sopportare il sublime splendore, del quale il viso della Vergine stessa non è che un riflesso: Riguarda omai nella Faccia ch' a CRISTO Più s'assomiglia, chè la sua chiarezza Indi Bernardo lo avverte dover egli preparare gli occhi alla con- . templazione del: Primo Amore, Si che, guardando verso lui, penètri Quant'è possibil, per lo suo fulgore (2). Epperò solo dal fine ha principio la chiarezza della visione e della comprensione: chè da Maria, la meridiana face (3), ottiene Dante, per intercessione di Bernardo, di potere: Con gli occhi levarsi Più alto verso l'ultima Salute (4). Allora solo egli potè levarli all'Eterno Lume (5); allora soltanto potè finire in sè l'ardor del desiderio (6); allora potè dire: La mia vista, venendo sincera E più e più, entrava per lo raggio Dell' ALTA LUCE CHE DA SÈ È VERA. Da quinci innanzi il mio veder fu maggio (7). (1) Parad. Cant. XXXII, v. 85-87. (3) Parad. Cant. XXXIII, v. 10. (4) Parad. Cant. XXXIII, v. 26-27. (5) Parad. Cant. XXXIII, v. 43. È tale una rivelazione per il Poeta la potenza visiva della quale egli dispone che nessuna delle parole può bastare a tradurla così com' egli vorrebbe; se per avventura, essendo la luce della quale gode un premio, non potesse dal Cielo discendere in terra senza perdere della sua beatifica natura. A quella Luce cotal si diventa, Che volgersi da lei per altro aspetto Epperò se Dante, nel sommo cielo, ove ebbe la visione di Dio, non fosse stato intieramente rapito in Dio, se gli occhi di lui si fossero, pure un momento, distratti dal Lume di Dio, se egli avesse pensato ad altro che a Dio, gli occhi di lui, a motivo del troppo vivo contrasto di luce, si sarebbero subito offuscati; Dio stesso si sarebbe velato al Poeta (2). Ond' è che l'ultimo canto della immortale Teodia è l'ode più sublime che il genio umano avesse mai sciolta all' immenso fenomeno che, nella stessa natura, rivela il mistero della felicità divina. O Luce Eterna, che sola in te sidi, (1) Parad. Cant. XXXIII, v. 100-105. Io credo, per l'acume ch'io soffersi Del vivo raggio, ch'io sarei smarrito, Se gli occhi miei da lui fossero aversi. Per questo a sostener tanto, ch'io giunsi L'aspetto mio col Valore infinito. (Parad. Cant. XXXII, v. 76-81). (3) Parad Cant. XXXIII, v. 124-126. In quell' abisso vorrebbe immergersi e trasfondersi il Poeta, ma, dice: ............ La mia mente fu percorssa Da un Fulgore (2) invincibile; invincibile alla stessa sua alta fantasia (3). Non perchè alla visione manchino le parole e la forma, dacchè l'intelletto e la immaginazione (4) hanno, in modo veramente mirabile, tradotta l'idea astratta della divinità, che urge l'universo e il Cielo, ma perchè concetti essenzialmente divini non si possono esprimere con parola umana. Il Poeta esclama: O abbondante Grazia, ond' io presunsi Egli ne fu inebriato, per essere stato, non solo avvicinato a Dio, ma in Dio confuso con un lampo di estasi sovrumana. O Somma Luce, che tanto ti levi Da' concetti mortali, alla mia mente E fa' la lingua mia tanto possente, (1) Parad. Cant. XXXIII, v. 115-116. (2) Parad. Cant. XXXIII, v. 140-141. (3) Parad. Cant. XXXIII, v. 142 (4) Ir. De Sanctis: Storia della letteratura italiana. Sec. Ediz. Vol. 1, pag. 258-259. Napoli, Morano, 1873. Quivi si sostiene l'avviso opposta: «La forma sparisce; la visione cessa quasi tutta; sopravvive il sentimento »>. (5) Parad. Cant. XXXIII, 82-84. Magistretti 28 |