Pien d'infinita e nobil maraviglia
Presi a mirar il buon popol di Marte, Ch' al mondo non fu mai simil famiglia. Giugnea la vista con l'antiche carte,
Ove son gli alti nomi e i sommi pregi, E sentia nel mio dir mancar gran parte. Ma disviarmi i peregrini egregi,
Annibal primo, e quel cantato in versi Achille, che di fama ebbe gran fregi : I duo chiari Trojani, e i duo gran Persi, Filippo, e'l figlio, che da Pella a gl' Indi Correndo vinse paesi diversi.
Vidi l'altr' Alessandro non lunge indi
Non già correr così, ch' ebb altro intoppo. Quanto del vero onor, Fortuna scindi! I tre Teban ch' io dissi, in un bel groppo: Nell' altro Ajace, Diomede e Ulisse, Che desiò del mondo veder troppo. Nestor, che tanto seppe e tanto visse Agamennón e Menelao, che 'n spose Poco felici al mondo fer gran risse. Leonida, ch' a' suoi lieto propose Un duro prandio, una terribil cena, E 'n poca piazza fè mirabil cose. Alcibiade, che si spesso Atena,
Come fu suo piacer, volse e rivolse Con dolce lingua e con fronte serena. Milciade, che 'l gran giogo a Grecia tolse, E'l buon figliuol, che con pietà perfetta Legò sè vivo, e'l padre morto sciolse. Temistocle e Teséo con questa setta, Aristide, che fu un Greco Fabrizio A tutti fu crudelmente interdetta La patria sepoltura, e l'altrui vizio Illustra lor: che nulla meglio scopre Contrarj duo, ch' un piccol interstizio. Focion va con questi tre di sopre,
Che di sua terra fu scacciato e morto; Molto contrario il guidardon dall' opre! Com' io volsi, il buon Pirro ebbi scorto E'l buon Re Massinissa: e gli era avviso D'esser senza i Roman, ricever torto. Con lui mirando quinci e quindi fiso, Jeron Siracusan conobbi, e'l crudo Amilcare da lor molto diviso.
Vidi, qual uscì già del foco ignudo Il Re di Lidia; manifesto esempio, Che poco val contra Fortuna scudo. Vidi Siface pari a simil scempio ; Brenno, sotto cui cadde gente molta', E por cadd' ei sotto 'l famoso tempio. In abito diversa, in popol folta
Fu quella schiera, e mentre gli occhi alti ergo, Vidi una parte tutta in sè raccolta :
55 E quel che volse a Dio far grande albergo Per abitar fra gli uomini, era 'l primo; Ma chi fè l'opra, gli venia da tergo: A lui fu destinato; onde da imo
Perdusse al sommo l'edificio santo, Non tal dentro architetto, com'io stimo. Poi quel ch'a Dio familiar fu tanto
In grazia a parlar seco a faccia a faccia, Che nessun altro se ne può dar vanto; E quel che, come un animal s'allaccia, Con la lingua possente legò il Sole, Per giugner de' nemici suoi la traccia. O fidanza gentil! chi Dio ben cole,
Quanto Dio ha creato, aver soggetto, El ciel tener con semplici parole! 70 Poi vidi 'l padre nostro a cui fu detto Ch' uscisse di sua terra, e gisse al loco Ch' all'umana salute era già eletto : Seco 'l figlio, e 'l nipote, a cui fu 'l gioco e'l Fatto delle due spose, e'l saggio e casto Giosef dal padre lontanarsi un poco. Poi stendendo la vista quant' io basto Rimirando ove l'occhio oltra non varca, Vidil giusto Ezechia, e Sanson guasto:
Di qua da lui chi fece la grand' arca, E quel che cominciò poi la gran torre, Che fu si di peccato e d'error carca: Poi quel buon Giuda a cui nessun può torre Le sue leggi paterne, invitto e franco, Com' uom che per giustizia a morte corre. Già era il mio desir presso che stanco,
Quando mi fece una leggiadra vista Più vago di veder ch' io ne foss' anco. lo vidi alquante donne ad una lista, Antiope, ed Oritía armata e bella, Ippolita del figlio afflitta e trista ; E Menalippe, e ciascuna sì snella,
Che vincerle fu gloria al grande Alcide, Che l'una ebbe, e Teséo l'altra sorella: La vedova che si sicura vide
Morto'l figliuol, e tal vendetta feo, Ch'uccise Ciro, ed or sua fama uccide. Però vedendo ancora il suo fin reo
Par che di novo a sua gran colpa moja, Tanto quel di del suo nome perdéo. Poi vidi quella che mal vide Troja, E fra queste una vergine Latina, Ch'in İtalia a' Trojan fè tanta noja. Poi vidi la magnanima Reina,
Ch' una treccia rivolta, e l'altra sparsa Corse alla Babilonica ruina. Poi vidi Cleopatra, e ciascun' arsa
D'indegno foco; e vidi in quella tresca Zenobia del suo onor assai più scarsa.
Bell' era, e nell' età fiorita e fresca ;
Quanto in più gioventute, e'n più bellezza, 110 Tanto par ch'onestà sua laude accresca.
Nel cor femmineo fu tanta fermezza,
Che col bel viso e con l'armata coma Fece temer chi per natura sprezza : 115 I' parlo dell'imperio alto di Roma,
Che con arme assalio, bench' all' estremo Fosse al nostro trionfo ricca soma. Fra i nomi che 'n dir breve ascondo e premo, Non fia Giudit la vedovetta ardita,
Che fè'l folle amador del capo scemo. Ma Nino, ond' ogn' istoria umana è ordita, Dove lass' io? e'l suo gran successore, Che superbia condusse a bestial vita? Belo dove riman, fonte d'errore,
Non per sua colpa? dov'è Zoroastro, Che fu dell'arte magica inventore ? E chi de' nostri duci che 'n duro astro Passar l'Eufrate, fece 'l mal governo, All' Italiche doglie fiero impiastro? 30 Ov' è'l gran Mitridate, quell' eterno Nemico de' Roman, che si ramingo Fuggi dinanzi a lor la state e 'l verno? Molte gran cose in picciol fascio stringo. Ov'è'l Re Artù, e tre Cesari Augusti, 135 Un d'Affrica, un di Spagna, un Loteringo? Cingean costu' i suoi dodici robusti,
Poi venía solo il buon duce Goffrido,
Che fè l'impresa santa, e i passi giusti. Questo, di ch' io mi sdegno e 'ndarno grido, Fece in Gierusalem con le sue mani
Il mal guardato e già negletto nido. Ite, superbi e miseri Cristiani,
Consumando l'un l'altro, e non vi caglia, Che 'l Sepolcro di CRISTO è in man di cani.
« ÖncekiDevam » |