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di lume, quanto esse per loro disposizione possono dalla sua (1) virtù lume ricevere. Così dico che Dio questo amore a sua similitudine riduce, quanto esso è possibile simigliarsi a Lui. E ponsi la qualità della creazione, dicendo: Siccome face in Angelo che'l vede. Ove ancora è da sapere che 'l primo agente, cioè Dio, pinge la sua virtù in cose per modo di diritto raggio, e in cose per modo di splendore riverberato; onde nelle Intelligenze raggia la divina luce senza mezzo, nelle altre si ripercuote da queste Intelligenze prima illuminate. Ma perocchè qui è fatta menzione di luce e di splendore, a perfetto intendimento mostrerò differenza di questi vocaboli, secondochè Avicenna sente (2). Dico che l'usanza de' Filosofi è di chiamare il Cielo lume, in quanto esso è nel suo fontale principio: di chiamare raggio, in quanto esso è per lo mezzo dal principio al primo corpo dove si termina; di chiamare splerdore in quanto esso è in altra parte alluminata (3) ripercosso» (4). Per il che è facile intendere come

(1) « Di questo sua è lacuna nei codici e nella stampa; ma non si può far a meno di aggiungerlo, onde sia chiaro che qui si parla della virtù del So'e. Così poco prima l'Autore dice: discendendo la loro virtú; e dopo : il primo agente, cioè Dio, pinge la sua virtù in cose ecc.

(2) « Dicemus igitur quod cum lux est pars compositionis huius visibilis: quod vocamus colorem; et est quiddam quod cum admixtum fuerit colori, qui est in potentia; tunc ex utroque proveniet id quod est color in effectu propter commiscibilitatem. Si autem non fuerit haec aptitudo erit lumen et splendor per se tantum: lux enim est sicut pars eius quod color et commixtio eius etc.

Lux est qualitas, quae ex sua essentia est perfectio translucentis, secundum quod est translucens; est etiam alia qualitas, in eo quod est visibile ex sua essentia: et non per aliud: et sine dubio visibile ex sua essentia prohibet videri id quod est post ipsum. Lumen vero est qualitas, quam mutat corpus non translucens a lucido: et translucens efficitur per eam translucens in effectu. Color autem est qualitas quae perficitur ex luce : et solet penetrare corpus prohibens affectione lucentis ab eo: inter quod et lucens fuerit ipsum corpus medium: ergo corpora sunt lucida et colorata et pervia » (Opus. egregium de anima qui sextus naturalium Avicennae dicitur. Pars III, Cap, III, p. II, Venetiis, 1508).

(3) È stato corretto l'errore dei testi che leggono alluminato.

(4) Convito, Tratt. III, cap. XIV.

il lume sia la causa della luce; il raggio, il mediatore, cioè la materia, lo spazio lucente, il vime, come lo dice Dante, (1) lo splendore, la rifrazione immediata dei raggi che vivissimamente sono riverberati dalla superficie del corpo dal quale la luce sfavilla, tanto intensa da essere giudicata luce prima. Da questa modalità poi di causa e di effetti scaturisce un fenomeno unico e vario, la luce:

La prima luce, che tutta la raia

Per tanti modi in essa si ricepe,

Quanti son gli splendori a che s'appaia.
Onde, perocchè all'atto che concepe

Segue l'affetto, d'amor la dolcezza

Diversamente in essa ferve e tepe (2).

Tale interpretazione, fornita dall'Alighieri stesso, ci mette in grado di commentare, senza timore di cadere nell'arbitrario, il senso letterale e allegorico di molti passi, che altrimenti non si potrebbero intendere nè coordinare ad un principio fondamentale. A mo' d'esempio ricorderò il punto nel quale il Poeta passa in Giove, albergo dei giusti, che ordinano i propri splendori in forma di lettere componenti un appropriato verso di Salomone, e si riducono da ultimo nella figura di un'aquila. Dante soggiunge:

Tanto poss'io di quel punto ridire,

Che, rimirando lei, lo mio affetto
Libero fu da ogni altro disire,
Fin che il piacere eterno, cho diretto
Raggiava in Beatrice, dal bel viso

Mi contentava col secondo aspetto.
Vincendo me col lume d'un sorriso,

Ella mi disse: Volgiti ed ascolta;
Chè non pur ne'miei occhi è Paradiso.

Come si vede qui alcuna volta

L'affetto nella vista, s'ello è tanto,

Che da lui sia tutta l'anima tolta,

(1) Forma antica e contratta di vimine, lat. vimen, il legame. Parad.

XXVIII, v. 100; XXIX, v. 36.

(2) Parad. Canto XXIX, v. 136-141.

Magistretti

2

Così nel fiammeggiar del fulgor santo

A cui mi volsi, conobbi la voglia

In lui (Cacciaguida) di ragionarmi ancora alquanto (1).

Nè a caso, fra i molti che potrei citare (2), ho scelto questo passo per applicare, a miglior intelligenza dell'argomento, la triplice definizione dantesca: comecchè l'idea del lume è chiaramente e duplicatamente rappresentata, non solo nel valore letterale, ma ancora nella sua essenza di Causa prima, di Dio, piacere eterno di Cielo (3); di potenza morale, come è appunto del sorriso della scienza divina che incolora e avviva la scienza umana.

