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la notte (1). Le quattro ruote del carro della luce (2), come lo dice Dante, simboleggiavano le mutazioni delle stagioni.

Ove se ne tolga però questi brevi cenni, che ricordano la favola pagana, il Sole, così come è inteso dal nostro Poeta, tanto nell'ordine fisico, quale foce di luce animatrice e pittrice dell'universo, quanto nell'ordine spirituale, quale motore dell'ordine e dell'ardore metafisico; il Sole è simbolo di una divina astrazione poetica, della quale troviamo l'origine nella dottrina dell' Aquinate. « Sol corporalis illustrat exterius, sed Sol intelligibilis, qui est Deus, illustrat interius.... Unde ipsum lumen naturale animae inditum est illustratio Dei» (3). « Ipsum lumen naturale rationis participatio quaedam est divini luminis; sicut etiam omnia sensibilia dicimus videre et judicare in Solis per lumen Solis (4). L' Angelo della Scuola reca la autorità di Agostino: Disciplinarum spectamina videri non possunt nisi aliquo velut suo Sole illustretur, videlicet Deo (5). E si potrebbe fra molti citare anche il Nazianzeno, che scrisse : « Idem in sensibus Solem esse, quod Deus in intellectibus. Ut enim hic (Deus) mentem, ita ille oculos illustrat (6). La aggiunta è dello Zoppi (7).

Ond'è che nella Divina Commedia l'idea mistica pare traluca dall' immagine stessa del Sole e de' suoi fenomeni, come un'eco soavissima di armonia, che dalla luce ritragga piacere di colori e di splendori leggiadri e fulgentissimi. Il raccogliere e coordinare le descrizioni degli spettacoli che il Poeta, con somma potenza di colorito

(1) I Messageti, popoli al settentrione dell'impero di Ciro, adoravano il Sole, al quale sacrificavano cavalli, per immolare, al più rapido degli Dei, il più rapido degli animali. I Persiani pure facevano al Sole sacrifizi di cavalli bianchi.

(2) Purg. Cant. IV, v. 59.

(3) S. 1, II, q. 109, a. I, ad. 2.

(4) S. 1, 12, 11, ad. 3.

(5) Op. e luog. cit.

(6) Oral. XXXIX.

(7) G. B. Zoppi. Il fenomeno e il concetto della luce studiati in Dante.

- Discorso di pagine 78.

Rovereto. G. Grigoletti, 1886.

e originalità di osservazione, ha disseminate, quasi gemme preziosissime nella divina trilogia della luce, nè è cosa difficile, nè certamente è nuova. Il Venturi ha, con la sapiente squisitezza del gusto e la spontanea profondità della dottrina dantesca e classica, ordinate, come in un serto, le scene sparse di questo divino dramma della luce solare, che a colori d'oro e di fiamma ha scritto, ne' volumi degli infiniti azzurri, gli eterni e sempre nuovi episodi delle aurore, dei meriggi e dei tramonti, nei quali l'estro della umanità ha mai sempre fissato lo sguardo, ricavando, dalla più pura delle ispirazioni, il più splendido dei carmi. Un argomento vecchio parve così rivivere di efficacia poderosissima, anche perchè il critico valente ha coordinata l'osservazione allo studio della similitudine dantesca; la quale dall'arte trae una manifestazione più viva del concetto, e, dalla elevatezza di questo, la maggiore venustà e potenza di quella manifestazione.

« Dante, nell'aperto lume dei campi contemplando le bellezze dell'universo, trovò modo di dare splendore ai concetti meditati nella solitudine degli studi e ne' segreti dell'anima sua. Com'egli notò i minimi fatti dello spirito umano, così rappresentò le minute particolarità della natura, vagheggiandola in sè e raccogliendola in immagini raggianti di verità e di vita » (1).

Svanisce dagli occhi del Poeta lo sfavillante trionfo degli Angelici Cori, all' apparire della divina luce dell' Empireo, come svaniscono le stelle dinanzi al Sole:

Forse seimila miglia di lontano

Ci ferve l'ora sesta (2), e questo mondo
China già l'ombra quasi al letto piano,

(1) Luigi Venturi. Le similitudini dantesche ordinate, illustrate e confrontate. Firenze. Sansoni, 1874.

Il cielo e le sue apparenze.

(2) Il Benvenuto: Secundum astrologos el geometras, tota terra habet in circuitu 24 millia milliorum, et eam Sol girat in 24 horis. Itaque omni hora transit mille milliaria.... sei mila miglia: quae sunt cursus quartac partis diei naturalis.

Quando 'l mezzo del cielo a noi profondo
Comincia a farsi tal, che alcuna stella
Perde 'l parere infino a questo fondo:
E come vien la chiarissima ancella

Del Sol più oltre, così 'l ciel si chiude
Di vista in vista infino alla più bella (1).

