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Fagli natura, quando è amorosa,

Amor per sire, e 'l cor per sua magione;
Dentro allo qual dormendo si riposa
Talvolta brieve, e tal lunga stagione.
Beltate appare in saggia donna pui1

Che piace agli occhi sì, che dentro al core
Nasce un desio della cosa piacente:

E tanto dura talora in costui

Che fa svegliar lo spirito d'amore:

E simil face in donna uomo valente..

Il Landino, a quel luogo del Canto X dell' Inferno, ov'è fatta parola di Cavalcante, dice molto giudiziosamente, che il suo figlio Guido, dialettico acutissimo e filosofo egregio, dettò versi volgari pieni di gravità e di dottrina. Ma perchè datosi tutto alla filosofia non curò molto di studiare nei poeti latini e d'investigare loro arte e ornamenti, mancò di quello stile animato e leggiadro, che dee esser proprio del poeta. Guido, non ha dubbio, era assai dotto: pur nonostante nel poeta non vuolsi solo dottrina, ma grand' anima altresì e grand' arte; ed è in questo appunto che Guido rimase d' assai inferiore al suo amico Alighieri.2 Fra i suoi migliori sonetti notasi il seguente, nel quale va descrivendo le pene e le angoscie cagionategli dal disdegno e dalla durezza della sua donna:

a

A me stesso di me gran pietà viene

Per la dolente angoscia, ch'io mi veggio:
Per molta debolezza, quand' io seggio
L'anima sento ricoprir di penc.

Tanto mi struggo, perch' io sento bene,

Che la mia vita d'ogni angoscia ha 'l peggio:
La nuova donna, a cui mercede io chieggio,
Questa battaglia di dolor mantiene:

Perocchè quand' io guardo verso lei,

Drizzami gli occhi dello suo disdegno
Si fieramente, che distrugge il core:
Allor si parte ogni virtù da' miei;

Il cor si ferma per veduto segno
Dove si lancia crudeltà d'amore. »

1 Pui per poi.

2 α

Vogliono i periti dell' arte poetica, che Guido tenesse delle odi

volgari il secondo luogo dopo Dante. »

valcanti.

FILIPPO VILLANI, Vita del Ca

Un sonetto sopra un eguale argomento ha pure l' Alighieri, nè fia discaro al lettore il vederlo riportato qui appresso, sì per farne un confronto coll' altro di Guido, sì per ammirare le molte bellezze, che in esso risplendono, tanto che ad essere raffigurate non fa d'uopo di analisi.

a

Nulla mi parrà mai più crudel cosa,
Che lei per cui servir la vita smago:1
Che il suo desire in congelato lago,
Ed in foco d'amore il mio si posa.
Di così dispietata e disdegnosa

La gran bellezza di veder m'appago,
E tanto son del mio tormento vago,
Ch'altro piacere agli occhi miei non osa.
Nè quella2 ch'a veder lo Sol si gira,
E il non mutato amor mutata serba,
Ebbe quant' io giammai fortuna acerba :
Onde, quando giammai questa superba
Non vinca; Amor, fin che la vita spira,
Alquanto per pietà con me sospira. >>

Nel notare la differenza, che passa dall' uno all'altro di questi sonetti, il critico lettore avrà veduto, che sebbene bello e dignitoso sia pur quello del Cavalcanti, il primo quartetto di esso è alquanto debole, nè corrisponde nell' artifizio alle altre parti del componimento. Il terzo verso in ispecie pare non essere stato li posto che pel comodo della rima. Ma il sonetto di Dante va dal principio al fine dignitosamente e senz' intoppo veruno; ed il metro e la rima, anzichè tiranneggiare il poeta, sembrano essergli obbedienti cotanto da divenire nelle sue mani istromenti di nuova e sublime bellezza. Infatti per testimonianza del suo figlio Piero, sappiamo ch' ei solea darsi vanto di non esser giammai stato costretto dalla tirannia della rima a dir cose, ch' egli non avesse in prima pensate, ma di averla anzi saputa piegare a' suoi voleri e a' suoi concetti senza alterarne punto le leggi. A riuscire in ciò volevasi, non ha dubbio, artifizio grandissimo, specialmente quando il metro portava seco molte difficoltà. Laonde quei poetici componimenti, che hanno rime intermedie, essendo i più scabri e i più difficili, ne porrò sott' occhio del lettore alcun tratto, affinchè possa vedere come Dante in quelli riuscisse, e quanto a giusto titolo si desse egli il vanto or ora accennato. La canzone alla Morte ne offre un esempio:

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Nè cui pietà per me muova sospiri

Ove ch'io miri, o 'n qual parte ch'io sia;
E poichè tu se' quella che mi spoglia
D'ogni baldanza, e vesti di martiri,
E per me giri ogni fortuna ria;
Perchè tu, Morte, puoi la vita mia
Povera e ricca far, ec.»

Un altro esempio può aversi nella canzone XVII:

Poscia ch' Amor del tutto m'ha lasciato

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Ma perocchè pietoso

Fu tanto del mio core,

Che non sofferse d'ascoltar suo pianto,

lo canterò così disamorato

Contro al peccato

Ch'è nato in voi di chiamare a ritroso
Tal, ch'è vile e noioso, ec. »

Chi è pertanto, il quale in questi versi non iscorga, unitamente all'aggiustatezza de' concetti, la proprietà della locuzione e la spontaneità delle rime? Nulla può riscontrarvisi di forzato e contorto, nè una frase o una parola pure d' ozioso e di superfluo. La poesia, sotto la penna d'un rimatore tanto valoroso e destro, prende un andamento così elegante, una venustà così naturale, che a prima vista non potrebbe ravvisarvisi l'artifizio poetico, se non si sapesse esser arte grandissima il nasconder l'arte.

