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e lungo i campi, ove germoglieranno come gran di spelta, restando (secondo l'energica parola d'Alessandro D'Ancona) quasi un prodotto particolare di quella regione, che altri coltiverà e farà fruttificare. 1

Ma quale sarà il fiore e il frutto di quel silvestre germoglio? L'arte umbra, in ciò che si distingue dall'arte degli altri paesi. Forse Jacopone compose lo Stabat, quel divino lamento materno, che ha ispirato musiche di paradiso al Rossini e al Pergolesi. L'elegia del Calvario fu con profonda pietà, unitamente a ineffabile bellezza, assai spesso colorita dai nostri pittori. Anzi gli argomenti più ripetuti e più caramente condotti da essi rimangono sempre il Calvario e il Presepio. Francesco d'Assisi inventò primo a Greccio e mise in uso tra il popolo l'idillica rappresentazione della capanna di Betlem. Jacopone la descrisse nel più delicato, nel più nitido de' suoi canti. È una lirica infantile. Chiama mammolino il pargolo, con soave idiotismo umbro marchigiano. Lo dice fratellino nostro e giglio luminoso e amor fino. Dipinge le sue grazie ingenue e lo sgambettare nel fieno; e la madre che lo culla, lo ricopre, lo allatta chiama donna di cortesia, con frase degna della Vita Nuova di Dante. Nè dimentica gli angeli che d'intorno se ne gìan

1Studi sulla letteratura de' primi secoli, per ALESSANDRO D'ANCONA.

danzando, facendo dolci versi e d'amor favellando. Naturalismo purissimo, uscito dai casti focolari umbri, e salito a grado a grado col popolare fervore sugli altari nei presepi di Niccolò, di Fiorenzo, di Pietro, di Pinturicchio, dello Spagua.

VI.

Lapo Lombardo, sulla costa del Subasio, aveva edificato la doppia basilica: cripta e tempio. L'una, grave, bassa, velata di soavi tenebre; tutta sfondi di cappelle e luci di finestre piccole, donde il raggio, traversando i santi, cadeva sulla fronte dei supplichevoli; e dove i suoni dell'organo erravano come fruscio d'ali angeliche o sospiri dell'anime alla speranza. L'altro, altissimo, ricevente il sole umbro dalle gemine porte e dalla grande rosa traforata della parete frontale. Ivi Cimabue, e Giotto sopra tutti, il Gaddi, il Cavallini, il Giottino, il Buffalmacco, Simon Memmi, il Nelli, e più tardi lo Spagna, Dono Doni concorsero a compire e illustrare questo monumento di stile schiettamente italico, e niente affatto gotico come afferma il Taine.1 Orvieto aveva innalzato il suo duomo, la cui facciata è la più splendida, la più leggiadra, la più decorosa del mondo. Angiolo d'Orvieto, sul dirupo di monte Ingino, costruiva sopra volte degne

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Philosophie de l'art, tom. I, par. H. TAINE.

dell'audacia romana il Palazzo de' Consoli, cosi adorno e quadrato, con una torre di campana terribilmente affacciata nel vuoto, quasi a vedetta di pericoli che appaiano sull'orizzonte. Presso Foligno, le solitudini alpestri de' monaci di Sassovivo erano nobilitate da un chiostro, decorato tanto vagamente di mosaici e di doppie colonnine spirali, da far pensare a una reggia, anzichè ad un eremo. Salii da fanciulla lassù per le gole di quella montagna, e notai con tristezza gli atrj sonori e cadenti e le pietruzze d'oro che brillavano per terra fra i sassi, dove i soli e i geli avevano screpolato i mosaici. Anche Perugia si rinnovava elegantemente. Sorgeva allora il Palazzo del Popolo, tra i più belli d'Italia e si commetteva ai Pisani e ad Arnolfo la Fonte che la fa superba. In quanto alle arti figurative, il primo esempio di rara bellezza le venne da Agostino Ducci fiorentino, quando nel 1462 scolpiva il tempietto di S. Bernardino, o popolarmente della Giustizia. Angeli che hanno la musica negli occhi, nei movimenti, sulle labbra; creature avvolte in veli trasparenti, e mosse al volo con una leggerezza che toglie fede alla pietra armonia, unità, proporzioni, tutto si accoglie in quell' edicola perfetta.

VII.

Ma la bellezza pittorica, per opera d'artisti perugini, non compariva ancora. Doveva esservi

certo un valente collegio di miniatori, poichè la moltitudine e la vaghezza de' nostri codici prova quanto fiorisse tra noi questo magistero. Tuttavia, se i monaci salmeggianti erano spesso ricreati dalle delicatezze e dai fulgori delle pergamene corali, il popolo non considerava ancora la pittura che come una seria e malinconica espressione della sua pietà. Qui tra noi le Madonne non erano ancora le amabili ispiratrici delle arti belle cittadine. Firenze fu la prima che, con intuito di popolo artista, chiamò Borgo Allegri la via, per cui passò dall'officina del pittore alla chiesa la Vergine di Cimabue; inaugurando così religiosamente e civilmente i secoli gloriosi della pittura in Italia. Non bastava che l'arte timidetta ma soave della vicina Siena ravvivasse le consuete forme bizantine con freschezza di colorito chiaro e festoso. A noi s'imponeva rigidamente il verde crocifisso di Margaritone d'Arezzo e i gonfaloni dipinti e supplicati in tempi di pubbliche sventure. Questi stendardi si serbavano, e si serbano ancora, velati con paurosa riverenza. Ho presente in fantasia il più antico di tutti, quello di S. Francesco al Prato. Una Vergine alta, pallida e non più giovane, che ricovera la popolazione sotto il manto. Ha negli occhi la grande apertura e fissità dello spavento. Gli angioli dell'ira trascorrono un cielo tetro, lanciando saette piccole che si spezzano sul manto di lei.

Altre città dell'Umbria ebbero il privilegio dell'apparir nuovo della bellezza. Per tre focolari distinti l'arte s'accese. 1 Gubbio ricevette o forse donò prima la celeste scintilla. A Gubbio durava bella, antica e vivace la fama de' miniatori, tra' quali quell'Oderisio, lodato tanto nella Divina Commedia. Gentile da Fabriano, che portava la gentilezza nel nome e più nell'ingegno, alunno forse per poco in patria d'Allegretto Nuzi, fu studioso più che per poco nelle finezze artistiche de' suoi confinanti Eugubini. Come avviene di cosa appresa con lunga pazienza ed amore nella giovinezza, egli non dimenticò mai quel fare delicato, neppure nelle grandi composizioni. Chi vede infatti nell'Accademia di Belle Arti a Firenze la sua Adorazione de' Magi, scopre subito la passione indicibile con cui sono toccate e finite le minime cose, dai sottili ondeggiamenti dei capelli, dagli ornati rilevati in oro delle cinture e de' diademi, sino al lucido sperone d'un cavaliere. Gentile s'incontrò a Firenze e si strinse di simpatia artistica con quel giovinetto amabile che fu Guidolino del Mugello, che poi si chiamò frate Giovanni Angelico. Ambedue ingrandirono la pittura, conservandole tutte le qualità sfumate, gemmate e lucenti di quell'arte che fu detta illuminare, con efficace verbo francese, a cui Dante diede la cittadinanza italiana. Gentile ebbe al

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I pittori di Foligno, per ADAMO ROSSI.

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