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e si fonda sulla distinzione dei quattro gradi della carità (1). « Tertius igitur amoris gradus est, quando mens hominis in illum rapitur divini luminis abyssum, ita ut humanus animus in hoc statu exteriorum omnium oblitus penitus nesciat se ipsum totusque transeat in Deum.... divinum quendam affectum induit et inspectae pulchristudini configurata tota in aliam gloriam transit ». E, a dare un'idea di questo stato dell'anima, fa uso della similitudine del ferro ineandescente: « Sicut primus gradus affectum sanat, secundus cogitationem ligat, sic tertíus actionem implicat, ut omnino circa aliquid occupari non possit, nisi quo eum divina virtus trahit vel impellit » (2).

Anche San Prospero d'Aquitania, poeta ecclesiastico del quinto secolo, nell'Inno del Redentore, svolgendo il concetto che i Cristiani devono riporre la loro fiducia in Gesù e non nelle proprie forze, esclama :

Hoe etenim tumida nimis impietate docentes,
Quid nisi justitia nos, et virtute, Deoque
Dispoliare volunt: ne lux in nocte coruscet,
Languida ne in vires redeant, ne mortua vivant?
Sed nobis summo verorum a fonte bonorum
Haurire haec, supero et semper splendore nitere

Gloria sit: non spes in foeni flore caduco (3).

Il Racine, col genio della fantasia moderna, ravviva poeticamente questo concetto di bagliori, di raggi, di luce:

Tel que brille l'éclair qui touche, au même instant,
Des portes de l'aurore aux bornes du couchant;
Tel que le trait fend l'air sans y marquer sa trace;
Tel, et plus prompt encor, part le coup de la Grace;
Ce foudre inopiné, cette invisible flamme
Frappe, éclaire, saisit, embraise toute l'âme (4).

(1) Victor Richard, De quatuor gradibus charitatis. Opp. ed. Mign. pag. 1210.

(2) S. Gregorio, In Ezech. Ilon. 1, 8; II, 2. S. Bernardo, In Cantic. Serm. 31. S. Bonaventura; Iliner. mentis, c. 7.

(3) F. Clement, Carmina e poetis Christianis. Farigi, ed. Gaune 1854. (4) Racine, La Grace. Cap. III.

Lume, luce, raggio, splendore, fulgore, fiamma, animati dalla poesia del simbolismo e dal simbolismo della poesia, sono vocaboli che, ciascuno a sè, non rappresentano già un'idea semplice, ma un concetto complesso; e l'indagine di tali trasmissioni e moltiplicazione di giudizi non sarà opera di sterile ascetismo, ma studio di una nuova retorica, benchè la letteratura moderna rifugga, o finga rifuggire per travisarle o deturparle, da queste fonti purissime di ispirazione.

Per l'Alighieri la Vergine è la Pacifica Orifiamma: non per altro, ripeto, che per l'aureo fiammeggiare del suo splendore (1). Difatti il manoscritto Estense, legge Oreafiamma, e Benvenuto, citato dal Lombardi, intende Orea come equivalente di Aurea, dicendo Maria flamma iguis aeterni et aurea, idest perfecta, pacifica quae facit pacem (2). Caldo calore chiama l'Alighieri più innanzi la Vergine, a ricordo forse, come già nella Selva selvaggia (3) del cavae cavernae di Virgilio (4). Le fiamme celesti (5), cioè gli spiriti, pérdono del loro splendore, al fiammeggiare dell'amore della coronata

(1) Oriafiamma, o Orofiamma chiamavasi la 'insegna guerriera comune una volta a molti popoli (Rossi, Orofiamma di Brescia): una bandiera con fiamma in campo d'oro, portata da un Angelo, secondo I Reali di Francia, al figliuolo di Costantino, secondo altri a Carlomagno: Portò per arme quel giorno quel gonfalone che arrecò l'agnolo a Carlomagno; la quale è una fiamma di fuoco nel campo d'oro (Pecorone, IX, 2).

