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Dalle quali parole è dato argomentare che, quanto più il Poeta sale, e tanto vede con maggiore chiarezza, non solo lo spazio che lo circonda e gli sovrasta, ma ancora i mondi sottoposti. Così che egli vide la Luna, nel disco superiore, monda da quelle macchie che erano state cagione di un falso giudizio; comecchè le ombre sono per gli influssi inferiori, e non provengono all'astro dalla regione superiore. Epperò è così potentemente disposta la pupilla dell' Alighieri, che: L'aspetto del tuo nato, Isperïone,

Quivi sostenni; e vidi com' si muove

Circa e vicino a lui Maia e Dione (1).

È noto che il Sole è figlio di Iperione (2).

(1) Parad. Cant. XXII, v. 142-144.

(2) Così commenta il Bennassuti. « Si muove. Verbo impersonale passivo, e non personale di Maia e Dione» (la prima è madre di Mercurio • l'altra di Venere). « Dunque vuol dire : Come si muove dai corpi tra la Luna e il Sole, ossia quali moti vi sieno. Sopra la Luna gira Mercurio e sopra Mercurio gira Venere. Sopra Venere gira il Sole. Dunque, leggete così: Vidi o Maia e Dione come si muove circa e vicino al Sole. Ha cominciato col vocativo Iperione, padre del Sole, e termina coi vocativi Maia e Dione, madri quella di Mercurio, questa di Venere. I Commentatori dicono invece che Dante ha preso le madri per i figli, ma non è. Si noti che Dante nella enumerazione dei sette percorsi pianeti ne accenna le proprietà.... Si muovono circa al Sole, non già perchè facciano centro del Sole ed essi si girino intorno a lui (il che non è del sistema Tolemaico, ma del Copernicano), ma perchè soli essi due Mercurio e Venere, a differenza degli altri pianeti, fanno il loro corso in 365 giorni e 6 ore, e sempre lo seguono. Si direbbe che vanno secus eum, se il corso fosse rettilineo, ma, essendo invece orbitale, si dice circa. - Brunetto Latini nel Trattato della Sfera c. XLI, 24. Milano. 1848 dice al nostro proposito: Il suo corso compie egli (l'astro di Venere) col Sole, e seguisce sempre il Sole; compie (Mercurio) il suo corso in un anno. E il Sacrobosco, testo della Sorbona ai tempi di Dante, dice così: Sol in 365 diebus et fere sex horis. Venus et Mercurius similiter ». (L. Bennassuti. La Divina Commedia. Padova. Tip. del Seminario, 1870). È stato pubblicato a Roma dalla Tipografia delle Scienze Matematiche e Fisiche (1885) il seguente testo, che potrà essere consultato con vantaggio dagli studiosi: Enrico Narducci. Iprimi due libri del Tractatus Sphaerae di Bartolommeo da Parma, astronomo del decimoterzo secolo.

L'Alighieri ricorda i vari nomi dati alla Luna: Delia, Diana, Proserpina e Trivia; e il buon Pietro ricerca perchè così si chiami (1). Come già abbiamo veduto (2), l'Alone è detto dal Poeta, con bella perifrasi, il cinto di Delia (3).

Tre uffici distinti attribuivano alla Luna gli antichi: uno in cielo, l'altro su la terra, il terzo nell' inferno. In terra era conosciuta sotto il nome di Diana e di Trivia, e si venerava come dea della caccia e della castità; in cielo si chiamava Febea, ma Dante, nel passo più sopra citato, ivi pure, l'ha chiamata Trivia (4); nell' Inferno si noma Ecate, e là presiede agli incantesimi e alle espiazioni; ma nel Poema è ricordata da Farinata con una perifrasi :

......

Non cinquanta volte fia raccesa

La faccia della Donna che qui regge (5).

La mutabilità delle apparenze lunari, sublime fenomeno, che fece tanto prediletto questo astro ai più antichi fra gli antichi popoli (6), richiamò l'estasi del Poeta, che ne descrisse le varie fasi: quelle fasi per le quali Ovidio disse:

(1) Parad. C. III, nel Commento di Pietro di Dante.