Anche il Petrarca volle dar prova dell' ingegno suo in tal maniera di poetici componimenti:

Mai non vo' più cantar, com' io soleva:

Ch' altri non m' intendeva; - ond' ebbi scorno;

E puossi in bel soggiorno

esser molesto:

Il sempre sospirar nulla rileva.

Già su per l'Alpi neva― d'ogni intorno;

Ed è già presso al giorno; - ond' io son desto.
Un atto dolce onesto è gentil cosa;

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Nè fia più ch'io rimiri—a lui giammai,
Ancor che omai-io non possa campare:
Che se il vo' pur pensare, io tremo tutto;

E 'n tal guisa conosco il cor distrutto. »

Ma questi due poeti, e dobbiamo dirlo, troppo fecero qui sfoggio di rime, cosicchè una tal poesia, invece di procedere col sostenuto andamento della canzone, sembra piuttosto tenere la maniera capricciosa e saltellante della frottola, o del ditirambo. In questo, che non so se debba dirmi difetto, caddero pure Guido Cavalcanti e Guido dalle Colonne, cui que' rimatori susseguenti tolsero ad imitare. Meglio però al Petrarca riuscì una tal prova nella canzone Vergine bella, ov' ei s' avvisò d'essere assai più parco di rime intermedie, una sola in ciascheduna stanza ponendone, e questa in fine nella guisa seguente:

Soccorri alla mia guerra

Bench'io sia terra,- ―e tu del ciel regina,»

Quella canzone, che dalla forma e dalla tessitura delle sue stanze, vien chiamata antica sestina, è pur essa un com · ponimento assai malagevole: perciocchè la troppa distanza delle consonanze le dà l'aspetto d' un componimento languido e privo di grazia e d'armonia, e la ripetizione continua delle stesse voci finali porta seco agevolmente il rischio di risvegliare press' a poco le stesse idee. Vuolsi adunque nel poeta molt' arte e molta copia di concetti a far sì, che un tale componimento, scabro e disarmonico di sua natura, riesca leggiadro, pieno e maestoso. Bella nulladimeno, ed assai ben condotta, dee dirsi la sestina di Dante, la quale incomincia:

Al poco giorno, ed al gran cerchio d'ombra. »

Ancor più difficile si è l'altro genere di canzone, chiamata sestina doppia: dalla seguente peraltro, di cui riporto solo una stanza, potrà conoscersi quanto il nostro poeta fosse maestro in tuttociò che spetta all'arte del verseggiare. Con sole cinque voci finali, cioè donna, tempo, luce, freddo e pietra, egli riuscì a fare una canzone, non breve al certo, perchè composta di sessantasei versi, la quale per la varietà e nobiltà de' concetti, per la proprietà dell' espressioni, per la vivezza delle immagini e per l'artifizio poetico, può dirsi in ogni sua parte compiuta e perfetta, ed infallibilmente superiore a quante di simili se ne rinvengono in tutti i poeti italiani; Amor, tu vedi ben, che questa donna

La tua virtù non cura in alcun tempo

Che suol dell' altre belle farsi donna.
E poi s'accorse ch'ell'era mia donna,
Per lo tuo raggio ch'al volto mi luce,
D'ogni crudelità si fece donna,

Sicchè non par ch'ell'abbia cor di donna,
Ma di qual fiera l'ha d'amor più freddo;
Chè per lo tempo caldo e per lo freddo
Mi fa sembianti pur com' una donna,
Che fosse fatta d'una bella pietra

Per man di quel, che me' intagliasse in pietra, cc..

Questa maniera di poesia, se piacque a Dante talvolta, piacque altresì al Petrarca, il quale ci ha dato nel suo Canzoniere alquante di tali sestine e semplici e doppie. Ma in simili componimenti essendo il Poeta obbligato (come qui sopra accennai, e come può vedersi dal brano trascritto) a ripetere in ogni stanza, con ordine peraltro inverso, i vocaboli stessi con che terminano i versi della prima, è molto difficile, ch' ei giunga ad uscirne con plauso, non potendo, se non per opera di grande ingegno e di molto studio, far servir sempre le stesse parole alla varietà de' concetti. Adunque può facilmente accadere, che la cosa stessa si ridica quivi più volte, che si cada in freddure, e più particolarmente che si pongano delle espressioni non naturali, e delle frasi lambiccate e contorte. Così appunto accadde a parecchi rimatori contemporanei dell' Alighieri; ed il Petrarca altresì, abbenchè in ogni sua cosa sì forbito e sì terso, sembra in un tal genere di componimento non essere molto felicemente riuscito. Questo almeno è il giudizio del Tassoni, giudizio pur dato dal Sismondi allor che egli nella sua Istoria della letteratura del mezzogiorno dell' Europa, prese, fra le altre cose, a fare una censura delle sestine del cantore di Laura.

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Cino da Pistoia, dolente per la perdita della sua amata, scrisse una canzone, la quale comincia La dolce vista bel guardo soave. Essa, non ha dubbio, racchiude qualche tratto peregrino e passionato sì come quello:

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