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Tu sai che in te fu sempre la mia spene;
Tu sai che in te fu sempre il mio diporto:
Or mi soccorri, o infinito bene.

Or mi soccorri, ch'io son giunto al porto,
Il qual passar per forza mi conviene:
Deh non m'abbandonar, sommo conforto.
Chè se mai feci al mondo alcun delito,

L'alma ne piange, e 'l cor ne vien contrito.

Questo debolissimo sonetto fu col nome di Dante Alighieri riportato dal Corbinelli dopo la Bella Mano di Giusto de' Con. ti, Parigi 1595. Ma lo stile non lascia ammettere la possibilità che a Dante Alighieri appartenga; ed infatti della sua dubbia autenticità dice il Witte d' aver fatto parole nell'edizione tedesca delle rime liriche dei divino Poeta. Al che io dirò non solo d'assentir pienamente, ma di poter aggiungere un qualche peso, osservando che mai Dante ha scritto sonetti, si come questo, che eccedono la regolare misura di quattordici versi; ed eziandio riferendo che l'editore de' Poeti del primo secolo lo rinvenne in alcun codice col nome di Monte Andrea da Firenze, e che sotto un tal nome stampollo nel vol. II, pagina 42 della sua raccolta.

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O tu che sprezzi la nona figura,
E sei da men della sua antecedente,
Va' e raddoppia la sua susseguente:

Per altro non ti ha fatto la natura.

Questo epigramma non trovasi nelle antiche edizioni. Fu pubblicato dal Crescimbeni nel vol. I, libro VI de' Comentarii della volgar poesia, riprodotto dallo Zatta nella sua grande edizione delle Opere di Dante, e quindi da altri editori. Vuolsi che Dante il componesse per fare arrossire e tacere cert' uomo da nulla, il quale per piccola e tisicuzza persona l'avea deriso, paragonandolo alla sottil nona lettera dell'alfabeto cioè all'. Ma chi vorrà mai credere, che un poeta siccome l'Ali

ghieri volesse ribattere quell'atto di dispregio colla triviale freddura (non già con arguto motto, come dice il Crescimbeni) di chiamare quel dispregiatore da meno d' un' h, cioè d'un nulla, e di dirlo non ad altro buono che a raddoppiare il k, cioè a cacare? Chi potrà mai credere, che questa storiella appartenga veramente alla biografia di Dante, quando sappia che non ebbe questi piccolo e tisicuzzo personale, ma temperamento vigoroso e robusto, e statura di quasi tre brac cia toscane? Anche questo epigramma debb' essere senza nissuno scrupolo rigettato.1

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Chi nella pelle d'un monton fasciasse
Un lupo, e fra le pecore mettesse,
Dimmi: Cre' tu perchè monton paresse
Ch'egli però le pecore salvasse ?

Nelle antiche stampe questo epigramma non trovasi; ma nell' edizione dello Zatta, Venezia 1758, ov' io credo che fosse la prima volta stampato, si dà la notizia (vol. IV, parte II, pag. 263) che fu da Dante Alighieri composto per indurre un signore a cacciar di sua casa certa persona, che sotto il manto della pietà, cercava troppo domesticalmente conversare colla moglie di lui; e che fu tratto da un antichissimo codice della Riccardiana, il quale per testimonianza del Lami e del Pelli sappiamo esser quello segnato O. III, num. XXI. Altronde abbiamo l'altra notizia, che Dante scrivesse questi quattro versi a richiesta della contessa Caterina, moglie del conte Guido Salvatico, e che il Poeta dirigendo le parole al conte medesimo, volesse, per mezzo d' un' allegoria, farlo accorto delle non caste intenzioni d'un certo frate. Quantunque l'una e l'altra notizia perfettamente concordino, pure io non so prestarvi alcuna credenza, e sento di non potere attribuire a Dante un siffatto epigramma. Infatti dal Trucchi, il quale nel 1846 pubblicò alquante poesie inedite d' antichi rimatori toscani, fu prodotto in luce un sonetto (che un codice riccar

diano attribuisce a Dante) il cui primo quaternario si forma appunto di questi quattro versi, che coll' appoggio di sì mal fondati racconti si vogliono fare un epigramma contro il frate insidiatore dell'onestà della contessa Caterina. Or per questa pubblicazione è dunque gettato a terra tutto quel fantastico edifizio; nè io sto a riportare il resto del sonetto edito dal Trucchi, non solo perchè meschinissimo, ma perchè tutto lacero e guasto in modo da far pietà.

1 Questa istessa notizia, ma più circostanziata, leggesi pure, unitamente all' epigramma, nel Catalogo

de' codici MS. della Riccardiana, compilato dal Lami, e stampato in Livorno nel 1756, pag. 22.

MADRIGALE.

L'Amor che mosse già l'eterno Padre,
Per figlia aver di sua deità trina

Costei, che fu del suo Figliuol poi madre,
Dell' universo qui la fa regina.