(2) Nel periodico La Cultura - Anno 1, Num. VI, 15 gennaio 1882, è detto: « La Società Dantesca di Cambridge, Massachussets, della quale Lougfellow è presidente e Logwell vice presidente, ha deciso di non più pubblicare il Commentario alla Divina Commedia di Benvenuto da Imola. Questa risoluzione è dovuta a ciò che l'attuale Lord Vernon s'è posto in misura di mandare ad effetto il disegno di suo fratello ed ha consegnato la copia sua dello stesso Commentario ad un editore a Firenze per la pubblicazione immediata. Lord Vernon spera di poter dar fine a questa edizione nel corso di quest'anno. Come la Società Dantesca osserva ; « rimangono altri compiti ed altri servizi possono esser resi dalla Società agli studiosi del sommo Poeta ». (3) Inf. Canto I, v. 5.

(4) Aeneid. Lib. II, v. 53.

(5) Parad. Canto XII, v. 2; XIV, 66; XXVI, 2.

famma (1), del maggior foco (2) come altrove, per antonomasia, volle Dante chiamare Maria. Ma di che natura era questo fuoco celeste? Ed è questo il solo fuoco che divampi nel Cosmo dantesco? Convien rispondere a queste domande prima di addentrarci nell'esame delle varie modalità della luce e nel Divino Poema.

Nei grandi poeti non iscorgesi un sol verso notevole che non sia il resultamento d'una lunga serie di pensieri, di commozioni, di ispirazioni, di meditazioni: la loro mischianza quasi sempre si compie all'insaputa dell'autore stesso. Appo lui le impressioni hanno maggior forza, i movimenti dello spirito sono più rapidi e più numerosi; tutte le operazioni dell'intelligenza sono più efficaci, più pronte, più facili. Più agevolmente egli sposa il sentimento alla riflessione, la riflessione ai fatti (3). Che se questa è in genere la poesia dei grandi poeti, la è in ispecie di Dante. Commentare una terzina, un verso, una parola sola del suo capolavoro, è quanto mettere in esame tutte quante le opere del suo genio, le quali si coordinano, come per incanto, a formare un intero sistema di giudizi, di scienze speculative e astratte. È come disseppellir ruderi ad Atene od a Roma: un marmo, una pietra, un frammento adduce sulla via di ritrovamenti preziosi per la storia dell' arte e del progresso dell'umanità. Non è quindi vana pompa di erudizione induttiva, ma necessità di critica che costringe i commentatori a indagare l'origine e il fine della parola dantesca, divina parola di una mente che per poco non dubitiamo essere stata un mito (4).

(1) Parad. Canto XXIII, v. 119.

(2) Parad. Canto XXIII, v. 90.

(3) U. Foscolo. Dante Alighieri. Révue Britannique, anno 1830, gennaio. (4) All'interpretazione del senso letterale, allegorico e anagogico della Divina Teodia, più che lo studio dei molti commentatori, giova Dante stesso, raffrontato nei vari passi del Poema e delle Opere Minori. A tal uopo riescono utilissimi: un'edizione, senza note, ma corretta della commedia; le Tavole, più sopra citate, del Caetani: e la perfettissima opera di L. G. Blanc.

Senonchè, parlandosi del fuoco nella Divina Commedia, ci troviamo di fronte a un fatto eccezionale, che perciò appunto merita di essere attentamente esaminato, nelle sue attinenze colla storia della dottrina dantesca. V'ha, per così dire, una lacuna, o meglio un abisso non ricolmato, un deserto non esplorato dal Signore dell' altissimo canto. Che più? Si direbbe che Dante abbia voluto fare astrazione da tutto ciò che si riferisce alla sublime storia di questo mistero naturale, che segna il primo avvenimento, il primo passo dell'uomo nella via della civiltà, della quale il fuoco è precipuo fattore. « Qui se représentera jamais le bonheur, le ravissement, l'extase radieuse de celui de nos pères inconnus qui, le premier, montra en triomphe à la tribu stupéfaite le tison fumant d'où il avait réussi à faire jaillir la flamme?» (1)

