Nè mai lieto sarò, s'ei mi fia telto. Nè temo che lo palegiar m' off nda: lo porto nera vista e s ttil benda. Vedemmo già bastantemente come Dante s'adoprasse a dar lustro all'italica lingua, atteggiandola ad ogni maniera di componimenti, forbendola ed arricchendola, e quanto studio ponesse intorno le sue canzoni. Infatti le licenze di lingua da lui adoperate (se pur debbonsi chiamare licenze) non sono nè tante nè tali, quante alcuni critici, non sapendo considerar lo scrittore nel suo secolo, vorrebbon far credere, e quante se ne riscontrano e più frequenti e più sconcie in tutti i suoi contemporanei. Ora ponendo a ciò mente, sarà agevole il riconoscere che la canzone presente non può esser opera di Dante Alighieri; imperocchè essa è sì languida e meschina, scritta in un modo sì contorto, piena di tante licenze e sconcezze di lingua, di grammatica e di sintassi, che (non che dell' altissimo Poeta) ma neppur d'un mediocre rimatore può reputarsi. « Una sola parola (dice il Quadrio) non istimo qui di ta» cere intorno alla canzone Giovene donna ec., da me citata " nell'occasione de' due vocaboli chiar e affan; e questa è » che oltre alle addotte due storpiature, altre e tante io ne » trovo in questo peraltro non lungo componimento al maggior Dante attribuito, ch' io non so persuadermi, che quel grand' uomo, il quale ne' suoi sonetti e nelle sue canzoni è " stato oltre misura più che nella Commedia amante della purità e della pulitezza, siasi poi all' improvviso lasciato in » questa occorrenza trascinare da tante sconcezze, come sono » vede per vedono, vego per veggo, asciso per reciso figurat. privo, sego per seco, conserba per conserva, palegiar per palesar, si coviglia e strigne per si congiungono e strin"gono, le person per le persone, t' intenda per t' intendan ec. » Per le quali cose e per altre molte, onde odora di Dante " da Maiano, io di questo porto opinione che sia; piuttosto» chè di quel maraviglioso Poeta, a cui potè facilmente es» sere ascritta per la somiglianza dei nome. » " E di costui debb'essere appunto la canzone presente, perchè se il Dante fiorentino si valse talora, ma assai raramente, nelle sue liriche rime di qualche licenza, non ne abusò sì immodicamente, come ognora il Dante maianese, da inserirne cotante in un breve componimento qual è la canzone. Se fra le poesie del nostro Poeta è (come è di fatto) alcuna canzone illegittima, questa debb' essere la prima. Cól nome dell' Alighieri non trovasi infatti in veruno de' tanti codici da me consultati; e se col nome di lui fu stampata nella trascurata edizione veneta del 1518, fu bentosto rifiutata dai Giunti, i quali la stamparono nella loro raccolta non già fra le poesie dell'Alighieri, ma fra quelle degli autori incerti a c. 120. CANZONE. Dacchè ti piace, Amore, ch'io ritorni Nell' usurpato oltraggio Dell' orgogliosa e bella, quanto sai A non gradir, ch'io sempre traggia guai: La nova pace, e la mia fiamma forte, E lo sdegno che mi cruciava a torto, Poscia, se tu m' uccidi, ed haine voglia, A servirti; ma non era io ancor morso, Di che gli spiritelli ferno corso Quella leggiadra, che sopra vertute, E poichè furon stretti nel suo manto, Io che pure sentia costor dolersi, Molte fïate corsi avanti a lei. Ch'io mirai fiso gli occhi di costei. Che mi chiamasti col viso suave, Mi compiagnevi, e in atto si pietoso, Ed aggradiami ciascun suo contegno, Posposi, per guardar nel chiaro segno: Per consumarmi ciò che ne fu manco, Ed ella si godea vedermi in pene, Quasi per campo di verso 'l martiro, Ch' io mi credea ultimo ogni sospiro. Tanto poi mi costrinse a sofferire, Che per l'angoscia tramortitti in terra; Che di cotesta guerra Ben converria ch' io ne perissi ancora; La vita, ch' io sostenni teco stando; Rimarrò morto, o che tu m'abbandoni, Per Dio ci prego almen che a lei perdoni. Questa canzone, che troverassi assai debole, è molto al di sotto di quei poetici componimenti, che veramente a Dante appartengono, gli fu malamente attribuita dalla veneta edizione del 1518, ma venne giustamente rifiutata dai Giunti i quali nella loro raccolta del 1527 la ristamparono a c. 117 sotto nome d' autore incerto. Essa appartiene a Cino da Pistoia; e ciò si prova per quegli stessi argomenti, che ho prodotti alla canzone Perchè nel tempo rio, riportata qui sopra a pag. 240. CANZONE. La bella stella, che il tempo misura, E come quella fa di sua figura A giorno a giorno il mondo illuminato; Alli gentili, ed a quei c'han valore, E ciaschedun l' onora Perocchè vede in lei perfetta luce, Quel ciel d'un lume, ch' agli buoni è duce Son io partito innamorato tanto, E porto pinto nella mente il viso, O bella donna, luce ch' io vedrei, Dice tra sè piangendo il cor dolente. D'intelletto a parlar così altamente, E viemmi di vederla un desidèro, Pur ad amarla, e più non m'abbandona ; Lasso morir non oso, E mia vita dolente in pianto meno. Ciascun, cui tiene il mio signore a freno, Riede alla mente mia ciascuna cosa, O ch' io l'udissi dire; E fo come colui che non riposa, E la cui vita a più a più si stuta In pianto ed in languire. Da lei mi vien d'ogni cosa il martire: |