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agevolmente senza esse penetrati; e varie espressioni per l'altra, e varie licenze e parole dal volgarizzatore usate nella sua versione, avrebbon potuto, altre oscurarne l' intendimento, altre avvilirne la stima. Perciò, affinchè niun ostacolo si attraversasse alla divozione di chiunque di queste rime valer si volesse con animo cristiano e divoto, io ho riputato pregio dell'opera il giuntarvi questa fatica.

I SETTE SALMI PENITENZIALI

TRASPORTATI ALLA VOLGAR POESIA.

SALMO 1.

I. Signor, non mi riprender con furore,
E non voler correggermi con ira,
Ma con dolcezza e con perfetto amore.1
Io son ben certo, che ragion ti tira
Ad esser giusto contro a' peccatori ;
Ma pur benigno sei a chi sospira.2
II. Aggi pietate de' miei gravi errori:
Però ch' io sono debile ed infermo,
Ed ho perduti tutti i miei vigori.

I. Domine, ne in furore tuo arguas me: neque in ira tua corripias me.

II. Miserere mei, Domine, quoniam infirmus sum: sana me, Domine, quoniam conturbala sunt ossa mea.

1 Cioè, con puro amore scevro d'ogni collera. Correggimi, non come nimico, lasciandomi per vendetta trascinare alle mie passioni; ma come padre, per emendare semplicemente in me la mia colpa.

2 Cioè, a chi sospira per vera contrizione di cuore, e per desiderio sincero di tornare a Dio: perchè non ogni sospiro è sufficiente a conciliarci la divina misericordia.

[Nota sospirare in senso di pentirsi

sospirando, pentirsi ne' sospiri. Cosi nel sonetto XI disse: E d'ogni suo difetto allor sospira.]

3 Lo stesso che abbi; e lo scambiamento del b nel g non è infrequente nella lingua italiana; come è chiaro da molte altre parole, quali sono debbia, gabbia, subbietto ec. che si voltarono spesso in deggia, gaggia, suggetto ec.

4 tutti i miei vigori, cioè tutte le mie forze; e intende delle spirituali,

Difendimi, o Signor, dallo gran vermo,1
E sanami, imperò ch' io non ho osso,
Che conturbato possa omai star fermo."
III. E per lo cargo grande e grave e grosso,
L'anima mia è tanto conturbata,

Che senza lo tuo aiuto io più non posso.

III. Et anima mea turbata est valde: sed tu, Domine, usquequo?

perchè per la colpa mortale si perdono in fatti tutti gli abiti soprannaturali, produttivi degli atti meritorii della grazia, non rimanendo più nel peccatore, che una fede morta e una fredda speranza.

1 vermo, invece di verme, per cagion della rima: il che usò questo Poeta altresi nella Cantica dell' Inferno, canto VI, v. 22; canto XXIX, v. 61; canto XXXIV, v. 108. E per gran vermo intende egli il gran dragone, come si dice nell' Apocalisse (cap. XII, n. 9): il serpente antico,

che è chiamato Diavolo, il quale seduce tutto il mondo ec.

[Vermo per verme non è detto punto per cagion della rima; ma perchè cosi dicevano gli antichi, e così dicono i moderni, dicendosi anco stile e stilo, confine e confino, sentiere e sentiero, declive e declivo, alpestre e alpestro ec. In generale molti de' nomi mascolini derivati da' latini della terza declinazione, i nostri antichi li terminavano in e ed in o. Vedi Nannucci, Teorica de' Nomi. Firenze 1847.]

2 Dante ha nell' interpretazione dell' ultimo senso di questo secondo versetto, seguitato il testo ebraico, che cosi dice: E le mie ossa son divenute tremanti; come che poeticamente abbia egli ciò espresso, cendo, che non ha osso, che possa star fermo.

di

[Cosi nell' Inf., canto VI. v. 24: Non avea membro che tenesse fermo.]

