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A

I.

Firenze, città educatrice d'ogn' idealità nella

storia, e che nello stesso nome annunzia la sua mitica venustà, s'è adempito da pochi anni un avvenimento, che pare leggenda antica. Dolce e divino anacronismo nel secolo dubitante, Santa Maria del Fiore ha avuto il compimento della sua fronte marmorea. Intuito d'artisti, braccia valorose e destrezza d'artigiani, ricchezze di principi e obolo di poverelli, cave di marmi, tutto fu messo in comune con liberale munificenza. Una pura e bianca mano di Donna incoronata diede il cenno, perchè cadessero i veli dinanzi alla splendenza nuova della cattedrale di Dante. Il fremito immenso del popolo plaudente, le vecchie campane di Firenze sonate a gloria, il volo delle colombe che presero fin d'allora la signoria del monumento, composero insieme un grande inno, un racconto lirico, una

realtà luminosa quanto un ideale. Ed oggi un'altra festa d'arte e di cortesia viene inaugurata a Firenze; la festa delle donne italiane, che tutte le chiama dalle tre marine a offerire opere di mano e d'ingegno, in nome di Beatrice, donna insieme ed idea, fiorentina e paradisiaca creatura, femminea bellezza e virtù, a cui l'arte e l'amore di Dante commise di rappresentare il riso stesso di Dio, che tremola in baleni di scienza agl' intelletti.

Sento quanto sia arduo e pauroso l'onore che mi venne fatto, invitandomi ad aprire questa solennità geniale e a parlare di Beatrice. L'immagine della mirabil donna volle il suo poeta deliberatamente consegnare ai posteri delineata con mano leggera tanto, che di lei può dirsi, come di Piccarda nello specchio della luna, le postille del suo viso esser deboli sì, che perla in bianca fronte non vien men tosto alle nostre pupille. Eppure molto fu pensato e scritto su Beatrice; nè so se possa esser rimasta a me una sola parola d'aggiungere. La cercherò nel cuor mio, questa parola, più che nella mente: e sarà semplice, non profonda; più d'amore che di curiosità; più di contemplazione che di erudizione. Vorrei, se mi fosse dato, abbracciar tutta colla pupilla dell'anima l'evaniente figura di quella donna dugentista, che gioisce di due immortalità, l'una per dono di Dio, l'altra per dono d'amore. Vorrei pormela innanzi, un poco a

distanza, ma non troppo; perchè all' interezza della visione giova una lontananza discreta, e alle particolari grazie delle forme giova la vicinanza. Vorrei non solo idoleggiarla nel tempo che fu suo, ma distinguerla dalle altre idealità femminee, che la precedettero e la seguirono nei canti d'amore. Far come chi s'è innamorato d'una stella, che la guarda sempre, finchè si nasconde nella crescente chiarezza del giorno. E anche quando s'è celata, seguita a guardare in alto, pensando: quello è il luogo della mia stella.

II.

In terre latine prese l'amore sembianze varie, col variare dei tempi. I Romani, signori del mondo, conobbero la madre, superba dei figli più che dei gioielli, la sposa che ispira al marito il terribile coraggio del suicidio, le matrone casalinghe, filatrici di lana, frugali. Anche Orazio onorò d'una fulgida strofa la rusticana gioventù soldatesca, assuefatta a romper glebe colle zappe sabine, e a portar legna dal bosco, al comando della madre severa. Ma veramente non furono amate mai quelle donne. Esse passarono, come tipi d'epica gravità, nelle storie e nei poemi. Alla maternità loro rimase il pianto, l'eroismo e la tenerezza. L'elegie e le odi carezzarono piuttosto le cortigiane, esperte nell'arte del canto, della lira, dei baci, delle joniche danze e dei nodi

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laceni alle chiome. La giovinetta vereconda e pensosa, ricca d'affetti e di lacrime, ch'eleva col sorriso l'amante, che sostiene, educa e conforta, non fu conosciuta. Ed amore non ebbe veli. Nella sua greca nudità soddisfatto e potente, non chiese alla donna e non diede all'arte, se non tutto ciò ch'è giovanilmente sereno, florido, opulento, e fra la grazia e la forza proporzionato ed intero. Ma nessuna divina facella ardeva nell'orientale alabastro delle vite femminee. Romane vergini erano le Vestali. Altere e caste per debito sacerdotale, crudeli che, pollice verso, comandavano l'elegante morire ai gladiatori del circo; forse perchè, vittime esse stesse d'una verginità involontaria, si confortavano vendicative nell'aspetto d'altre vittime sociali. E nondimeno in quelle non amate ma temute e venerate fanciulle, si raccoglieva la fede nel fuoco eterno e nei fati romani. Orazio s'augurava una

gloria che durasse dum Capitolium scandet cum tacita virgine Pontifex.

III.

La tacita vergine cessò presto d'ascendere al Campidoglio. Dalle catacombe salirono invece al sole di Roma altre vergini, consapevoli del martirio, della verecondia, della pietà, del perdono. La Germania più tardi, irrompendo in barbariche orde a dissolvere gli ordinamenti ro

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