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Di cui parlava a me si dolcemente,
Che l'anima diceva: I' men vo' gire:
Or apparisce chi lo fa fuggire;

E signoreggia me di tal virtute,
Che 'l cor ne trema sì che fuori appare.
Questi mi face una donna guardare,
E dice: Chi veder vuol la salute,
Faccia che gli occhi d' esta donna miri,

S' egli non teme angoscia di sospiri. »

Continuando nelle altre stanze una tal narrativa, dice (com'hassi nella dichiarazione posta al cap. X del Tratt. II del Convito) che quivi egli intende manifestare quello, che dentro l'anima si sentiva; cioè la battaglia dell'antico pensiero contra del nuovo. E prima manifesta brevemente la cagione del suo lamentevole parlare, dicendo:

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Trova contrario tal che lo distrugge

L'umil pensiero, che parlar mi suole
D' un' angiola, che in cielo è coronata. »

Questo umile pensiero si era quello stesso, del quale avea detto di sopra che solea esser vita del cor dolente, poichè ragionava della sua Beatrice; e questo si era quello che rimaneva modificato e distrutto dal nuovo, tanto che l'anima dolorando esclamava:

Oh lassa me! come si fugge

Questo pietoso, che m'ha consolata ! »

Ma un gentile spirito d'amor celestiale, che nella spiegazione dell' allegoria Dante dichiara essere un pensiero, il quale nasce dallo studio delle discipline filosofiche, si fa ben tosto a confortare l'anima del Poeta, dicendole:

E questa bella donna, che tu senti,

Ha trasformato in tanto la tua vita,
Che n' hai paura: si se' fatta vile!
Mira quant ella è pietosa ed umile,
Saggia e cortese nella sua grandezza
E pensa di chiamarla donna' omai;
Chè, se tu non t' inganni, ancor vedrai
Di si alti miracoli adornezza,

Che tu dirai: Amor, signor verace,
Ecco l'ancella tua, fa che ti piace. »

Cioè domina, signora

Adunque il Poeta per la virtù di questa nuova donna tutta sapienza e cortesia, divenuto seguace e devoto d'un amore intellettuale, prese a dir ne' suoi versi le lodi di lei, nella guisa che avea per l'innanzi detto le lodi di Beatrice: e così alla sua erotica canzone Donne, ch'avete intelletto d'amore contrappose la filosofica Amor che nella mente mi ragiona. E perchè tutte le opere, o vogliam dire azioni dell' uomo, hanno principio da un amore, e però possono venir chiamate amori, Dante pose il nome d'amore allo studio da esso posto nella filosofia. Nel che fare conformavasi a quel teorema, ch'egli sviluppò nel Convito, cioè che ciascheduna cosa ha il suo amore speciale. Massimo pertanto si era il subietto, che prendeva l'Alighieri a trattare, ed avvegnachè grande si fosse il suo amore allegorico, e molto il poter di sua mente, pure, essendo la filosofia (secondo ch' ei dice) prima figlia e pensiero d'Iddio, si fa dal bel principio a confessare,

1

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Quindi prende a celebrare la sua nuova bellissima donna con

versi pari a tanto subietto:

«Non vede il Sol, che tutto 'l mondo gira,

Cosa tanto gentil, quanto in quell' ora,

Che luce nella parte, ove dimora

La donna, di cui dire Amor mi face.

In lei discende la virtù divina

Siccome face in angelo. . . .

Cose appariscon nello suo aspetto

Che mostran de' piacer di Paradiso,
Dico negli occhi e nel suo dolce riso,
Che le vi reca Amor com' a suo loco:
Elle soverchian lo nostro intelletto
Come raggio di Sole un fragil viso 3.
Sua beltà piove fiammelle di fuoco
Animate d'un spirito gentile.

1 Nel Convito, Tratt. III, cap. ult.

2 Intendi: Nella sua bocca dolcemente ridente.

8 Cioè, una debole vista.

2

Ch'è creatore d'ogni pensier buono,
E rompon come tuono

Gl'innati vizii che fann' altrui vile. . .
Quest' è colei, ch' umilia ogni perverso;

Costei pensò Chi mosse l'universo. »

E in parecchie altre canzoni, ch' egli andò dettando in appresso, siccome in quella Le dolci rime d' Amor ch'io solia, e nell' altra Io sento sì d'amor la gran possanza, o proseguì a dir le lodi della filosofia, o descrisse i salutari effetti, che le bellezze di questa simbolica femmina producono sull'intelletto e sul core degli uomini. E poichè la poesia debb' essere ministra di civiltà, però (siccome il Petrarca) studiossi l'Alighieri di correggere i costumi de' suoi concittadini col mezzo de' morali argomenti, e coll' artifizio de' versi sublimi. Là, dove trattando delle materie del volgare illustre insegna esser elleno tre, dice che, siccome Beltramo dal Bornio cantò le armi, e Cino da Pistoia l'amore, così egli prese per argomento la rettitudine: e di essa intendesi aver tenuto discorso nelle sue morali canzoni, delle quali ei cita come ad esempio quella particolarmente che incomincia Doglia mi reca nello core ardire. 1

Cade qui in acconcio di rilevare un abbaglio del Perticari. Questi nel suo Discorso intorno l'amor patrio di Dante, dice (§ V) che: il vero ed oc» culto fine propostosi dall' Alighieri nel suo poema si fu la rettitudine; e che ciò rilevasi apertamente dal Trattato de Vulgari Eloquio, lib. II, cap. II, » dove l'Autore narra essere stata dall'amico di Cino cantata la rettitudine, » nel qual luogo egli parla di sè e del suo poema che ha questo fine. »

