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il can. Moreni (Vita Dantis a Jo. Mario Philelpho, pag. 107, not. 1) dicendo che il Vermiglioli pubblicò questi due sonetti, domanda: Ma son eglino realmente di Dante? e nel Catalogo della biblioteca marucelliana, di fronte all'indicazione della miscellanea, in cui si contengono, vidi notato che non sono di Dante.

1. Nel 1824 il prof. Vermiglioli "pubblicò da un codice della pubblica biblioteca di Perugia due

» sonetti dei quali particolarmente » il secondo è oscuro e poco degno » di Dante. » (Witte, opusc. citato.)

SONETTO.

Alessandro lasciò la signoria

Di tutto 'l mondo, Sanson la fortezza,
Ed Assalon lasciò la gran bellezza
A' vermin, che la mangian tuttavia;
Aristotil lasciò filosofia,

E Carlo Magno la gran gentilezza,
Ottaviano lasciò la gran ricchezza,
El re Artù la bella baronia.
E tutte queste cose aspettan morte:
Però faccia ciascuno suo parecchio
A sostener la sua gravosa sorte.

Non indugi il ben far quand' egli è vecchio;
Faccilo in gioventute quando è forte,

E serva a quel, ch'è d'ogni luce specchio.

Io non so come l'abate Luigi Rigoli, trovato nel codice riccardiano 931 il presente sonetto, potesse così tenerlo per opera di Dante, da presentarcelo qual dissotterrato gioiello nel Saggio di rime antiche (Firenze 1825), quando pel poco o niuno suo pregio avrebbe dovuto lasciarlo là, dove inosservato giaceva; od almeno avrebbe dovuto conoscere la necessità d'indagini ulteriori e più accurate. Le quali, se da lui si fossero fatte, avrebbonlo per primo indotto a sospettare della origine di tal sonetto, perciocchè ei poteva ritrovarlo sotto nome d'incerto autore in qualche codice laurenziano (siccome nel 32 del Plut., XC); quindi avrebbongli fatto conoscere che esso a tutt' altri che a Dante Alighieri apparteneva, dappoich' egli potea vederne dal Crescimbeni (il quale nel vol. I,

pag. 11 a rozzo poeta l'ascrive) citato il quinto verso; e finalmente avrebbonlo guidato a rimirare coi proprii occhi tutto intero il sonetto non inedito e di Dante, ma già stampato e col nome di Butto Messo da Fiorenza, a cui molto probabilmente appartiene, nella raccolta de' Poeti antichi delI'Allacci, Napoli 1661, pag. 192. Ed in tal guisa adoperando, non si sarebbe il Rigoli unito al numero di quei trascurati editori, che hanno demeritato del grande Alighieri contaminandolo, come se le fossero sue proprie, delle altrui brutture.

CANZONE.

Poscia ch'i' ho perduta ogni speranza
Di ritornare a voi, madonna mia,
Cosa non è, nè fia

Per conforto giammai del mio dolore.
Non spero più veder vostra sembianza,
Poichè fortuna m'ha chiusa la via,
Per la qual convenia

Ch'io ritornassi al vostro alto valore.
Ond'è rimaso si dolente il core,

Ch'io mi consumo in sospiri ed in pianto,

E duolmi perchè tanto

Duro, che morte vita non m'ha spenta.
Deh che farò, che pur mi cresce amore,
E mancami speranza d' ogni canto?
Non veggio in qual ammanto

Mi chiuda, ch' ogni cosa mi tormenta,

Se non che chiamo morte che m' uccida,
Ed ogni spirto ad alta voce il grida.

Quella speranza che mi fe lontano

Dal vostro bel piacer ch' ognor più piace,
Mi s'è fatta fallace

Per crudel morte d'ogni ben nemica;

Ch' Amor, che tutto ha dato in vostra mano,
M' avea promesso consolarmi in pace.

Per consiglio verace

Fermò la mente misera e mendica

A farmi usar dilettosa fatica:

Per acquistare onor mi fe partire
Da voi pien di desire,

Per ritornar con pregio e in più grandezza.
Seguii 'l signor, che, s' egli è uom che dica
Che fosse mai nel mondo il miglior sire,
Lui stesso par mentire,

Chè non fu mai così savia prodezza,
Largo, prudente, temperato e forte,

Giusto vie più che mai venisse a morte.
Questo signor creato di giustizia,
Eletto di virtù tra ogni gente,

Usò più altamente

Valor d'animo più ch'altro mai fosse.
Nol vinse mai superbia nè avarizia;
Anzi l'avversità 'I facea possente,
Chè magnanimamente

Ei contrastette a chiunque il percosse.
Dunque ragione e buon voler mi mosse
A seguitar signor cotanto caro;

E se color fallaro,

Che fecer contro lui a lor potere,

Io non dovea seguir lor false posse:
Vennimi a lui, fuggendo 'l suo contraro.
E perchè il dolce amaro

Morte abbia fatto, non è da pentere:

Chè ben si dee pur far perch' egli è bene,
Nè può fallir chi fa ciò che conviene.

