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Lo Meridian dal Sole; ed alla riva

Cuopre la notte già col piè Marocco (1).

Ne consegue che, alla riva occidentale dell'emisfero abitato, le tenebre involgono la timida terra; su la quale poggia il piede la Notte. Epperò è bene osservare che la più parte dei commentatori, memori forse della personificazione antica mitologica e poetica (2), ravvisano, nell' ultimo verso, una felice sineddoche; mediante la quale il Poeta, in modo pur sempre originale, raffigura la gran

Nè l'interporsi, tra 'l disopra e 'l flore,

Di tanta moltitudine volante,
Impediva la vista e lo splendore:

Chè la luce divina è penetrante

Per l'universo, secondo ch'è degno,

Sì che nulla le puote essere ostante.
(Parad. Cant. XXXI, v. 19-23).

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E il Petrarca, con soverchia abbondanza :

Perchè s'attuffi in mezzo l'onde

E lasci Ispagna dietro alle sue spalle,

E Granata e Marocco e le Colonne.

(TOMMASEO).

(2) Il Boccaccio rappresenta la Notte con una donna, su un carro a quattro ruote, le vigilie. (Genealogia degli Dei. Lib. 1). Tibullo vi aggioga due cavalli neri, ma alcuni mitologhi vogliono che quel carro fosse tirato da due gufi. Virgilio aggiunge a quella figura due ali nere distese, che protende sulla Terra, e Ovidio le cinge il capo d'una corona di papavero significante il sonno.

Magistretti

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madre del sonno, che, mentre il Sole veste dei pacifici raggi l'uno emisfero terrestre e copre le stelle dei tre segni che lo seguono e precedono a destra e a sinistra, distende su l'altro il maestoso manto, ingemmato di Stelle (1). Ma l'induzione poetica non di

(1) Il Parini fa sue le leggende mitiche antiche, le tradizioni della iconologia medioevale e le superstizioni popolari in quella bellissima apostrofe, alla Notte della quale l'origine è forse ispirata alle parole del passo dantesco:

:

Copre la notte già col piè Marocco.

Ecco le parole del poeta lombardo :

Già di tenebre involta e di perigli,

Sola, squallida, mesta, alto sedevi
Sulla timida terra. Il debil raggio

Delle Stelle remote e de' pianeti,

Che nel silenzio camminando vanno,

Rompea gli orrori tuoi sol quanto è d'uopo
A sentirli vie più. Terribil ombra
Giganteggiando si vedea salire

Su per le case e su per l'alte torri,
Di teschi antiqui seminate al piede:
Upupe, gufi e mostri avversi al Sole,
Svolazzavan per essa, e con ferali
Stridi portavan miserandi augùri:
E lievi dal terreno e smorte fiamme
Di su, di giù vagavano per l'aere
Orribilmente tacito ed opaco;

E al sospettoso adultero, che lento
Col cappel su le ciglia, e tutto avvolto
Nel mantel, se ne gia con l'armi ascose,
Colpiano core, e lo strignean d'affanno.
E fama è ancor che pallide fantasime
Lungo le mura dei deserti tetti,
Spargean lungo acutissimo lamento,

Cui di lontan, per entro al vasto buio,

I cani rispondevano ululando.

Tal fasti, o Notte!....

(Parini. Il giorno).

strugge, a mio avviso, l' idea, davvero mostruosa, di questa donna gigantesca, che tiene l'un piede sul cerchio, che termina l'emisfero a levante e in atto di spingere l'altro a coprire l'opposto punto occidentale. Mentre invece risulta, mi pare, proprio all'evidenza, che ľ Alighieri volle, più che dipingere la figura della Notte, accennare al primo distendersi dell'ombra, e, metonimicamente ricordare la causa, che, quanto più piccola, tanto si accostava in modo più astratto, all' idea che voleva tradurre con tutta la sua vanità, che par persona (1). Ed ecco seguire il cammino del Sole:

Nell'ora, che comincia i tristi lai

La rondinella presso alla mattina,

Forse a memoria de' suoi primi guai,

E che la mente nostra, pellegrina

Più dalla carne, e men da' pensier presa,

Alle sue vision quasi è divina (2);

e, al salire di prima sera, quando:

Comincian per lo ciel nove parvenze

Si che la cosa par e non par vera (3);

fino al punto che;

Distinta da minori e maggi

Lumi, biancheggia tra' poli del mondo
Galassia (4).

Ma che non dovremo dire dell' influenza attribuita dal Poeta

alla luce solare? e che del forte acume del:

Sol, che nostra vista grava,

E per soverchio sua figura vela (5)?

(1) Inf. Cant. VI, 2. 36.