L'inno del fuoco non doveva mancare nel divino poema dell'umanità; giacchè il suo culto è antico alle religioni più antiche, e proprio, direi quasi, della Bibbia e del Vangelo. Nella Caldea, nella Persia, nell'Egitto, fin dai tempi remotissimi, s'adorò il fuoco; e i Brahama, che lo benedicevano sotto il nome di Agni, lo chiamavano il dissipatore delle tenebre, il generatore della luce, il compagno dell'inverno che mette in fuga gli abitatori sinistri della oscurità. Il libro sacro dichiara che il fuoco è immagine del Sole, il quale pone fine ai terrori della notte (2), e si volge quindi alla luce, termine comune del fuoco e del Sole, e, senza sapere a qual Dio consacrare il suo canto, esclama in suo onore:

L'aureo germe di luce apparve in prìa,

E, solo, fu dell'universo il re;

Di lui s'empia la terra; il ciel s'empia;

Quale il Nume sarà che a noi lo diè? (3).

Vocabolario Dantesco o Dizionario critico e ragionato della Divina Commedia di Dante Alighieri, ora per la prima volta recato in italiano da G. Carbone. Terza ediz. Firenze, Barbèra 1883.

(1) M. Albert Réville. Le mythe de Promethée. Revue de deux mondes. Année 1862, 40.

(2) Inni del Rig-Veda.

(3) Inno 121; lib. X (Rig-Veda).

Il rito del fuoco sacro, antico quanto il tempo, è tutto racchiuso in un'estasi di simboli (1), e la religione di Vesta, nata in mezzo all'oscurità dei secoli favolosi, signoreggiò ampiamente le età rozze ed incolte, e le più costumate e le gentili (2). Epperò Virgilio fa dire ad Enea che Ettore:

......Da le chiuse arche riposte

Trasse e gli consegnò le sacre bende

E l'effigie di Vesta e il foco eterno (3).

Senonchè questa adorazione recava in sè un sentimento troppo umanamente religioso: era, in fondo in fondo, la idolatria dell'utilitarismo primitivo, dello spavento forse. Avvezzi quei primi popoli ad Osservare i fenomeni più strani della natura, adorarono il Sole come creatore stesso dell'universo, e il fuoco non solo quale viva immagine di quell'astro purissimo e vivificatore, ma come il mezzo più perfetto a dissipare le tenebre della notte e delle caverne, a temperare il rigore della stagione invernale, a difenderli colle pire dalle belve feroci. All'avvicinarsi di un pericolo cercavasi un rifugio presso di lui. Quando il palazzo di Priamo fu invaso, Ecuba tenne il vecchio re presso l'ara del fuoco. « Le tue armi, gli dice, non sapranno difenderti, ma quest'ara ti proteggerà ». Eschilo rappresenta Agamennone che ritorna da Troia, fortunato, coperto di gloria: egli però non ringrazia Giove nel tempio, ma offre sacrifizi al fuoco della sua casa. « Le feu du foyer était la Providence de la famille. Malheur à la maison où il venait à s'éteindre, car si le feu s'éteignait, c'était un Dieu

(1) Verro Flacco, grammatico di gran fama, maestro dei nipoti di Augusto, ricorda l'opera di Pompeo Festo sul culto del fuoco, della quale purtroppo non rimane che un avanzo giunto a Paolo Diacono, e deturpato nella ricomposizione da Giuseppe Scaligero. (Epistola Pauli ad Carolum Regem. - Epistola Iosephi Scaligeri ad Molucium). Ignaro di queste fonti, Emile Bouant, nell'opera Les merveilles du feu Paris Librairie Hachette 1884 - discorre questo argomento, ma con dottrina non sempre perfetta, il che mi sarà dato provare in una prossima pubblicazione: Prometeo nell'evoluzione milica e poetica, Cap. I. I Pramantha.

(2) Caccianemici. Il fuoco di Vesta.

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(3) Eneide. Lib. II. Traduzione del Caro.

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