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Raro, o nessun ch'in alta fama saglia,
Vidi dopo costui (s'io non m'inganno)
O per arte di pace o di battaglia.
Fur, com' uomini eletti ultimi vanno,
Vidi verso la fine il Saracino

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Che fece a' nostri assai vergogna e danno. 150 Quel di Luria seguiva il Saladino,

Poi'l duca di Lancastro, che pur dianzi Er' al regno de' Franchi aspro vicino. Miro, com' uom che volentier s'avanzi, S'alcuno vi vedessi, qual egli era Altrove a gli occhi miei veduto innanzi : E vidi duo che si partir jersera

Di questa nostra etate, e del paese; Costor chiudean quell' onorata schiera: 'Il buon Re Sicilian, ch' in alto intese,

E lunge vide, e fu verament' Argo: Dall' altra parte il mio gran Colonnese, Magnanimo, gentil, costante e largo.

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TRIONFO

DELLA FAMA.

CAPITOLO TERZO.

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I。

non sapea da tal vista levarme,

Quand' io udii: Pon mente all'altro lato, Che s'acquista ben pregio altro che d'arme. Volsimi da man manca, e vidi Plato

Che'n quella schiera andò più presso al segno
Al qual aggiunge a chi dal cielo è dato.
Aristotele poi pien d'alto ingegno;
Pitagora, che primo umilemente
Filosofia chiamò per nome degno :
10 Socrate e Senofonte; e quell' ardente

Vecchio a cui fur le Muse tanto amiche,
Ch' Argo, e Micena, e Troja se ne sente:

Questi cantò gli errori e le fatiche
Del figliuol di Laerte e della Diva,
Primo pittor delle memorie antiche.
A man a man con lui cantando giva

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Il Mantovan, che di par seco giostra,
Ed uno al cui passar l'erba fioriva:
Quest' è quel Marco Tullio in cui si mostra
Chiaro quant' ha eloquenza e frutti e fiori: 20
Questi son gli occhi della lingua nostra.
Dopo venía Demostene, che fuori

E di speranza omai del primo loco
Non ben contento de' secondi onori:
Un gran folgor parea tutto di foco :
Eschine il dica, che 'l potè sentire,
Quando presso al suo tuon parve già roco.

Io non posso per ordine ridire,

Questo, o quel dove mi vedessi, o quando, E qual innanzi andar, e qual seguire; Che cose innumerabili pensando,

E mirando la turba tale e tanta, L'occhio il pensier m' andava desviando. Vidi Solon, di cui fu l'util pianta

Che s'è mal culta, mal frutto produce,
Con gli altri sei di cui Grecia si vanta.
Qui vid io nostra gente aver per duce

Varrone, il terzo gran lume Romano,
Che quanto 'l miro più, tanto più luce:
Crispo Salustio, e seco a mano a mano
Uno che gli ebbe invidia, e videl torto,
Cioè'l gran Tito Livio Padovano.
Mentr' io mirava, subito ebbi scorto
Quel Plinio Veronese suo vicino

A scriver molto, a morir poco accorto.

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Poi vidi'l gran Platonico Plotino,
Che credendosi in ozio viver salvo,
Prevento fu dal suo fiero destino,
Il qual seco venia dal matern' alvo,
E però providenza ivi non valse:
Poi Crasso, Antonio, Ortensio, Galba e Calvo,
Con Pollion, che 'n tal superbia salse,

Che contra quel d'Arpino armar le lingue Ei duo cercando fame indegne e false. 55 Tucidide vid' io, che ben distingue

бо

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I tempi e i luoghi, e loro opre leggiadre;
E di che sangue qual campo s' impingue.
Erodoto di Greca istoria padre

Vidi, e dipinto il nobil geometra
Di triangoli, tondi, e forme quadre:
E quel che 'nver di noi divenne petra,
Porfirio, che d'acuti sillogismi

Empiè la dialettica faretra,

Facendo contra 'l vero arme i sofismi;
E quel di Coo, che fè via miglior l'opra,
Se ben intesi fosser gli aforismi.
Apollo, ed Esculapio gli son sopra

Chiusi, ch' appena il viso gli comprende:
Si par che i nomi il tempo limi e copra .
70 Un di Pergamo il segue, e da lui pende
L'arte guasta fra noi, allor non vile
Ma breve e oscura, ei la dichiara e stende.
Vidi Anasarco intrepido e virile,

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E Senocrate più saldo ch'un sasso,
Che nulla forza il volse ad atto vile.
Vidi Archimede star col viso basso
E Democrito andar tutto pensoso,
Per suo voler di lume e d'oro casso.

Vid' Ippia il vecchierel, che già fu oso
Dir: l' so tutto; e poi di nulla certo,
Ma d'ogni cosa Archesilao dubbioso.
Vidi in suoi detti Eraclito coperto,
E Diogene Cinico in suoi fatti

Assai più che non vuol vergogna, aperto;
E quel che lieto i suoi campi disfatti
Vide e deserti, d'altra merce carco,
Credendo averne invidiosi patti.
Iv'era il curioso Dicearco,

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Ed in suoi magisterj assai dispari
Quintiliano, e Seneca, e Plutarco
Vidivi alquanti -ch' han turbati i mari
Con venti avversi, ed intelletti vaghi,
Non per saper, ma per contender chiari;
Urtar, come leoni, e come draghi

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Con le code avvinchiarsi: or che è questo, 95 Ch' ognun del suo saper par che s'appaghi? Carneade vidi in suoi studj si desto,

Che parland' egli, il vero e'l falso appena
Si discernea, così nel dir fu presto.
La lunga vita, e la sua larga vena
D'ingegno pose in accordar le parti
Che I furor letterato a guerra mena.
Nè'l potéo far; che come crebber l'arti,
Crebbe l'invidia, e col sapere insieme
Ne' cuori enfiati i suoi veneni sparti.
Contra 'l buon Sire che l'umana speme
Alzò, ponendo l'anima immortale,
S'armo Epicuro, onde sua fama geme;
Ardito a dir ch'ella non fosse tale:
Così al lume fu famoso e lippo
Con la brigata al suo maestro eguale,

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