Capel non ti riman, che ben ti voglia; Niuno non è che pensi di tua doglia, SONETTO. Se nel mio ben ciascun fosse leale, Ma siate certi che di questo male Per tempo o tardi ne sarà vendetta: Pigliando assempro, mie parole nota, Deh non voler del mio tesor far endica. Da un codice in-4 avente la data del 1410, ed appartenente alla nobile famiglia Feroni, trasse l'abate Fiacchi questi due sonetti, e unitamente agli antecedenti (siccome ho già detto) pubblicolli col nome di Dante Alighieri nel ricordato fascicolo XIV degli Opuscoli scientifici e letterari, Firenze 1812. Se il Fiacchi avesse consultato la raccolta dell' Allacci, o quella del Mazzoleni, sarebbesi accorto che non erano inediti e di Dante, ma sì stampati e d'Antonio Pucci, nella guisa che vedonsi a pag. 54-55 della prima raccolta, Napoli 1661, ed a pag. 290 (però uno solamente) della seconda, Berga. mo 1750, volume primo. Dunque anche questi si debbon togliere dal Canzoniere di Dante Alighieri.1 PANTE. - 1. 19 Non spero che giammai per mia salute O d'altra cosa, di soffrenza, Questa sdegnosa di pietate amica; Della gravosa Pena, che posa nel cuor c'ha fatica. Che mostra apertamente, Come l'alma desia, Per non veder lo cor partirsi via. Questa mia donna prese nimistate Allor contra pietate, che s'accorse Ch' era apparita Quella ferita, La quale è ita sì, che m'ha il cor morto. Ch'ella fu risguardata Negli occhi, ove non crede Ch' altri risguardi per virtù, che fiede Io l'ho nel cor portata Da poi ch' Amor mi diede Tanto d'ardir, ch'ivi mirai con fede. lo la vidi si bella e si gentile, Ed in vista si umìle, Del suo piacere A lei vedere che per forza menâr gli occhi il core. Partissi allora ciascun pensier vile; Ed Amor ch'è sottile si che sforza L'altrui savere Al suo volere, - mi si fe signore. Secondo ch' egli è nato, Ancor che da virtù sia scompagnato Perchè non è ragion, ch' io non son degno Che a questo vegno come chi è menato: Ma sol questo n'assegno, Morendo sconsolato, Ch' Amor fa di ragion ciò che gli è a grato. Nelle antiche stampe delle liriche di Dante questa canzone non si legge. Col nome di lui fu stampata nell' edizione di Rovetta 1823, nella quale si dà la notizia che fu tratta dal codice 7767 della real biblioteca di Parigi. Conforme a quel testo, che presenta una lezione assai lacera e guasta,1 fu riprodotta dal Ciardetti nella sua edizione delle Opere di Dante, Firenze 1830. Ma essa non è dell' Alighieri. Non solo non trovasi nelle antiche edizioni, ed in quelle più recenti del Pasquali, dello Zatta e del Caranenti, ma neppure in alcuno de' tanti codici ch' io ho esaminati. Se l'anonimo, il quale ordinò l'edizione rovettana, avesse gettato l'occhio sull'edizione delle rime di Cino, procurata dal Ciampi, Pisa 1813; od almeno avesse consultato la raccolta de' Poeti del primo secolo, Firenze 1816, e quella delle Rime antiche toscane, Palermo 1817, non sarebbe caduto nel grave abbaglio di reputare inedito e di Dante quello che era già edito e di Cino. E infatti di Cino dobbiamo dirla, non solamente perchè trovasi in tutte le edizioni del Canzoniere di lui ed in parecchi codici (come nel laurenziano 49 del Plut. XL); non solamente perchè vedesi siccome di Cino citata dal Trissino e dal Quadrio; non solamente perchè dallo stile e dall'andamento apparisce essere del poeta pistoiese; ma perchè (sebbene nella raccolta di Firenze sopracitata, vol. I, pag. 154, e nell' altra di Palermo, vol. I, pag. 280, stia col nome di Noffo d' Oltrarno), questa canzone dall' istesso Dante Alighieri vedesi citata nel Volgare Eloquio, lib. II, cap. 5, non già come sua, ma precisamente come di Cino da Pistoia. E se l'istesso Dante ne certifica che la canzone è di Cino, tornerà inutile un altro argomento, che potrebbe dedursi da quell' avvertenza intorno la rima in mezzo, che già facemmo per la canzone L'uom che conosce è degno ch' aggia ardire, e che potrebbe farsi pure per questa, perciocchè qui pure è sfoggio di rime intermedie. 1 Avvertirò una volta per sempre, che coll' aiuto di tutte le stampe e di parecchi codici ho cercato di migliorare la lezione non solo de' componimenti legittimi e de' dubbi, ma altresi di quasi tutti gli apocrifi. Onde sarà vano il soggiungere, che anco questa canzone è stata da me ridotta in molto miglior forma. SONETTO. Se gli occhi miei saettasser quadrella, Che m'ha rubato il mio core e la mente: Da me nasconde sua persona bella. Ma io so ben, che fuor della mia luce Non spira altro che amor quando la miro, SONETTO. Giovinetta gentil, poichè tu vede Ch' Amor mi t'ha già dato, ed io 'l consento, La speranza, ch' Amor da te mi chiedi. Nel codice 168 della pubblica biblioteca di Perugia il professor Giovan Battista Vermiglioli rinvenne col nome di Dante Alighieri questi due sonetti, e nel 1824 li produsse alla luce, dedicandoli alla contessa Anna di Serego Alighieri, nata da Schio di Vicenza. Ho detto più volte, che la semplice autorità de' codici, e particolarmente poi d'uno solo, non può dar quasi nessun peso a stabilire l'originalità e legittimità d'un breve componimento poetico, siccom'è un sonetto, o una canzone. Il quale per poter con una qualche ragione attribuire a Dante, è d'uopo non solo che senta del fare di lui, ma che racchiuda pure qualche pregio particolare. Ma i due sonetti presenti, oltre il non avere autorità di codici (perciocchè nè da me nè dal Witte sonosi mai potuti ritrovar altrove), sono così meschina cosa, ed il secondo è eziandio così contorto ed oscuro che si debbon dire affatto indegni di Dante. Anche |