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nelle spire, ma temperata dalla soavità della ogiva e della curva italiana, dedicava i suoi monumenti ora al popolo, ora a Dio. La pittura usciva raramente dal santuario e dal cenobio. Ma v'hanno due maniere di pittura religiosa: la contemplativa e la storica. Nella prima, insuperabili gli umbri e i toscani: nella seconda i toscani ed i veneti. Perchè la Toscana, bisogna renderle questo singolare onore, possedeva in arte il segreto d'una squisita proporzione tra il senso mistico e lo storico, tra l'affetto dell'anima e il plastico movimento dei corpi. Così, quando Giotto istoriò in Assisi la basilica del Poverello, e a Padova la chiesa di S. Maria d'Arena, gli effetti furono diversi. L'Umbria, poco disposta da natura a quell'arte, lasciò non imitata quella semplice e grandiosa maniera di rappresentare. Padova, invece, apparecchiata e sollecita, la fece sua, e se ne avvalorarono per le future prove i suoi ingegni vivaci. Mancavano tanti soccorsi all'arte! Mancavano le lusinghe del paesaggio, della prospettiva, degli scorci audaci, dei chiaroscuri, e tutte le astuzie del magistero. E nondimeno con pochi segni, con pochi colori, con sobrie pieghe, coll'energia dell'ingenuità, affronta Giotto le difficoltà dell'arte fanciulla, e le vince con naturalezza poderosa, ignota agli studi raffinati dei secoli successivi. L'importanza è tutta nel comporre grandioso, nei visi e nei gesti. Ivi è l'anima, ivi è la parola e la passione. È il più che ne

ha dato il resto verrà. Però la scuola di Padova non si fermò all'espressione naturale del sentimento giottesco; ma si condusse più tardi all'imitazione dei modelli scultorj dell'antichità classica. Così ebbe principio la severa e plastica maniera del Mantegna. E se, nei suoi primi dipinti, dispiacque una certa rigidezza quasi marmorea, essa poco stante si addolci e talora si dileguò, per gli ammonimenti e gli esempi dei cognati Bellini, principalmente di Giovanni, che, per finezze spirituali ravvicinandosi a Giotto, rimase il più ideale e direi quasi il più umbrotoscano di tutti i pittori veneti.

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Ma verso la felice metà del secolo quindicesimo, le condizioni primitive dell'arte italiana si mutano. Non è più il genio solitario che si eleva sui volghi ignari, innova tutto e s'impone. È un altro periodo rarissimo nella vita delle genti. Non sempre un millennio riuscirà a darne uno. È l'impetuoso e improvviso sbocciare d'una civiltà. Gli Etruschi ebbero questo periodo; poi tramontarono per sempre. Lo ebbero i Greci una volta. Appena una volta i Romani; perchè la gloria loro artistica è in gran parte cosa ellenica. Certo, di mente e mano ellenica le sculture; e molto più che non immaginiamo dovettero ai greci gli stessi grandi poeti latini. Co

munque si prepari questo miracolo, credo di non errare osservando che lo precede e accompagna una specie di lenta e inconscia elevazione delle plebi a concepimenti di bellezza. Gli artisti si affaticano senza sforzo, perchè raccolgono intorno a loro gli elementi abbondanti e omogenei dell'arte. Avviene uno scambio di forze vitali tra paese e paese, tra popolo e popolo. Allora è proprio vero che l'ambiente è saturo di quella specie d'etere luminoso, che permette molto dilatamento d'ala agl'ingegni, e molto esaltamento d'affetto alla gente. Allora non si discute ma si produce soltanto. E, nella fretta e nella gioia della produzione, l'arte si moltiplica sotto belle forme diverse, che s'incontrano, s'allontanano, si ravvicinano, si compiono, senza stravaganze, senza confusione, senz'affettazione, senza eccesso, senza contradizione. Partiti gl'impulsi primi dalla Toscana e dal Veneto, il movimento s'accelerò, si propagò subitamente, serio, energico e multiforme, nelle pianure lombarde, nel Friuli, a Verona, a Brescia, a Vercelli, a Ferrara, a Bologna, nell'Umbria, dovunque, per l'intelligenza dei principi, o per la magnificenza delle repubbliche, o per la pietà dei popoli, si chiedessero incessanti e nuovi lavori agli artefici.

Venezia, dopo Giambellini, interrogò sè stessa, e si mise rapidamente per una via diversa. I suoi artisti non si curarono più d'effigiare tipi spirituali, degni d'apparire e svanire nelle visioni

dell'aurora; ma cercarono tutto ciò che ha di più pomposo e seducente la realtà della vita. In quella repubblica composta d'un popolo di re, che faceva emergere dall'acqua i palazzi più belli del mondo; che all'Oriente rapiva i marmi, le gemme; che vedeva sfumar nell'oltremare delle sue lagune gli splendori della Basilica d'oro; che nelle sue stesse industrie antiche e moderne rivela il gusto per tutto ciò ch'è dovizioso, allegro, iridescente (vetri soffiati, fiori, smalti, trine, mosaici e venturine); non è meraviglia che i pittori nascessero a gruppi di famiglie. I misteri di governo, le sacre tenebre del tempio di S. Marco, l'arte bizantina, tanto diffusa tra Ravenna e Venezia, non bastavano a mortificare la sete di festa e di luce, ingenita a quel popolo marinaio. Tantochè tutta la vita della pittura parve raccogliersi ed effondersi in una specie d'inebbriamento della virtù visiva, che teneva luogo d'ogni altro incanto.

Non cosi la Toscana. Essa subordinò saviamente ogni artificio e ogni pompa esteriore al sentimento e al disegno. Le regioni intermedie s'attennero all'una o all'altra maniera, secondo le influenze della vicinanza, e l'indole delle proprie popolazioni. Dalla scuola antica di Padova s'era diramato un raggio d'arte a Ferrara, e di là a Bologna. Maniera aspretta sul principio, si ringentili presto con Lorenzo Costa, e più con Francesco Francia. Il quale, ingegno versatile e

modesto, aveva ricevuto l'attitudine d'assimilarsi le bellezze altrui dal genio eclettico del suo paese. Ammiratore caldo dei coloristi veneti, ma temperato dalla purità e dal sentimento umbrofiorentino, egli, col suo stile sereno e vivace, segna un armonico passaggio tra le due scuole. Rammento come mi fermassi dinanzi alle pitture del Francia nella pinacoteca, nelle chiese di Bologna, e soprattutto nella cappella di S. Cecilia. Conobbi allora quanto florida e vigorosa dovess'essere la scuola del Raibolini, se Timoteo Viti, seguendo la patetica e luminosa maniera del maestro, trovò un tipo tutto nuovo di Giovanni Battista adolescente, un tipo tra il selvaggio e l'angelico che innamora.

Verona, che aveva dato all'arte Altichiero di Zevio, Jacopo d'Avanzo e Vittore Pisano, rimase incerta tra le delicatezze de' miniatori e le prepotenze padovane, finchè queste due qualità non si fusero amabilmente sotto il pennello di Girolamo de' Libri, pittore fine e robusto.

Chi direbbe che il freddo Piemonte, in cui ammirammo tanto valore civile e militare, tanto senno di storici, di statisti e di filosofi, ma che ne parve sempre tanto ritroso a produrre il bello nell'arte, svolgesse quietamente una piccola scuola, che ricorda il sentimento casto ed ideale degli umbri? Defendente De Ferrari e Giovenone trattarono infatti sacri argomenti con simmetria

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