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intendersi che questo mistero fu il fine ancora della creazione secondo la sentenza Scotistica. Al Lombardi: « Parrebbe invece che ponendo il Poeta le creature, e massime gli Angeli come tanti specchi, nei quali pinge Iddio sua immagine (1), voglia per ciò dire, che non per altro fine producessele Dio, se non perchè avesse il suo splendore in che risplendendo sussistere effigiato» (2). Gli Editori della E. B., così commentano: «Non per ottenere alcun bene (che ciò non può essere, avendo Iddio perfettissimo tutti i beni in sè), ma affinchè il suo splendore, riflettendosi dalle cose create, desse alle creature ragionevoli dimostrazioni che esso Dio è sostegno, fondamento, cagione di tutte le cose ».

Interpretazioni le quali, come affluenti di un stesso fiume, che tutti si versano in uno stesso mare, si confondono in un medesimo concetto, così espresso da Beatrice:

Quelli che vedi qui, furon modesti

A riconoscer sè della bontate.

Che gli aveva fatti a tanto intender presti;
Perchè le viste lor furo esaltate

Con grazia illuminante e con lor merto

Si c'hanno piena e ferma volontate (3).

Epperò il Tommaseo osserva: Venendo a quello in che la beatitudine propriamente consiste, dice il Poeta che la si fonda nell'atto del vedere, non in quel dell' amare, che segue poi; e misura al vedere dell' intelletto si è il merito, e il merito devesi in prima alla Grazia, poi alla volontà buona dell'uomo, la quale, della grazia approfittando, se ne fa scala a grazie maggiori e il merito appunto (1) Fra gli altri passi del Poema è caratteristica l'ultima terzina di questo Canto:

Vedi l'eccelso omai e la larghezza

Dell'eterno Valor, poscia che tanti
Speculi fatti s'ha, in che si spezza,

Uno manendo in sè come davanti.

(2) P. B. Lombardi. La Divina Commedia di D. A. Vol. III, pag. 731. Padova. Tip. della Minerva, 1822.

(3) Parad. Cant. XXIX, v. 58-63.

consiste nell'affetto con cui l'anima s'apre e fa alla Grazia accoglienza.... Luce intellettual piena d'amore, chiama il Poeta quella che dal sommo cielo si spande, e lume intellettuale chiama quel della Grazia la Somma (1). Il primo lume si diffonde in virtù dell'intelligenza, della quale è proprio discendere nelle cose causate, e, dal primo bene, gli altri beni tutti partecipano la virtù diffusiva (2) ».

Epperò se la indagine ci costringe a penetrare abissi di luce, che, più e più si aprono vorticosi e abbaglianti al di sopra e al di sotto di noi, così che male sapremmo rendere ragione a noi stessi del modo col quale determinarne, anche approssimatamente, la profondità e la estensione, non che scandagliarne il fondo; in mezzo a questi abissi d'immenso splendore ci è dato camminare sicuri, dacchè esso stesso il Poeta ha col suo genio aperta la via che adduce a certa mèta. L'anima nostra è come travolta nel vortice di un mistico assorbimento di verità luminosa, obbedisce a una tal quale osmosi di induzioni e di deduzioni, che, di speculazione in speculazione, riconducendoci al principio fontale, ci solleva ad astrazioni sempre più elevate, di indole filosofica e teologica. Il quale fatto, tutto di natura meramente ideale, io non avrei paragonato al fenomeno fisico, che è vita del mondo vegetale, ove l' Alighieri non mi avesse fornito argomento a desumere da questo una tal quale relazione di affinità, parlando del mistico albero della teodia divina, che dà fronde e fiori e frutti di poetica e religiosa verità.

La flora e la fauna della immortale trilogia sono: la luce, il calore, il colore (3) da cui raggi, le fiamme, gli ardori celesti. « È scritto

(1) Sɔm. 2, 2, 8.

(2) Som. 1, 2, 1. L'autore citato ricorda altri passi della Somma : 2, 2, 2; 2, 1, 109; 1, 2; 1, 2, 5; I. – N. Tommaseo. Commedia di Dante Alighieri. Cant. XXIX. La creazione e la caduta. Milano. Reina, 1854.

(3) « Visibile est color... Quapropter non est visibile absque luce: sed omnis uniuscuiusque color, in lumine sane videtur.... (Aristot. De Anima, Lib. II, cap. VII. Joh. Argyropylo interprete). Ut igitur ibi (in libris de Anima) de lumine dictum est, quod perspicui color per accidens sit, ita hic quoque dicendum; nam corporis ignei praesentia in perspicuo lumen est: privatio, tenebrae ». (Aristot. De Sensu et Sensibili. Cap. III. Fr. VaMagistretti 11

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nel libro delle Cagioni: La prima bontà manda le sue bontadi sopra le cose con un discorrimento (1). Veramente ciascuna, cosa riceve da questo discorrimento secondo il modo della sua virtù e del suo essere. E di ciò sensibile esemplo avere potemo dal Sole. Vedemo la luce del Sole, la quale è una, da uno fonte derivata diversamente dalle corpora essere ricevuta (2); siccome dice Alberto, in quello libro che fa dello intelletto, che certi corpi, per molta chiarità di diafano avere in sè mista, tosto che 'l Sole gli vede diventano tanto luminosi, che, per multiplicamento di luce in quelli, appena discernibile è loro aspetto e rendono agli altri di sè grande splendore; siccome è l'oro e alcuna pietra. Certi sono che, per essere del tutto diafani, non solamente ricevono la luce, ma quella non impediscono, anzi rendono lei del loro colore colorata nelle altre cose. E certi sono tanto vincenti nella purità del diafano, che diventano sì raggianti, che vincono l'armonia dell'occhio, e non si lasciano vedere senza fatica del viso; siccome sono gli specchi. Certi altri sono tanto sanza diafano, che quasi poco della luce ricevono; siccome la terra.