(2) Vedi l'Indice Analitico di questo Saggio di Studî alla voce ALONE.

(3) Purg. Cant. XXIX, v. 78; Epist. VI, 2; Mon. I, 13.

(4) Vedi alla voce TRIVIA nell' Indice Analitico di questo Saggio di Studi.Era riconosciuta quale dea della Luna, e per la Luna stessa, come per Dio del Sole, e per il Sole stesso, era venerato Apollo.

(5) Inf. Cant. X, v. 79-80. Ma non cinquanta lune (mesi) saranno trascorsi che tu, o Dante, saprai per prova quanto sia amara cosa il ritornare in patria dopo esserne stati scacciati. Accendit lumina vesper (Georg. I). Dominam Ditis, la Luna (Aen. VI).

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(6) Gli Ebrei, i Greci, i Romani e altri popoli antichissimi si riunivano alla nuova Luna per compiere gli atti della loro pietà e della loro riconoscenza verso gli Dei. Si annunziava loro in tal circostanza tutto ciò che poteva interessarli nella durata del nuovo mese; la Luna piena li faceva radunare alla metà del medesimo. E tuttora i Turchi, gli Arabi, i Mori e parecchie tribù dell' America conformano il loro calendario al rinnovarsi e alle altre diverse fasi della Luna.

Nec par aut eadem nocturnae forma Dianae

Esse potest usquam semperque hodierna sequente

Si crescit, minor est, major si contrahit orbem (1).

E chi non ricorda la mestissima scena, che nella fredda oscurità del secondo girone, commove Dante, allorquando incontra la schiera delle anime, fra le quali si trovava il Latini?

.... Ciascuna

Ci riguardava, come suol da sera
Guardar l'un l'altro sotto nuova Luna:
E si vêr noi aguzzavan le ciglia,

Come vecchio sartor fa nella cruna (2).

Dove vediamo indicata perfettamente l'ora nella quale, poco dopo il tramonto del Sole, la Luna scompare dall'orizzonte, lasciando la notte orribilmente opaca. Ora che pesava, più cupa d'una squilla d'agonia vespertina, su l'anima dell' infelice poeta di Recanati: e che risuonò mai sempre d' un' eco funerea negli abissi vertiginosi di quell'anima straziatissima!

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Che dianzi gli fu duce,

Saluta il carettier dalla sua via:

Tal si dilegua, e tale

Lascia l'età mortale

La giovinezza.............. (1).

Si direbbe che quando il Leopardi si affisa in quella solinga, eterna peregrina (2) del Cielo, un' ineffabile tristezza lo opprima e col suo lamento implori la pietà nostra ; e anche allora che lo strazio del cuore si muta su la cetra in una bestemmia, in una maledizione, in un grido d'angoscia disperata.

Ma già dietro boschetti e collicelli
Antica e stanca in ciel salia la Luna
E su gli erbosi dorsi e i ramuscelli

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O graziosa Luna, io mi rammento
Che, or volge l'anno, sovra questo colle

Io venia pien d'angoscia a rimirarti :

E tu pendevi allor su quella selva,
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, chè travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
O mia diletta Luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l'etate
Dal mio dolore. Oh come grato occorre

Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,

Il rimembrar delle passate cose,

Ancor che triste, e che l'affanno duri.

(Alla Luna).

Al tramontare dell'astro notturno che « Inargentava della notte il velo » colli e le piagge, che non resteranno orfane gran tempo:

invidia

Spargeva luce manchevole e digiuna,
Nè manifeste l'ombre a questi e quelli

Dava, nè ben distinte ad una ad una (1).

Un infelice pastore errante così le parla :

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Dante destinava a quella tenebra affannosa Brunetto, il maestro, che era

violento contro natura.

(1) G. Leopardi. Paralipomeni della Batracomiomachia. Cant II, st. 7.

Magistretti

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