.........Il piacer eterno che diretto

Raggiava in Beatrice (4)

faceva di lei uno splendore che, come dice sublimemente il Poeta: Mi contentava col secondo aspetto (5),

mostrandogli rifratto il raggio dell'eterno lume, reso, quasi direi, più dolce, perchè più umanamente comprensibile dai suoi occhi terreni, perchè in essi non era il Paradiso come in quelli di Beatrice e di Cacciaguida, splendidi del

......fiammeggiar del fulgor santo,

assorti in un'infinita e indefinita luce:

Luce intellettual piena d'amore,

Amor di vero ben pien di letizia,

Letizia che trascende ogni dolzore (6).

Bellissima gradazione ed espressione della eterna felicità! (Venturi). Luce che solleva l'intelletto a comprendere Dio qual'è in sè

(1) Parad. Canto XVIII; v. 13-27.

(2) Inf. Canto XXIV, v. 131; Purg. XXXI, 1; Parad. XIII, 44; XIV, 47; XVIII, 19; XXIII, 110; XXV, 13; XXVI, 121; XXXII, 71.

(3) Purg. Canto XXI, v. 44; Parad. II, 112; XXX, 39.

(4) Parad. Canto XVIII, v. 16-17.

(5) Parad. Canto XVIII, v. 18. Il volto di Beatrice è detto Secondo aspetto per corrispondenza al piacer eterno che raggiava direttamente sopra di essa e che formava il primo aspetto.

(6) Parad. Canto XXX, v. 40. Tantum gaudebunt, quantum amabunt ; tantum amabunt, quantum cognoscent. Augustinus, De civitate Dei, Cap. XXII, 30.

stesso, e conseguentemente riempie la volontà del santo di lui amore. Ma come ristarmi dal ricordare quel che segue di questo canto della luce? Esso è il prologo naturale della mia dissertazione: esso riassume con lirica brevità tutta l'estasi dei simboli celesti:

Come subito lampo che discetti

Gli spiriti visivi, sì che priva

Dell'atto l'occhio de' più forti obbietti;

Così mi circonfulse luce viva,

E lasciommi fasciato di tal velo

Del suo fulgor, che nulla m'appariva.
Sempre l'Amor, che queta questo cielo,
Accoglie in sè con siffatta salute,

Per far disposto a sua fiamma il candelo (1).

Ad intendere che Dio accoglie ivi tutti i beati, con siffatto salutevole lampo, che li dispone al lume di sua vista, al nembo infiammato dall'irradiata sua luce. Epperò :

......Di novella vista mi raccesi

Tale, che nulla luce è tanto mera,
Che gli occhi miei non si fosser difesi.

E vidi lume in forma di riviera

Fulvido di fulgori (2), intra due rive
Dipinte di mirabil primavera.

Di tal fiumana (3) uscian faville vive,

E d'ogni parte si mettean ne' fiori

Quasi rubini ch'oro circoscrive (4).

L'abisso della luce celestiale, nella quale l'anima è immersa, addiviene fiamma di amore divino, il che più chiaramente si fa palese quando il poeta giunge al cospetto di Maria:

(1) Parad. Canto XXX, v. 46 53,

(2) Fulvido, lo stesso che fulgido, rilucente, (Vocabolario della Crusca). di fulgori; così nella Nidobeatina, meglio che di fulgore, delle altre edizioni.

(3) Ostendit mihi flumen aquae vivae splendidum tamquam crystallum procedens de sede Dei. Apocalis. Cap. 12.

(4) Parad. Canto XXX, v. 58-66.

Io levai gli occhi; e come da mattina
La parte oriental dell'orizzonte

Soverchia quella dove il Sol declina,
Così quasi di valle andando a monte,

Con gli occhi, vidi parte nello stremo
Vincer di lume tutta l'altra fronte.
E come quivi, ove s'aspetta il temo (1)
Che mal guidò Fetonte, più s'infiamma,
E quinci e quindi il lume si fa scemo;
Così quella pacifica orifiamma

Nel mezzo s'avvivava, e d'ogni parte

Per igual modo allentava la fiamma (2).

Per il che occorre osservare, non solo la bellissima descrizione del fenomeno che si avverte la mattina nella parte orientale, quando intorno al luogo dove spunta il sole, si va il suo lume con la distanza dal centro vieppiù scemando, ad indicare che intorno allo scanno della Donna del cielo avveniva un fatto straordinariamente unico, ma ancora la trasfusione diretta dell' idea della luce in quella del fuoco. Ciò corrisponde ad un concetto eminentemente teologico, e non è già un lampo di genio poetico, che viene a rischiarare l'abisso del lume divino (3).

Epperò anche presso il popolo persiano, finamente nobile e primitivo, fuoco, luce e parola sono idee affatto uguali, e gli astri pronunziano nel cielo un eterno discorso di luce, che dà la sapienza a chi sa intenderlo. Il viso del dio Pane è di fuoco, motivo per cui Orfeo lo chiama il fuoco che non si spegne mai. E nella religione cristiana l'immissione dell'idea della luce in quella del fuoco è costante,

(1) Il timone, latinamente temo, per sineddoche usato ad indicare il carro di Fetonte, uscito dall'eclittica.

(2) Parad. Canto XXXI, v. 118-129.

(3) pensiero teologico quale animatore della Divina Commedia è messo scientificamente in luce dal Dottor F. L. Hettinger: De Theologiae speculativae ac misticae connubio in Dantis praesertim trilogia, Wirceburgi. Typis expressit Thein (Stuerz) 1882. Pur troppo questo libro non è molto noto in Italia.

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