(1) Parad. Cant. XXX, v. 1-9. Come tacere del commento fatto dal Venturi? II ciel si chiude, resta privo, al venir dell'aurora, di vista in vista, di stella in stella, fino alla più splendente. Chiama Viste le stelle, come altrove le chiama Vedute (Parad. Cant. II, v. 115), quasi occhi del cielo. E occhi del cielo le disse anche l'Ariosto (XIV, 99). All' imagine poi degli occhi ben risponde in Dante il verbo si chiude. Lucano, con gradazione

che molto rammenta questa :

Alba Lux rubet, et flammas propioribus eripit astris,

Et jam Plejas hebet, flexi jam plaustra Bootae

In faciem puri redeunt languentia coeli,
Majoresque latent stellae.

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E il Tasso, avvicinandosi di più al concetto dantesco :

Era nella stagion ch'anco non cede
Libero ogni confin la notte al giorno;
Ma l'oriente rosseggiar si vede,

Ed anco è il ciel d'alcuna stella adorno.

(XVIII, 12).

Dante nel passare che fa dal Sole in Marte, vede appunto crescere questo nuovo lume molto lungi, così, che gli richiama l'aggiungersi d'un nuovo chiarore all'albore antelucano.

Ed ecco intorno, di chiarezza pari,

Nascere un lustro sopra quel che v'era,

A guisa d'orizzonte che rischiari (1).

Lo stato del cielo al nascere del Sole, che nell'estremo dell'orizzonte si accende di una luce più intensa, quasi all' improvviso

(1) Parad. Cant. XIV, v. 67-69. - II Parenti così scrive al Lombardi : << Nel C. X il Poeta descrive un primo circolo di Beati veduto nella sfera del Sole (v. 74-66). Nel C. XII, sovraggiunge un altro cerchio intorno al primo (v. 3-5). Ora in questo canto apparisce un terzo cerchio precisamente intorno agli altri, per mostrare che pur molti spiriti rimanevano ancora in quella sfera: Ed ecco intorno ecc. Se il Poeta parlasse soltanto di un accrescimento di luce, si potrebbe credere che volesse indicare con questi versi il momento del trapasso alla sfera di Marte. Ma egli parla di novelle sussistenze che propriamente fanno un giro, Di fuor dell'altre due circonferenze; il che torna lo stesso come dire un terzo cerchio intorno ai due primi. E nella Stella di Marte non vi sono giri, corone, circonferenze, ma gemme, raggi, sussistenze moventesi per una croce. Dunque parmi che il Poeta si trovasse ancora nella sfera del Sole quando vide quel terzo lustro circolare, e abbassò gli occhi vinti da tante luci. Nella quale opinione più mi confermo, osservando che in quella stanchezza di sguardo Beatrice gli si mostrò bella e ridente: il che non potè avvenire se non restando ancora nella sfera del Sole; imperciocchè il Poeta dichiara espressamente, nella fine di questo canto, che nella Stella di Marte non s'era rivolta a quegli occhi belli. In conclusione, il riprender virtute a rilevarsi, e il vedersi traslato a più alta salute fu il vero punto del trapasso istantaneo; ben conveniente all'ufficio di colei che scorge, Di bene in meglio sì subitamente, Che l'atto suo per tempo non si sporge. Nè di quel trapasso dice il Poeta di essersi accorto, pel lustro sopraddetto, ma pel colore della Stella di Marte, che era tutt'altra cosa: Ben m'accors' io, ch'i'era più levato, Per l'AFFOCATO RISO DELLA STELLA, Che mi parea più rogio che l'usato ». (B. Lombardi. La divina Commedia di D. A., luogo citato).

schiudersi di un cratere di raggi, soverchiante lo splendore della zona, dove il pianeta discende, all' apparire de :

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Cui questo regno è suddito e devoto (1),

gli suggerisce quell' immagine di stupenda bellezza :
Io levai gli occhi; e come da mattina
La parte oriental dell'orizzonte

Soverchia quella dove 'l Sol declina;
Così, quasi di valle andando a monte,

Con gli occhi, vidi parte nello stremo

Vincer di lume tutta l'altra fronte (2).

Ma perchè un altro sublime spettacolo si osserva, là 've il Sole nasce, che, collo scemarsi di luci variatissime, pare smarrirsi nel centro di un oceano di splendori, dai confini che, più e più pallidi, si confondono con l'azzurro spazio :

E come quivi, ove s'aspetta il temo

Che mal guidò Fetonte, più s'infiamma,
E quinci e quindi il lume si fa scemo;

Così quella pacifica Oriafiamma (3),

Nel mezzo s'avvivava, e d'ogni parte

Per igual modo allentava la fiamma (4).

Nè tralasciò il Poeta di dipingere, con evidenza lirica, il crepuscolo del mattino, e propriamente quel tanto che risplende di luce aurata nè tre stadî: comecchè l'aurora di bianca diventa vermiglia, e poi gialla :

Sì che le bianche e le vermiglie guance,
Là dov'io era, della bella Aurora
Per troppa etade divenivan rance (5).

(1) Parad. Cant. XXXI, v. 116-117.

(2) Parad. Cant. XXXI, v. 118-123.

(3) Vedi la Nota (1) di questo Saggio di Studî, a pag. 22.

(4) Parad. Cant. XXXI, v. 124-129.

(5) Purg. Cant. II, v. 7-9. Ovidio aveva detto:

Magistrelti

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