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cido continuare di sue abituali meditazioni, mi svelavano come e dove egli avesse studiato. Il di più che io desideravo sapere, lo appresi non a Perugia, ma a Vicenza.

IX.

Nell'aprile del 79 potei godere la vista dell'eleganze Palladiane. Allora mi si moltiplicarono spontaneamente in fantasia i confronti di questo o quel suo canto, con questa o quella nuova bellezza d'edifici. Ammirando il portico, la scala e le logge del palazzo Porto Colleoni, con certi sveltissimi colonnini sui quali la primavera gittava lunghi tralci di glicine fiorito, mi venne detto allo Zanella: Ecco una vostra ode. Egli ne sorrise, nè superbo nè modesto, come ben nota il Manzoni; poichè sempre la consapevolezza dell'ingegno e il riverbero ideale dell'arte tormenta e consola gli artisti.

La bellissima Vicenza mi veniva raccontando così molte cose del suo cittadino. Là nel sontuoso palazzo Chiericati, colla facciata a due ordini, dorico e jonico, e col portico di tredici intercolunni, al quale rispondono due logge laterali nel piano superiore, trovavo le proporzioni squisite de' migliori suoi canti. Nell'interno dello stesso palazzo, dov'è il museo di storia naturale della provincia vicentina, vedevo la fon

te delle ispirazioni e degli argomenti prediletti. Quelle valli subalpine, dove s'erano succeduti con vicende arcane, nell'andar dei millenni, gl'impeti tropicali di vegetazioni potenti, i muggiti delle maree, e le lente strie dei ghiacciai tra le pareti delle morene accusatrici, dovevano esser feconde al poeta di leggende e di storie senza fine. Vedevo palme ancora vigoreggianti d'alta statura nella pietra, frutti fossili grandi come enormi cucurbite, sepolti entro gli strati delle tenuissime argille, foglie e conchiglie in numero e varietà mirabile. Tutto questo fu cagione delle appassionate domande liriche del poeta alla gelosa natura, e delle risposte di lei, che rimovendo appena il lembo d'un vero, lascia intravvedere al di là un formicolio d'altri più profondi e molteplici veri.

Ci avviammo alla salita di Monte Berico. Il Retrone, che corre veloce presso la porta della città, formava incantevole scena di molini e di pioppi; ed io notavo l'effetto del sole sotto i bianchi colonnati dei grandi platani, radente una prateria d'erba tanto fina e vellutata, che faceva pensare alla vicinanza dei pascoli alpini. Dalla cima di Monte Berico guardavamo la gran pianura del Bacchiglione, la città adagiata nella valle, a forma di granchio, i campi dorati dal fiore del ravizzone, le appendici allegre de' borghi, le ville e la famosa Rotonda, che Palladio edificava, ripetendo quattro volte in giro il porti

e il colonnato del nostro tempietto del Clitunno. Più oltre, a perdita d'occhio, i monti nevosi di Rovereto, le Prealpi, le Alpi tirolesi, e nella caligine remota il campanile di San Marco.

Davanti a un cenacolo di Paolo Veronese, che si conserva nel santuario di Monte Berico, lo Zanella richiamava la mia attenzione sugli accorgimenti del pittore, osservando come il bello nasca talora da tenue cosa, tanto tenue, che sembra ed è spontaneo, quando invece non sia laboriosamente meditato. Con qualche tocco breve e risoluto si determina la piacevole armonia del quadro. Ed ora è un drappo fiammante, collocato sotto un getto gagliardo di luce, tra molti sfuggevoli toni di colori opachi, ora è un bel cane, o un bel paggio, che si atteggia sul davanti, arresta lo sguardo, e allontanando le cose d'intorno, produce l'illusione della profondità. Questa illusione si ripete, non all'occhio ma all'animo, nella cantica Milton e Galileo. Sul colle d'Arcetri, al suono dell'avemaria, il filosofo italiano e il bardo inglese, stanchi di lungo e non lieto ragionare, cedono alle lusinghe dell'ora e del silenzio. Ecco il fondo che lentamente s'appanna. Ma dall'ombra in cui rimangono le due grandi persone, si distacca biancheggiante nella luna la cenobitica figura di Maria, fi. gliuola di Galileo. Ella coglie rose e porta al poeta del Paradiso perduto il cannocchiale, pel quale scesero i cieli la prima volta allo sguardo

umano.

X.

Fu detto dello Zanella che avesse paura del vero, interpretando con angusto intelletto qualche frase di lui nel canto a Mia Madre. Ma il poeta della scienza non poteva aver paura di lei, se non quando si scompagni dalla sapienza. Egli aveva paura piuttosto d'alcuni scienziati, che abusando dell'induzione contro i limiti razionali del metodo sperimentale, si abbandonano leggermente a negazioni od affermazioni, che sarebbero dottrinalmente innocue, se praticamente non intorbidassero, contro la loro intenzione, le schiette fonti della morale privata e pubblica. La scienza era per l'anima sua quello che l'atmosfera per i viventi. Li sostiene, li alleggerisce, li equilibra, ma è necessario che li circondi da ogni parte che se invece una sola colonna atmosferica potesse sorprenderli nel vuoto, li schiaccerebbe col suo inenarrabile peso. E forse i censori dello Zanella dimenticarono che il primo e il più fiero avversario di quella manchevole scienza fu Giacomo Leopardi nella lealtà del suo dolore, e nella inesorabile logica delle sue dottrine. Egli investigando i più terribili misteri dell'essere, al lume di troppo povera filosofia, si dolse dell'acerbo vero e del mondo rimpiccolito dalla scienza; mentre la sola illusione e il beato errore trattiene nelle anime ignare il sentimento dell'infinito.

Ma a parte le dottrine sostanzialmente diverse, neppure nei mezzi dell'arte lo Zanella si concordò in tutto e sempre col Leopardi. A lui, che per indole fu insofferente d'ogn' indugio al pensiero, che per istituzione fu amante di simmetria e di rigorose proporzioni nella stessa meccanica costruzione del canto, non piacque mai la canzone petrarchesca, e molto meno quella a strofe libere, benchè il Leopardi, traendola dai greci cori e dall'esempio del Guidi, le infondesse vigore nuovo e nuova freschezza. Me ne scriveva un giorno: "Mi permetta che l'esponga un mio pensiero. La poesia è un magnifico fiume, ricchissimo d'onde. Ora, se queste onde fossero raccolte in angusto canale, come usa l'industria colle sue docce, e cadessero fitte e impetuose sull'anima del lettore, quale movimento non vi desterebbero? Io l'esprimo un pensiero ch'è anche un desiderio. Ricorra colla mente tutti i grandi poeti, e mi dica, eccetto il Leopardi, quale di loro non siasi attenuto a questa forma. La strofa breve, uniforme, è come dardo scagliato da robusta corda, poichè il pensiero costretto ad adagiarsi in brevi confini, si concentra in sè, recide l'inutile, si empie di vigoria e di vita. Veda il Parini! quanto bello nei metri chiusi, quanto dilombato nelle strofe petrarchesche!

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Senonchè mi pareva che il senso della misura giusta dovesse esser privilegio dell' ingegno, non dono gratuito del metro. E chi non cono

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