trovatori, Modena 1829. 1 Cioè, Ahi, falso riso! perchè tradito avete. 2 Gli occhi miei, e che cosa a te feci. 3 Già avrebbero udito le mie parole i Greci. Sanno le altre donne, e voi vi sapete. 5 come gaude, cioè come gode, detto per ironia. 6 Il misero core di colui che aspetta. 7 Io vo sperando, e par che di me non abbia cura. 8 Oh Dio! quanta sciagura. 10 Nè giammai tocca di fioretto 'l verde, vale a dire, nè mai arriva a conseguire l'intento. Un modo consimile è quello del Purg., canto III, v. 135: Mentre che la speranza ha for del verde. 11 Di te, cor soave, primieramente mi lamento. 12 Voi non dovreste aver perduto la legge, vale a dire, voi non dovreste aver perduto ogni freno, ogni ritegno. 13 al dar degli stocchi, sembra voglia significare, al cominciar delle ferite. Il concetto è oscuro. 14 Contro di me insorgon sempre dal limo, se pure non è da leggere de imo, dal fondo. L'oscurità conti nua. 15 Donde, per cui, io son morto, e per la fede che le ho. 16 Forte mi dispiace, ahi povero me! 47 Nè essa dice: Il male è di questo. 18 Onde resto di lamentarmi. 19 si crulla, si muove, si piega. Crulla per crolla, da crollare, come Poichè saziar non posso gli occhi miei Ch'io diverrò beato, lei guardando. A guisa d'angel che, di sua natura Stando su in altura, Divien beato sol guardando Iddio; Di questa donna, che tiene il cor mio, Potria beato divenir qui io: Tant'è la sua virtù, che spande e porge,1 Se non chi lei onora desiando.2 Questa piccola ballata fu edita col nome di Dante nella raccolta giuntina a c. 15; ma Faustino Tasso nella sua edizione delle rime di Cino l'attribuì a questo poeta ; e siccome di Cino la riprodusse anco il Ciampi. Dee però notarsi che l'autorità di Faustino Tasso non può essere di molto peso, perciocchè quella sua edizione riconoscesi fatta con poco d'accuratezza e di critica: e veramente, per lo stile e per la maniera, che sente alquanto delle ballate dantesche, non puossi escludere la probabilità che questa pure appartenga à Dante. Peraltro fino a che non si abbiano dati di maggior sicurezza, od almeno in maggior numero, dovrà collocarsi fra i componimenti di dubbia autenticità. 1 che spande e porge, che diffonde e conferisce. 2 Avvegna non la scorge Se non chi lei onora desiando, avvegnachè, o quantunque non può scorgerla, ri conoscerla (quella virtù) se non chi, desiderando questa donna, l'onora; se non chi desidera questa donna solo per riceverne i virtuosi influssi. BALLATA XII. Fresca rosa novella, Gaiamente cantando 2 Vostro fin pregio mando - alla verdura. |