Ma nel passo allegato del Volgare Eloquio non parlasi punto d'epopeia, sibbene di canzoni della qual cosa possiamo essere appieno certificati non tanto dalle parole del contesto, quanto dagli esempii di canzoni, che l'istesso Dante riporta a confortar la sua tesi. Ecco il passo: Appare queste tre cose, cioè la salute, i piaceri di Venere e la virtù, essere quelle tre grandissime materie, che si denno grandissimamente trattare, cioè quelle cose che a queste grandissime sono, com'è la gagliardezza dell' armi, l' ardenza dell' amore e la regola della volontà. Circa le quali tre cose sole, se ben risguardiamo, troveremo gli uomini illustri aver volgarmente cantato, cioè Beltramo di Bornio le armi, Arnaldo Daniello l'amore, Gerardo di Born llo la rettitudine, Cino da Pistoia l'amore, l'amico suo la rettitudine. Beltramo dunque dice: Non puesc mudar ec.; Arnaldo Laura amara fa 'ls broils ec.; Gerardo: Per solatz revelhar ec.; Cino, Degno son io che mora ec.; l'amico suo (cioè Dante egli stesso): Doglia mi reca nello core ardire.

Non sarà difficile il riconoscere che qui non d'altro si parla, che delle diverse materie, le quali si debbono trattare nella canzone, e che non si fa punto allusione alla Divina Commedia o ad altri poemi. Come infatti l'Alighieri, se intendeva accennare che nella Commedia e non nelle canzoni avea

Qual pittura infatti più viva e più vera poteva egli fare dell'abbandono, in che al suo tempo giaceano la rettitudine, la generosità e la temperanza, di quella ch'ei fece nella su perba canzone Tre donne intorno al cor mi son venute? (canzone XIX). In essa descrive il Poeta lo stato della sua anima. Amore abita nel suo cuore, di cui egli è sempre il signore; tre donne si presentano cercando in quello un asilo; i loro abiti sono laceri, il loro volto, come tutta la loro persona, è atteggiato a dolore: vedesi che di tutto abbisognano, poichè la nobiltà e la virtù più non son loro d'alcun giovamento. Un tempo esse furono onorate ed amate, ma (per quanto esse dicono) ciascuno al presente le sprezza:

Tre donne intorno al cor mi son venute,

E seggionsi di fuore,

Chè dentro siede Amore,

Lo quale è in signoria della mia vita.
Ciascuna par dolente e sbigottita,
Come persona discacciata e stanca,
Cui tutta gente manca,

E cui virtute e nobiltà non vale.
Tempo fu già, nel quale,

Secondo il lor parlar, furon dilette,

Or sono a tutti in ira ed in non cale.

Queste così solette

Venute son, com'a casa d'amico,

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Che sanno ben che dentro è quel ch'io dico. Amore, appena ha scôrto queste tre nobili donne in siffatto abbandono, si fa ardito a diriger domanda intorno alla lor condizione e alla cagion del loro dolore: l'una dà tosto a conoscere sè stessa e le sue compagne; è dessa la rettitudine e le altre due sono la generosità e la temperanza, bandite e perseguitate dagli uomini, e ridotte a condurre una vita povera, errante ed infelice. Amore le ascolta, le accoglie sì come germane, nè può tenersi dall' esclamar sospirando: Larghezza e Temperanza, e l'altre nate

Del nostro sangue, mendicando vanno:
Però se questo è danno,

Pianganlo gli occhi, e dolgasi la bocca

cantata la rettitudine, avrebbe citato ad esempio un verso di queste e non di quella? I fine propostosi da Dante nel suo poema non è semplicemente e unicamente morale, ma morale, religioso e politico, siccome ho dato a ve dere nel mio Discorso sulla prima e principale allegoria della Divina Commedia. 1 Cioè Amore.

Degli uomini a cui tocca,

Che sono a'raggi di cotal ciel giunti,

Non noi che semo dell' eterna rocca, ec.

« Ed io che ascolto (dice quindi il Poeta) con questo divino linguaggio dolersi e consolarsi così alti dispersi, mi tengo " per cosa onorevole l'esilio a cui sono condannato, essendochè degno d'encomio si reputa il cadere co' buoni, " Ed io che ascolto nel parlar divino

Consolarsi e dolersi

Cosi alti dispersi,

L'esilio che m' è dato, onor mi tegno:

E se giudizio, o forza di destino

Vuol pur che il mondo versi

I bianchi fiori in persi,1

Cader co' buoni è pur di lode degno. »

Bella massima, la quale nei difficili casi della vita dev'esser la divisa d'un uomo d' onore e di virile coraggio; e tal si fu l'Alighieri il quale sempre tetragono ai colpi dell' avversa fortuna, e costante nell'esercizio delle virtù, seppe mostrare come la signoria delle umane vicende stiasi in mano di chi sa nella lotta mondana rinvigorire la forza dell'animo.

Il Petrarca altresì (come vedesi nel suo Canzoniere, specialmente nella parte seconda) ne si mostra verace amatore della virtù, e rassegnato al suo acerbo destino. Ma se egli ci fa gustare il bello morale, implorando consolazione dal cielo, dagli uomini e da tutto quanto il circonda; s'ei si cattiva la nostra simpatia colle sue espressioni di dolore profondamente sentite, per le quali si fa strada a penetrare in ogni cuore e ad infondervi una dolce melanconia; l'Alighieri ne richiama alla virtù non tanto col mezzo de' filosofici argomenti, quanto delle acerbe rampogne contra il vizio. Egli grida:

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