(2) Purg. Cant. IX, v. 13-18.

(3) Parad. Cant. XIV, v. 71-72.

(4) Parad. Cant. XIV, v. 97-99.

(5) Purg. Cant. XVII, v. 52-53. Sol etiam caecat contra si tendere pergas Lucr. IV, 326.

L'eccesso di quello splendore produce offuscamento; e però, se taluno lo adocchia e s'argomenta di fissarvi lo sguardo, mal per lui, poi:

Che per veder non vedente diventa (1).

« Proprietà, dunque, del Sole è che l'occhio nol può mirare » (2); di modo che Dante dice:

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Levai le mani in vêr la cima
Delle mie ciglia, fecimi'l solecchio,

Ch'è del soverchio visibile lima (3).

Che se tutte queste rappresentazioni non sono che una poetica constatazione di fatto, introdotta per dare vivezza di lume e di guizzi lucenti alla frase, alla scena, all'effetto forse; essa però non è aliena mai dallo splendore originale del giudizio. Più che una semplice contemplazione dell'arte dantesca nella descrizione del sublime fenomeno che si manifesta multiforme nella natura, è questa speculazione poeticamente scentifica che spira dal Divino Poema, massime là dove l'Alighieri afferma la azione chimica della luce solare, divinando le leggi scoperte dal Galilei e dal Lavoisier.

Epperò, affermato che il calore del giorno dura gran parte della notte e cessa all'alba, pe'l freddo della massa terrestre, rimasta a lungo senza il Sole (1), depurando con la cognizione scientifica,

(1) Parad. Cant. XXV, v. 120.

(2) Convito. Trat. II, cap. XI.

(3) Purg. Cant. XV, v. 13-15. « Solecchio e Solicchio (spiega i Vocabolario della Crusca) strumento da parare il Sole, detto ancora parasole o ombrello ». Dante chiama solecchio quel riparo alla troppa luce, che egli facevasi con le mani tese, a guisa di visiera, sopra le ciglia.

(4) Ecco i versi coi quali Dante determina questo fenomeno di osmosi e di esosmosi del calore solare:

Nell'ora che non può 'l calor diurno

Intiepidar più freddo della Luna,
Vinto da Terra, e talor da Saturno;
Quando i geomanti lor Maggior Fortuna

la finzione geomantica (1) assurge al sommo principio della trasmissione del calore solare, quale operatrice della vita organica:

E perchè meno ammiri la parola,

Guarda 'l calor del Sol che si fa vino,

Giunto all'umor che dalla vite cola (2).

Veggiono in orïente, innanzi all'alba,

Surger per via, che poco le sta bruna.

(Purg. Cant. XIX, v. 1–6).

Con le quali parole circoscrivere l'ultima ora della notte, dalla freddezza che suo avere maggiore sopra le ore precedenti; e indica la ragione deducendola dal fatto che in quell'ora il calor diurno, il caldo rimasto nella terra e nell'atmosfera dal Sole del precedente giorno, vinto, estinto, da terra, dal freddo naturale della terra, non può più intiepidare, render minore, il freddo della Luna, della notte. Vi aggiunge anche vinto talor dal Saturno (quando cioè trovasi nell'emisperio notturno), per l'opinione che vi era che questo pianeta apportasse freddo; e riferisce perciò il Landino ciò che di Saturno scrive Alano astrologo:

Hic algore suo furatur gaudia veris

Furaturque decus pratis, et sidera florum.

(1) Dice il Lombardi: « Altra circoscrizione dell'ora medesima suddetta prende dalla geomanzia, arte divinatoria, così detta dal greco, che vuol dir terra e da pax, che significa divinazione, perchè trae cotale arte le pazze sue predizioni dall'osservazione di figure in terrestri corpi ». (Passavanti. Della terza scienza diabolica).... Fortuna major era la disposizione del punteggiature, simile alla disposizione delle stelle componenti il fine della costellazione dell' Aquario, ed il principio dei Pesci. Il Poeta, invece di dire che quella era l'ora in cui essendo il Sole in Ariete (Inf. I, 38), erano già sopra l'orizzonte alzati tutto Aquario e parte de' Pesci (cioè poro avanti il nascer del Sole, dice ch'era l'ora quando i Geomanti veggono la loro Maggior Fortuna sorgere in oriente innanzi all'alba per via, per quella strada che, pel presto venirle il Sole in seguito, poco le (alla mededesima Maggior Fortuna) sta bruna, rimane oscura.

(2) Purg. Cant. XXV, v. 76-78.

Quae et succo terrae et calore solis auge scens primo est peracerba gustatu, deinde maturata dulcescit. (Cicero. De Senectute, XV). Il Redi dice:

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