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chi, grida alto: ecco il tempo vaticinato. I demonj che hanno potere sugli elementi, scatenano le loro forze procellose. Meteore di vapore acceso piovono sui popoli: le dilatate falde di fuoco nel sabbione infernale dell'Alighieri si rifanno vive nella fantasia del Signorelli. Il tuono s' indovina dalle mani che non chiudono solo, ma premono le orecchie. Ecco i fulminati. Sopra i morti, gli ultimi vivi si rotolano e si schiacciano fuori delle pareti, con tutta la palpabile evidenza delle membra. Sotto il dipinto, nel basso del muro, da un finestrello tondo, Empedocle sporge la testa, guardando attonito in su l'avverarsi della sua predizione che il mondo tornerebbe al Caos.

Nel compartimento della resurrezione, due angioli giganti si curvano e gonfiano le gote, sonando di gran forza le tube araldiche per risvegliare la morte. I risorti sbucano di sotterra, alcuni ancora scheletri, o rivestiti appena di nuovi muscoli; altri già ritti, colle mani sui fianchi, aspirano a pieno petto quell'aria dimenticata che li rinfranca. L'affresco dei dannati rappresenta un meraviglioso intreccio di corpi. Demonj e reprobi s'abbrancano, s'aggrovigliano, si strangolano coi più violenti scorci. Si direbbero viluppi di serpenti, se non si vedessero braccia, gambe e torsi umani commisti a membra diaboliche, livide per colore di bronzo antico, con sfumature di porfido e d'ametista.

Nessuna leggenda scandinava, nessun poeta tedesco immaginò mai tregenda più strana. Nel campo aereo un demonio volante, dal ghigno di Mefistofele, s'è caricata la spalla d'una bellissima donna, le cui dita affusolate s'irrigidiscono tra gli unghioni dello spirito nero, che la guarda negli occhi tra cupido e beffardo. La donna volta il viso al ritratto del pittore nella parete di contro, come chiedesse: perchè m'hai posto qui? Ma il Signorelli, dai lunghi capelli rossi, dalle labbra ironiche e sottili, vestito di lucco nero come un giudice, rimane impassibile e soddisfatto di questa sua vendetta dantesca. I fieri arcangeli, chiusi nelle corazze, guardano tranquilli il ratto e il tumulto.

Dall' indole dell'artista si può immaginare che il compartimento degli eletti è il meno bello. Ma l'avvenenza vigorosa e le movenze libere degli angeli ravvivano anche quest'ultimo lavoro. Nonostante le forti ombre terrose e i gruppi che non s'allontanano nell'indietro con sagaci velature di tinte, nessuno seppe distribuire in più stretto spazio tanta gente e tant'azione, benchè rapida e violenta. Nè m'è possibile dimenticare gli ornati della porta. Sul fondo nero dei pilastri disegnò il Signorelli due svelte ed elegantissime candeliere a chiaroscuri verdastri. Da lontano non paiono altro che un rabesco vago di fogliami e di chimere: ma da vicino sono un intreccio di mostriccioli, di draghi e di diavoli

alle prese coi dannati. Disposti in simmetria, i satiretti d'inferno forzano i cattivi alle mosse più stravaganti, per piegarli ai capricci decorativi. Qua due diavoli tirano pei piedi due peccatori; altri due giocherellando con un soffietto, attizzano le vampe di Malebolge; altri fanno bere a due dannati per certi otri un liquore malefico; alcuni spiriti seduti in forma di cariatidi piangono. Costringere così gl'infelici a far ridere e divertire, decorando un monumento con atteggiamenti bizzarri, è il colmo del terribile.

V.

L'Umbria aveva già avuto i due più operosi e amabili contemplanti dell'Occidente, S. Benedetto e S. Francesco: due poeti d'amore, due trovatori di Cristo, S. Francesco e Jacopone da Todi. Francesco ci aveva dato una forma di salmo italico pieno di semplicità e d'ardore. Ma la miglior poesia di Francesco non fu il suo cantico al sole; fu la sua vita. Cavaliere perfetto, conoscitore d'ogni cosa fina, portò nel suo ascetismo il culto grazioso d'una natura boschiva e montagnola. Dalla vallata degli Angeli al torrente secco dell'eremo delle Carceri, dall'isoletta selvatica del Trasimeno ai gioghi del Casentino, empi il paese de' suoi fervori e di quel suo amore stranamente bello e nuovo nel medio evo, amore sovrabbondante che si effondeva su tutte le

creature. Predicava agli uccelli sulla via tra Cannara e Bevagna: ricomprava le tortori, cui fabbricava il nido nella selva delle sue contemplazioni: rimoveva il vermicello dalla via, perchè non fosse calpestato. Delirj di carità in tempi d'altri delirj sanguinosi: e n'aveva bisogno l'Italia armata e affacendata troppo in offese civili, città contro città, castello contro castello, famiglia contro famiglia. Intanto quell'umile cordigliere andava mansuefacendo petti rabbiosi, come il lupo di Gubbio. E dietro a Francesco, innamorate di tanto raggio divino, venivano a poca distanza, coll'Alighieri, le arti della bellezza. L'undecimo del Paradiso è canto umbro. Dante aveva visitato diligentemente il nostro paese: rammentava il nome e le sorgenti de' nostri piccoli fiumi: sapeva di che prospetto orientale s'allegri Perugia: e questa cura minuta del proprio e del vero è anche nota di grandezza poetica. Cantava le ricordanze de' suoi viaggi e le glorie nostre. Il culto di Francesco per la natura, che a qualche mente estenuata e superficiale può parere un inconsapevole panteismo, ma che nella tradizionale filosofia italiana è vincolo ideale d'amore pel mezzo delle creature tra l'uomo e Dio, sdoppiava involontariamente in due diverse e quasi contradicenti forme lo spirito religioso del medio evo. L'una rigida, difficile, conducente all'annichilamento de' sensi e del volere, all'umiltà spinta sino all'amor della contumelia, alla perfetta letizia collocata nell'abbie

zione, nell' infermità, nella morte. Conformandosi a questa lugubre disciplina, partivano da Perugia le compagnie de' Flagellanti o de' Laudesi, guidate dall'eremita Ranieri Fasani, coperte di cilicio, percotendosi, gridando misericordia e penitenza, ed empiendo le contrade d'Italia di follie, di sospiri e di laudi. L'altra forma, più propria all' indole fervorosa e tenera di Francesco, era quella cui accennammo poc'anzi, giocondità di spirito nella contemplazione e nell'affetto comprensivo delle cose belle naturali. Tantochè ei gridava: nil jucundius vidi mea valle spoletana. Jacopone, consentendo in tutto al dolce. maestro, divideva i suoi canti popolari tra il riso e il pianto, tra le giullerie volontarie che richiamavano il disprezzo sopra di sè, e le ispirarazioni pietose della croce e del presepio. Correndo con passione mistica il paese umbro, fra tanto sorriso di cielo e di terra, il poeta, che spesso era ruvido, volgare, stravagante, si trasforma talvolta all'improvviso, e grida con insueta gentilezza, che somiglia a modulazione di stornello o a cantilena peschereccia :

Voglio invitar tutto il mondo ad amare,
Le valli e i monti e le genti a cantare,
L'abisso e i cieli e tutt'acque del mare,
Che faccian versi davanti al mio amore.

Nell'amore che lo arde e nella bellezza che lo circonda trova qualche volta modo d'illeggiadrirsi; e dovunque vi sia un gruppo di popolo pei villaggi, le facili strofe gitta al di là delle siepi

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