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antica, con decorosa e malinconica severità tedesca, ma insieme con molta dolcezza d'affetto italiano. La stessa ingenuità (osserva qui egregiamente il Lafenestre) li fa trovatori di poesia impreveduta e sincera. Però quella piccola scuola non ebbe seguito. Leonardo intanto aveva già svegliato Milano colla gloria del suo ingegno molteplice; e Parma silenziosa aspettava il Correggio.

Lasciamo la parte più meridionale d'Italia, dove l'arte della pittura, per molte cagioni, tra le quali la cultura insufficiente, non s'era fatta mai popolare. Quasi solitario v'apparisce Antonello da Messina, che col nostro Perugino fu dei primi a mettere in uso la pratica del colorire a olio. Tuttavia egli, anzichè avere un modo suo, ritrae dai fiamminghi per la finitezza, e dai veneti, tra cui visse molto, per il colorito.

Ma Roma, in tanto movimento, che cosa fa? che cosa pensa? che cosa produce? Roma sembra nata a portare al sommo le cose umane, e sospingerle poi per arcano fato alla decadenza. Imperatori e pontefici, nei due secoli, così tra loro distanti, che furon chiamati dell'oro, si concordarono per dar convegno nella capitale del mondo a tutte le grandezze, a tutte le arti, a tutti i genj delle due civiltà. Nella prima, la bellezza greca si fece romana sul Tevere; l'arte italiana si fece romana, emigrando da Mantova,

da Sirmione, da Venosa, d'Arpino e dall'Umbria a Roma. Nella seconda, Michelangelo v' acquista forze maggiori: Raffaello si accorge che gli si apre ancora una scala a salire, e la sale rapidamente tutta; indi è ritenuto dalla morte sulla cima del grande arco, innanzi che cominciasse la generale discesa. Il Vasari, parlando del Correggio, sospira: peccato, non fosse stato a Roma!

Ma Roma non fu mai patria d'un poeta, nè d'un artista grande. Perchè? Perchè quella terra è troppo sazia di gloria storica, è troppo compresa della sua importanza sui destini dell'umanità, per produrre quella divina leggerezza, quel figliuolo di meditazione e d'entusiasmo, quella vittima delle sue passioni profonde e delle sue pazienze severe, che si chiama il genio dell'arte. Nel 1500 poi l'arte pagana che risorgeva di sotterra coi monumenti, l'erudizione classica fatta generale, le rinascenti filosofie neoplatoniche e panteistiche, i costumi sciolti nella cura allegra dei godimenti, il culto di tutto ciò che nella natura è formosamente sensuale, erano cagioni fortissime che si dileguasse sempre più l'idea cristiana dalle arti e dalla vita di Roma. Inoltre, essa era troppo dissipata nelle mondanità e nel nepotismo; troppo preoccupata in quel nuovo formarsi e costituirsi d'un proprio e vero principato civile, per gustare ancora il Vangelo, conforme l'avevano gustato e rappresentato Dante, Giotto e Francesco d'Assisi. Roma aveva chia

BRUNAMONTI Discorsi d'arte.

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mato a sè, a volta a volta, le celebrità dell'arte italiana. Melozzo da Forlì, un gagliardo che per somiglianze di stile si potrebbe quasi chiamar umbro, benchè nella verità delle prospettive e nell'arditezza delle pose prendesse molto dal Mantegna, v'aveva avuto titolo di pittore papale. Il Perugino, il Botticelli, il Ghirlandaio, il Rosselli, il Pinturicchio avevano portato là l'opera loro. Ma Roma inappagata la rifiutò presto e cancellò in parte. Al Perugino fu usato riguardo, perchè Raffaello serbò sempre riverenza al maestro; e unico non osò rompere il filo d'oro della tradizione spiritualista.

A Borgo San Sepolcro, allora paese umbro, sul confine della Toscana, Pier della Francesca teneva lodata officina. Naturalista di forza, profondo nelle scienze geometriche e matematiche, mostra abilità nuove negli sfondi architettonici e negli effetti di luci e d'ombre. Nella chiesa di S. Francesco d'Arezzo, è mirabile il suo studio passionato per i movimenti vivi delle cose e degli animali, più che per l'espressione delle umane fisonomie. Ardito e vigoroso quel cavallo che impennandosi sembra lanciarsi colle zampe fuori della parete; e quell'altro che col collo proteso faticosamente esce su da un fossato. Nel frappeggio vario delle piante si fa visibile il folto e il rado per un'insolita gradazione di chiaroscuro. Stupenda, nel ritrovamento della croce, la figura dello scavatore che s'appoggia sulla

vanga, coll' indifferenza dell'operaio pagato, di fronte alla fede impaziente di sant'Elena e dei devoti.

Allievo di si valente maestro, non è meraviglia che Luca Signorelli divenisse l'austero precursore di Michelangelo. Non comprendo il Signorelli in quel ciclo d'arte spirituale e fina che distinse da tutte le altre la scuola umbra. Egli n'è quasi il contrapposto. Più che agli umbri, appartiene a quella schiera di naturalisti toscani, che da Masolino di Panicale, dal Masaccio, dall'Uccello, dal Castagno, dal Verrocchio, giunsero sino a fra' Bartolomeo, ad Andrea del Sarto e a Michelangelo. Mette infatti ne' suoi lavori molto spirito d'osservazione, molto rispetto del vero reale. Aggruppa sapientemente, panneggia con disinvoltura; ha la scienza, allora difficile e rara, dei movimenti umani nella luce e nell'ombra; ama armi e battaglie, perchè gli danno occasione ad attitudini baldanzose. Ritrattista efficace, manca d'elevazione. Disamabile spesso, qualche volta sgarbato, lo sa e non se ne cura. N'è prova un suo dipinto nella cattedrale di Perugia. In quel corteggio d'angeli e santi alla Vergine, in quelle pose simmetriche, in quella quiete prestabilita, pare che il pittore si trovi a disagio. Fino gli scorci e il disegno del nudo vi trascura impaziente. L'anima sua amava meglio le larghe pareti e gli epici argomenti; quasi poeta che sdegni i limiti d'una canzone petrar

chesca, sentendosi capace d'un poema come l'Ariosto.

E poema vero è il suo Giudizio finale, ad Orvieto, diviso in cinque compartimenti. Il soggetto non è da tutti gl'ingegni. Vi si provò a Firenze il beato Angelico; ma egli nel terribile riusciva grottesco. I suoi demonj sono più buffi che malefici i suoi dannati hanno aria di fanciulli messi in castigo. Non sapeva dipinger la malizia umana il pio fiesolano. Dolce deficienza d'anime sovranamente pure, che passò, come vedremo, alla scuola perugina. Il Signorelli invece tratta valorosamente tutte le tetre ombre che attristano l'umana natura, dall'ipocrisia alla crudeltà.

Entra nell'argomento colla predicazione dell'Anticristo, che, simile a Gesù nel volto e nelle vesti, ma coll'occhio torvo, insegna cose maligne. Intorno a lui scene di delitti diversi, per una piazza grande, ornata d'un tempio superbo di stile romano. Seguono i lugubri presagi del finimondo: tremuoti e nembi. Crollano i monumenti: il sole diventa un clipeo di rame, circondato da un alone tetro: la luna un disco livido: le stelle filano giù, come gomitoli di lana rossa, che si svolgano traversando l'aria. Le Sibille spiegano in fretta i loro libri, e dicono: queste cose avevamo predetto. Un profeta raccoglie l'ampia veste orientale, e mostrando tutto il bianco degli oc

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