superbe come dogaresse, vestite di seta e di lini d'Olanda, e adorne di quelle perle che le galee riportavano dall'oriente. Nessuna questione, che agitasse profondamente gli animi, o dalle cattedre, o nelle officine, o sulla gleba, lasciava indifferente il suo infaticabile intelletto. In due odi rapide, tocca il malinconico argomento dell'emigrazione. Due sventure per il colono: il restare e il partire. Nella prima ode, il poeta ora si sdegna, ora piange con lui, che Cesse al vicino i vomeri Col bue, che la lunata E lo tenta a rimanere, ricordandogli la fecondità antica e diversa delle terre italiane, il bisogno di rendere la florida ubertà d'un tempo al Lazio e alla Sicilia; e l'esorta con passione: Ammainate, o miseri, L'illusa vela. Giova Le lunghe notti al murmure Addormentarsi. Ma nell'ode seconda, il fittaiolo, ritto sul molo di Genova e determinato a partire, sente la punta amara del verso e risponde: Ma lo stremato vivere, I duri verni, i guai De' morbi e delle grandini, Dolce è l'aratro volgere Ma se per noi non cigola E la spiata macina A noi due volte è greve; Dirai che siamo improvvidi? E rimanda una sinistra profezia: Odo il vulcan che mormora Erudito nelle dottrine economiche, scrutate e discusse forse col suo amico, il senatore Lampertico, volontieri al rumore de' subbi e delle spole, al fremito delle caldaie, allo stridio degl'ingranaggi negli opifici del suo cugino, il senator Alessandro Rossi, temperava la strofa memore dell'industrie repubblicane: E tu le plebi glorïose allora A' telai della seta e della lana, Che poscia in più terribile fatica Con cuore leale di cittadino palpitava ai ricordi delle recenti nostre vittorie; e sul feretro del primo Re d'Italia e di Daniele Manin, sugli ossarî di Solferino e di S. Martino, sui caduti di Monte Berico, gemeva con libera elegia. Non lo impediva la sua religione, ch'era semplice, lucente, scevra di viltà, d'interessi e di passioni politiche, quale si palesa nel canto Milton e Galileo, nell'altro a Mia Madre e nelle Catacombe di Roma. Ogni anima onesta dovrà dire di lui: si può non aver la fede di Giacomo Zanella, ma non si può negare ch'ella fosse pura, caritativa, socievole e consolatrice. Voleva la patria forte, laboriosa, ricca e felice; la voleva soprattutto morale e concorde; e fa che parlino una gagliarda parola i cavalli di S. Marco, per trarre eccitamenti ed augurj da glorie antiche e moderne : O del Ponte e di Marghera Dunque spenta in voi non era E di Lepanto e di Rodi E veneto veramente d'affetti e d'ispirazioni fu lo Zanella. Venezia a lui diede il vigoroso colorito e l'armonia delle strofe. Come ne' suoi senari sento una tranquilla ondulazione di gondola, un molle strisciare sopra laguna in riposo, o un rombare misurato di colombi intorno ai mosaici d'oro, così in altre forme di verso sento la grazia flessibile, arguta, femminea, che ho vedu ta in certi gruppi di donne, che per quelle calle e per quei campieli parlavano il dialetto, che tanto le abbella. VIII. Non fu sempre tranquilla e serena la vita del Poeta. Una cupa ed inerte malinconia gravò su quell'agile e luminosa intelligenza; ed ei passò alcuni anni come defunto alla vita, agli amici ed all'arte. A un tratto si ridestò, non si sa bene per qual forza e in qual modo, e gli amici ne provarono allegrezza quasi d'una resurrezione. Me ne dava subito la notizia egli stesso: "Ho passato quattro anni assai dolorosi, in terribili strette di spirito. Ora respiro, e torno con gioia alle antiche amicizie e ai diletti miei studi Venne allora a visitarmi nell'agosto del 76. Soave d' indole, carezzevole co' fanciulli, aborrente fin l'ombra d'ogni vanità letteraria e d'ogni pedanteria, ricco d'aneddoti narrati con l'ilare vivacità dei veneti, ricchissimo di varia e spigliata erudizione, la patita sventura gli aveva lasciato appena qualche tocco di fina ironia sulle condizioni degli studi, delle scienze e delle arti in Italia, un po' più di mesta sfiducia nelle umane provvidenze e giustizie, e una ritrosia maggiore nell'accettare pubblici uffici ed onori. Mi si perdonino alcuni ricordi, nei quali mi trattengo soltanto, perchè mi giovano a porre in luce più sincera e più geniale la figura del Poeta. Gli domandai se avrebbe veduto volentieri la nostra pinacoteca. Volentieri, rispose, se il tempo non fosse breve, e se i capolavori della scuola umbra non potessi ammirare anche in altre grandi città. Fatemi vedere piuttosto le bellezze del vostro orizzonte: nè Roma nè Firenze potranno darmi le linee e i colori dei vostri paesaggi. Prendemmo la via di Monte Luce, dove tra i colli più vicini e quelli che seguono al di là, s'interpone una lenta sfumatura di distanze fino ai monti semivelati nei violetti vapori del crepuscolo. Guardava il Poeta come per incanto la gradazione dei prospetti e delle tinte, e notando quel filare di vecchi olmi e quei fianchi oscuri di monastero, che limitano la strada campestre, diceva con voce piana: Oh questo è bello! E passando poi ai modi d'esprimere la bellezza naturale delle cose, in che riteneva maetro insuperato Virgilio, ricordava quel verso: cum vere rubenti Candida venit avis longis invisa colubris. E guardava in alto il cielo sereno, come se vedesse sfilare le candide cicogne, come se assistesse alle lotte aeree dei lunghi serpenti, che si divincolano nelle forti strette dell'uccello. Quante immagini, diceva, mirabilmente raccolte nella brevità d'un sol verso! E le sue parole, che parevano non già una lezione, ma un pla |