S Cosi trovo in questa traduzione costantemente stampato, cioè cargo invece di carco; discarghi invece di discarchi ec. Nè si può ciò attribuire

a errore dell' amanuense 0 della stampa poichè del contrario ci fanno fede le parole compagne di rima, usate nell'interpretazione del terzo Salmo, che sono letargo e largo. Gli Spagnoli dicono, cargar e cargo, e i Francesi charger e charge. Per avventura anche a Dante piacque più cargare e cargo (come usan dire i Lombardi) che il toscano carcare e carco. Gli etimologisti derivano la detta voce dal carrus de' Latini corrotto dal currus: onde a' barbari tempi venne il latino carricare, per aggravare. Cosi il Pseudo-Jeronimo (De XII Script. Eccles.), parlando d'Origene, lasciò scritto: Oneribus majoribus carricabat se. Ma se derivata fosse la detta voce da carrus, avrebbe dovuto scriversi carricare costantemente con doppia r. Potrebbe per avventura più tosto esser la medesima originata de' popoli della Caria, i quali avevano per lor peculiare mestiere di fare il facchino. E i servi erano appunto da' Greci chiamati cari: onde dicevano nelle lor feste florali: fuori i cari per fuori i famigli; e all' usanza carica era un proverbio appo i medesimi, col quale volevano dire all' usanza facchinesca cioè, incivile e impropria del che si può leggere Erasmo. (Adag. Chil., pag. 25 e 969.) Onde da cari, carcare forse all' Italia è venuto: e cargar alla Spagna; siccome dal greco botarica s'è fatto tra noi botarga, e dal greco macara s'è fatto magara, e cosi discorrendo: moltissime essendo le voci greche, che noi abbiamo, dove la k in g è mutata.

IV. Aiutami, o Signor, tutta fiata: 1

Convertimi al ben fare presto presto:" 2
Cavami l'alma fuor delle peccata.

Non esser contra me così molesto,"

Ma salvami per tua misericordia,

Ch sempre allegra il tristo core e mesto:
V. Perchè, se meco qui non fai concordia,
Chi è colui, che di te si ricorde

In morte, dove è loco di discordia?

IV. Convertere, Domine, et eripe animam meam: salvum me fac propter misericordiam tuam.

V. Quoniam non est in morte qui memor sit tui: in Inferno

autem quis confitebitur tibi?

1 fata è voce trisillaba, come derivata dal verbo fiat de' Latini: nè si è fatta bisillaba mai, che per larga licenza. Tutta fata vale poi il medesimo che continuamente, con assiduiià, sempre più, o simil cosa. Così il Boccaccio (Gior. II, nov. 7): Quella non cessando, ma crescendo tutta fata.

2 Questa replicazione dell' avverbio presto è molto ben qui locata: perciocchè dimostra la premurosissima sollecitudine, che Davide aveva di uscir del peccato.

3 nomi sostantivi era uso antico di terminarli nel plurale alla maniera de' neutri latini, come le pugna e le coltella nel Novelliere; le castella e le munimenta nel Villani; le demonia e le peccata nel Passavanti: onde il Davanzati al tresi, a cui piacque vestir le brache all' antica, volle pur dire le letta e le tetta ec.

[Il dir le letta e le tetta non è un vestir le brache all' antica, ma è all'antica e alla moderna; e con siffatta doppia terminazione abbiamo qualche centinaio di voci.]

4 Ottimamente usa qui Dante la voce molesto, relativamente al cargo detto di sopra: poich'essa (come osservò il Passerat) è fatta da mola, ch' era la pena de' servi, che più lor dispiaceva; e vuol dire: non siate contra me si cruccioso (facheux diDANTE. - 1.

rebbe

un Francese) di lasciarmi più a lungo sotto il peso de' miei peccati ec.

5 Di questo stesso argomento si valse poi anche Ezechia (Isaiæ, cap. 38, v. 18): Perciocchè l' Inferno, diceva questi, non darà gloria a te: nè la morte loderà te: quelli che scendono nel lago, non ispereranno nella tua verità.