È gente che si tiene a onore e pregio
Il ben, che lor avvegna da natura;

Onde con poca cura

Mi par che questi menin la lor vita.
Chè non adorna petto l'altrui fregio,

Ma quant' uomo ha d'onore in sua fattura,
Usando dirittura:

Questo si è suo, e l'opera è gradita.

Dunque qual gloria a nullo è stabilita

Per morte di signor cotanto accetto?
Nol vede alto intelletto,

Nè sana mente, nè chi 'l ver ragiona.
O alma santa, in alto ciel salita,
Pianger dovriati inimico e suggetto,
Se questo mondo retto

Fosse da gente virtuosa e buona;

Pianger la colpa sua chi t'ha fallito,

Pianger la vita ogni uom che t'ha seguito. Piango la vita mia, però che morto

Se', mio signor, cui più che me amava,
E per cui i' sperava

Di ritornar ov' io saria contento.

Ed or senza speranza di conforto,
Più ch'altra cosa la vita mi grava.
O crudel morte e prava,

Come m'hai tolto 'l dolce intendimento
Di riveder lo più bel piacimento,
Che mai formasse natural potenza
In donna di valenza,

La cui bellezza è piena di virtute!

Questo m' hai tolto; ond' io tal pena sento, Che non fu mai si grave condoglienza;

Chè 'n mia lontana assenza

Giammai vivendo non spero salute:

Ch'ei pure è morto, ed io non son tornato, Ond' io languendo vivo disperato.

Canzon, tu ten andrai dritto in Toscana

A quel piacer, che mai non fu 'l più fino;

E,. fornito il cammino,

Pietosa conta il mio tormento fiero.
Ma prima che tu passi Lunigiana
Ritroverai il marchese Franceschino ;
E con dolce latino

Gli di' che ancora in lui alquanto spero:
E, come lontananza mi confonde,
Pregal ch'io sappia ciò che ti risponde.

Nel numero 69 del giornale fiorentino L' Antologia, settembre 1826, il professore Carlo Witte pubblicò corredata d'illustrazioni la canzone presente, la quale egli avea tratta dal codice CXCI della Marciana di Venezia. Nel pubblicarla ei non la diede già come inedita, perciocchè sapevala impressa nella veneta edizione del 1518, nell' aggiunta di rime posta dal Corbinelli appresso la Bella Mano del Conti, e nel Giornale Arcadico, vol. XXXVII, Roma 1822, quivi stampata per cura del cavaliere Tambroni; ma la diede siccome migliorata d'assai nella lezione, e siccome appartenente a Dante Alighieri.

Vuolsi dal Witte, che il Poeta esule dalla patria pianga in questa canzone la morte dell'imperatore Arrigo VII, e che diriga le sue parole a Firenze, rappresentata sotto figura d'amata donzella, a riveder la quale, ei dice con rammarico, non poter più pervenire, dappoichè Morte, coll' involare quel suo benigno signore, ha pure involato ogni sua più cara spe ranza. Noi però non conveniamo col Witte che la canzone debba appartenere a Dante Alighieri: 1o perchè per attribuirla a Dante non abbiamo alcun dato positivo; 2o perchè Dante non ha mai simboleggiato Firenze sotto figura di donna; 3° perchè in essa canzone non si dirigono le parole a femmina simbolica (cioè a dire a città), sì bene a femmina in carne e in ossa; 40 perchè le circostanze, alle quali in questa si fa allusione, non corrispondono punto a quelle della vita di Dante; 5o perchè i modi, le frasi, l'andamento (e questa è la ragion principale) non sono i proprii del cantor di Beatrice, e perchè in essa non riscontrasi quel nervo, quell'evidenza, quell' energia, che sempre fan che si distingua la musa dantesca.

I. Se la canzone sta col nome di Dante nell' edizion veneziana del 1518, che più volte ho detto non meritar fede nessuna, nella Bella Mano peraltro e nel Giornale Arcadico sta col nome di Sennuccio Del Bene o Benucci. A ciò debbesi aggiungere, che i Giunti nella loro edizione del 1527, e tutti i successivi editori del Canzoniere di Dante, non fecero ad essa luogo: che nel codice magliabechiano 1192, nel marciano 292, nel riccardiano 1100, nel vaticano 3213, nel ghigiano 580, nei laurenziani 46 del Plut. XL, e 37 del Plut. XC, ed in varii altri, riscontrasi non già col nome di Dante, ma con quello di Sennuccio; e che ne' molti codici, da me consultati, contenenti rime liriche dell' Alighieri, non mai l' ho ritrovata. Possiamo altresì rilevare, che il Corbinelli nel pubblicar colla Bella Mano del Conti altre rime di varii antichi poeti, si valse dell'autorità di due codici, l' uno del Sadoleto proveniente da Roma, l'altro di monsignor Bernardo Del

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