Siccome dal Sansovino nel libro VIII della sua Descrizione di Venezia fu detto, che sopra l'antico seggio del doge nella sala del maggior Consiglio, sotto il quadro del Paradiso, leggevansi di Dante Alighieri i versi L'Amor che mosse ec., da lui dettati alloraquando venne oratore in Venezia pei signori di Ravenna; così lo Zatta e dopo altri editori sull'autorità del veneto illustratore inserirono questi versi fra le rime liriche di Dante. Ma per motivo della loro debolezza entrato io in sospetto della veracità del racconto del Sansovino, ricorsi al Ridolfi (Vite de' Pittori veneziani, Venezia 1648) ed a pag. 17 trovai la seguente notizia: «Guariento padovano, » per ordine del Senato, sotto il principato di Marco Cornaro, I'anno 1365 dipinse nella sala del maggior consiglio sopra " il tribunale, il Paradiso (or ricoperto da quello del Tintoretto) nel cui mezzo rappresentò il Salvatore in atto di porre aurea corona in capo alla Vergine madre sua, con numero di beati all'intorno, angeli, cherubini e serafini, come ci vengono descritti nelle sacre carte, e sotto quello leggevansi questi versi di Dante L'amor che mosse ec. » Queste parole ci offrono dati bastanti per rilevare che l'epigramma non è del nostro Poeta. Il quadro del Paradiso fu dipinto nel 1365; Marco Cornaro, sotto il cui principato fu fatta quell' opera, era doge nel 1365 (e lo dice lo stesso Sansovino allo stesso libro VIII); e Guariento pittor padovano

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fioriva nel 1365, perchè nato dopo il principio del secolo XIV. Or dunque, come può dirsi che Dante sia l'autore di quei quattro versi composti nel 1365, quando egli non fu in Venezia se non 44 anni innanzi quel tempo: quando egli fino dal 14 settembre 1321 era morto? Il dipinto del pittor padovano essendo posteriore a Dante di nove lustri, e l'epigramma essendo stato composto espressamente pel dipinto medesimo, ognun vede chiaramente che non può essere quello attribuito a Dante Alighieri.

1 La pittura del Guariento, insiea que' versi pretesi di Dante, si sarà probabilmente guastata nel

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l'incendio del detto salone, seguito l'anno 1577 secondo ciò che raccontano gli storici di Venezia.

SONETTO.

Tu che stanzi lo colle ombroso e fresco,
Ch'è con lo fiume, che non è torrente
(Linci molle lo chiama quella gente
In nome italiano e non tedesco);
Ponti sera e mattin contento al desco,
Poichè del car figliuol vedi presente
Il frutto che sperasti e si repente
S'avaccia nello stil greco e francesco.
Perchè cima d'ingegno non s'astalla
In questa Italia di dolore ostello,
Di cui si speri già cotanto frutto;
Gavazzi pure il primo Raffaello,

Che tra' dotti vedrallo esser redutto,

Come sopr' acqua si sostien la galla.

Questo sonetto gratulatorio a Bosone Novello della famiglia Raffaelli di Gubbio, sui progressi di suo figlio (nominato pur esso Bosone, e detto poi l'Unghero) nello studio della lingua greca e francese, fu pubblicato dal Lami nel vol. XIII, pag. 118 delle Delicia Eruditorum, quindi nell' edizione ve. neziana dello Zatta, e riprodotto poscia dal Dionisi nel quinto de' suoi Aneddoti, pag. 83, a sostegno dell' opinione, che Dante non solo conoscesse la lingua greca, ma che altresì sul declinare della sua vita si ponesse ad insegnarla. Ma quale autorità abbiamo per reputarlo di Dante? quella forse d'una

vecchia cartapecora legata nel libro E del pubblico archivio Armanni di Gubbio, dond' esso fu tratto? Potrà ella, questa sola, esser sufficiente, dacchè la storia biografica dell' Alighieri tace affatto del supposto, ch' egli prendesse ad erudir nelle lingue greca e francese il figlio di Bosone? E potremo noi nel sonetto medesimo ravvisar l'opera di quel grande, da cui fu composta la Divina Commedia, quando lo ritroviamo, non dirò debole e leggiero, ma molto al di sotto della mediocrità? Infatti il Witte ed il Foscolo non assentiron punto all' opinione del Dionisi e di quegli altri, i quali pretesero che il sonetto appartenesse a Dante Alighieri. All'opposto Francesco Maria Raffaelli, autore della Storia di Bosone, Giuseppe Pelli scrittore delle Memorie per la vita di Dante, e con questi tutti i Gubbiotti passati e presenti tengono che il sonetto serbato nell'archivio Armanni sia non solo legittimo, ma puranco autografo, cioè a dire scritto dalla mano stessa di Dante. Io ne vidi un facsimile accuratissimo, che un erudito inglese fece anni sono passando per Gubbio; e appena osservatolo, conobbi essere infallibilmente scrittura del secolo XVI.3 Chi non porrassi a ridere della bonarietà de'Gubbiotti, e di quegl'illusi illustratori, che crederono a tanta fola?

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» non posseder quella lingua, senza la quale ei non poteva pareggiare, » non che sovrastare agli altri uo» mini dotti.» (De Romanis, Note alla Vita di Dante del Tiraboschi.)

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A me sembrano imposture, e » non vecchie. La cantilena di messer Bosone d' Ugubbio sopra la esposizione e divisione della Com» media di Dante, in casa del quale » messer Bosone, esso Dante della sua maravigliosa opera ne fe e compi » buona parte (ivi e nell' ediz. padov. » vol. V, pag. 269), è antica per av>> ventura ed autentica; ma chi la intende ? Queste, con altre parecchie delizie degli eruditi, comin» ciarono a celebrarsi non sono an» cora cent'anni, da un valentuomo » ad onore de' Bosoni, de' quali ei compiacevasi d'essere discenden« te. »> (Foscolo, Discorso sul testo del Poema di Dante, § 157.) Quindi il Foscolo si fa a provare, che se Dante potè andar debitore a Bosone di qualche mese d'asilo, non fece peraltro presso di esso cosi lunga di

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