6 si ricorde, invece di si ricordi : licenza usata in grazia della rima non pur da Dante, ma dal Petrarca eziandio, che cosi scrisse: Che convien, ch' altri impare alle sue spese. (nella canz.: Mai non vo' più cantar) invece di impari.

[Neppur questa è licenza usata in grazia della rima, perciocchè nelle voci del pres. del congiuntivo per esempio tu ames, ille amet, attenendosi gli antichi alla terminazione latina, facevano tu ame, egli ame.]

7 Intende dell' eterna morte; poichè nella morte naturale le anime, separatesi dai loro corpi in grazia di Dio, seguitano ad amar lui e a lodarlo. E l'interpretare, che alcuni han fatto, il Profeta, come se avesse parlato della semplice natural morte considerando qui solo i corpi da sè nel sepolcro disanimati, è una stiracchiatura e scipitezza assai frivola.

22

VI. Le tue orecchie, io prego, non sien sorde
Alli sospiri del mio cor, che geme,

E per dolore sè medesmo morde.
Se tu discarghi il cargo che mi preme,1
Io laverò con lagrime lo letto,

E lo mio interno e notte e giorno insieme.

VII. Ma quando io considero l'aspetto

Della tua ira contr' a' miei peccati,

Mi si turbano gli occhi e l'intelletto.
Però che i falli miei sonsi invecchiati
Più, che gli errori de' nemici miei,
E più, che le peccata de' dannati.

VIII. Partitevi da me, spiriti rei,

Che allo mal fare già me conducesti,

VI. Laboravi in gemitu meo: lavabo per singulas noctes lectum meum: lacrymis meis stratum meum rigabo.

VII. Turbatus est a furore oculus meus: inveteravi inter omnes inimicos meos.

VIII. Discedite a me, omnes, qui operamini iniquitatem: quoniam exaudivit Dominus vocem fletus mei.

1 Cioè se tu mi sgravi della colpa diresti, e simili, invece di voi mostrache sommamente mi pesa ec.

2 Intende sotto il nome de' suoi nimici, tutti coloro che l'hanno indotto a peccare, tanto uomini che demoni e dice di essere afflittissi

mo,
sulla considerazione principal-
mente d'essersi invecchiato nella
sua colpa, cioè, d'aver in essa per-
severato per molti mesi; da che
quando Natano fu ad ammonirlo,
già gli era nato di Betsabea il figliuo-
lo: onde per lo men nove mesi dalla
sua colpa esser dovean già trapassa-
ti. Davide poi qui altamente si umi-
lia, per muovere più a pietà di lui il
Signore paragonandosi e posponen-
dosi infino, per questo suo lungo
durar nel peccato, agli stessi de-
monii.

3 conducesti invece di conduceste, Lionardo Salviati (Avvert., lib. II, cap. 10) scrive, che voi mostrasti, voi

ste, voi direste ec., eziandio nel miglior secolo, non che nella favella, alcuna volta trascorsero nelle scritture; e ne allega non pochi esempli, tra i quali sono: Io vorrei che voi mi vedesti (Boccaccio, Gior. VIII, nov. 9); Voi perdonasti alla Maddalena (nella Tav. Rit.); Per quello che voi mi dicesti (nella Stor. di Barlaam); Voi facesti tanto, che voi avesti Consoli ec. (nella Stor. di Livio): ed è divenuto idiotismo si proprio de' Fiorentini il valersi della seconda voce del singolare, invece di quella del plurale, che Giambatista Strozzi nelle sue Osservazioni intorno al parlare e scriver toscano (pag. 52) afferma infino che sarebbe soverchia squisitezza nel parlare o scrivere familiare, il dire amavate, sentivate ec. invece di amavi, sentivi ec. Onde non è maraviglia se i poeti si lasciarono talora o

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