tablo interprete). I quali pass! del Filosofo sono ricordati dall'Alighieri nel Trat. III, al Cap. IX, dove commenta il verso: Tu sai che 'l ciel sempr' è lucente e chiaro: « Cioè sempre con chiarità, ma, per alcuna cagione, alcuna volta è licito di dire quello essere tenebroso. Dov'è da sapere che propriamente è visibile il colore e la luce.... Trasmutasi questo mezzo di molta luce in poca, siccome alla presenza del Sole, e alla sua assenza : presenza lo mezzo che è diafano, è tanto pieno di lume, ch'è vincente della stella; e però pare più lucente »>.

e alla

(1) Propter quod Platonici dicebant, quod bonitas a prima forma quaedam est in proximis, imago autem in distantibus, in ultimis autem obscura reflexio sive resonantia sive umbrosa primi repraesentatio: cum omnis virtus istius fluxus a primo est ». (Albert. Lib. I: De Causis et processu universitatis. Tract. IV, Cap. IV, T. V, p. 555).

(2)

Amor, che muovi tua virtù dal Cielo,

Come Sol lo splendore,

Che la si apprende più io suo valore,

Dove più nobiltà suo raggio trova.

(Dante. Canzoni).

Così la bontà di Dio è ricevuta altrimenti dalle sustanzie separate, cioè dagli Angeli, che sono sanza grossezza di materia, quasi diafani per la purità della loro forma e altrimenti dall' anima umana, che avvegnachè da una parte sia da materia libera, da un' altra è impedita» (1).

Beata e pura si fa l'anima del Poeta di fuoco, in fuoco, fisa nella scienza del divino Amore, nell'amore della scienza divina: Beatrice.

« E così si può vedere chi è omai questa mia donna, per tutte le sue cagioni, e per la sua ragione, e perchè Filosofia si chiama; e chi è vero Filosofo e chi è per accidente. Ma perocchè in alcuno fervore d'animo talvolta l'uno e l'altro termine degli atti e delle passioni si chiamano per lo vocabolo dell' atto medesimo e della passione; siccome fa Virgilio nel secondo dell' Eneida, che chiama Ettore: O luce (ch'era atto) e speranza delli Troiani - (2) (che è passione); chè nè era esso luce, nè speranza, ma era termine, onde venia loro salute del consiglio, ed era termine, in che si riposava tutta la speranza della loro salute; siccome dice Stazio nel quinto del Thebaidos, quando Isifile dice ad Archemoro: O consolazione delle cose e della patria perduta, o onore del mio servigio! Ecco come intende il Poeta questa idea nella quale Dio mette

sempre del suo lume, così:

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» (3).

(1) Convito. Trat. III, Cap. VII.

(2)

(3)

« O lux Dardaniae, spes o fidissima Teucrûm

Quae tantae tenuere morae? quibus, Hector, ab oris
Servitiique decus? ».

(Aen. Il, v. 281).

« O mihi desertae natorum dulcis imago,

Archemore; o rerum et patriae solamen ademptae
Servitlique decus ?

Che gli occhi di color, dov'ella luce,
Ne mandan messi al cor pien`di disiri,

Che prendon aere e diventan sospiri (1).

E però se Lucia è la grazia illuminante, Beatrice è il lume stesso della grazia; essa: «È simbolo non di un' idea, vuoi filosofica, vuoi teologica, vuoi mistica; essa è figura e simbolo dell'Idea. Come tale essa adempie diversi uffici quanto sono gli aspetti e le forme che in sè racchiude e manifesta quell'universale: profetizza il rinnovamento del mondo, e il trionfo della giustizia nel governo delle cose umane: redarguisce la vana dottrina dei teologastri: disserta dell'ordine dell' universo, della distribuzione dei cieli, della gerarchia angelica: corregge e sana errori d' intelletto in proposito di astronomia: raddrizza traviamenti morali: scioglie dubbî di fede: narra ed illustra gli avvenimenti passati e i presenti: tutto, infatti, è a lei soggetto, tutto a lei appartiene ciò che riguarda la scienza e la fede, la filosofia e la teologia, la vita civile e la contemplativa, la speranza e il premio, la terra e il cielo, l'uomo e la Divinità » (2).

Sapienti parole, per le quali non sembrerà paradosso il dire che non poteva meglio essere definita la astrazione del concreto, astrazione che il sommo critico spiega con una similitudine molto felice. « L'affetto purificandosi si innalza, innalzandosi si purifica. Cost an grano di incenso che arda su questa nostra bassa dimora, via via che si erge in candide ed azzurrine volute perde, vaporando, la primitiva forma materiale, e, fatto più sottile, si diffonde per l'aere cercando il cielo, convertito in grata fraganza e in soave profumo » (3). Senonchè il Poeta, astraendo dall' individualità concreta, immagina un nuovo tipo di perfezione etica ed estetica; e, sostituendo idea ad idea, fa di Beatrice un divino lume d'amore; esso crea un

(1) Convito. Trat. II. Cap. XIII.

(2) A. D'Ancona. La vila nuova di Dante Alighieri illustrata da note e preceduta da un discorso su Beatrice, pag. LXXXVI. II Ediz. Pisa. Libreria Galileo, 1884.

(3) A. D'Ancona. Op. cit., nella nota precedente, pag. LXXXVII, cap. VII.

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