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Che nel pensier rinnova la paura. (1)

Parole di colore oscuro legge il poeta sulla porta infernale, e, fin dai primi passi nel baratro della dannazione, Dante dice: Quivi è l'aria senza tempo tinta (2), il che vuol significare, secondo il Torelli, senza moto di Sole, cioè senza vicenda di luce e di tenebre. (3) E là dove sono puniti i golosi :

.........Al terzo cerchio della piova

Eterna, maledetta, fredda e greve :
Regola e qualità mai non l'è nova.
Grandine grossa, ed acqua tinta (4) e neve
Per l'aer tenebroso si riversa. (5)

Quando Dante e Virgilio si arrestarono nella quinta bolgia, dei barattieri, la videro mirabilmente oscura (6), più assai delle altre, e corrispondente al buio operare di quelle bieche anime. Una tenebra invincibile avvolge gli spiriti maledetti nella valle d'abisso dolorosa (7). Dice Dante che :

.........Gli occhi vivi

Non potean ire al fondo per lo scuro. (8)

Epperò il Bartoli ricorda: « Quelle ombre sopra ombre, d'alberi sopra alberi: e quella luce mezza tra viva e morta, che v'è fatta non dal giorno che non vi nasce, non dal sole che non vi penetra, ma da un non sapete qual misto d'infiniti riverberi senza niun primo lume da cui si veggano cominciati ». (Opere. La selva. Torino. Marietti).

(1) Inf. Cant. 1, v. 2–6. Dante chiama l'Inferno cammino silvestro (Inf. Cant. II, v. 142 e Cant XXI, v. 84), strada selvaggia; e secolo selvaggio il trecento (Purg. XVI, 133; e l'Italia selvaggia (Inf. Cant. V, v...), e trista selva Firenze Inf. Cant. XIV, v...) senza niun primo lume, per dirla col Bartoli succitato.

(2) Inf. Cant. III, v. 29.

(3) II Magaletti spiega, col Rifiorito aria eterna e non linta elernamonio, riflettendo che nel girone dei violenti l'aria è illuminata dal fuoco e vi balena in quello degli sciaurati.

(4) II Blanc (Vocabolario Dantesco) intende pioggia nerastra.

(5) Inf. Cant. VI, v. 7-11.

(6) Inf. Cant. XXI, v. 6.

(7) Inf. Cant. IV. 8.

(8) Inf. Cant. XXIV, v. 70–71.

Ma il :

........Cerchio di Giuda,

Quell'è il più basso luogo ed il più oscuro. (1)

Che più! A provare la totale caligine di quegli abissi non v'è forse ciò che il Poeta dice del Fucci:

Per tutti i cerchi dell'Inferno scuri

Spirto non vidi in Dio tanto superbo? (2)

Nell'aer nero, (3) nell'aura grossa, (4) abborrita dal sole e dagli astri, sono avvolte e nascoste l'anime più nere (5), i neri cherubini (6) e il nero ceffo (7) di Satana; e del funesto simbolo della colpa e della dannazione si tingono gli strumenti stessi degli eterni gastighi infernali. Ed ecco Lano sanese e Jacopo Padovano, dilaniati, come gli altri violenti nel prossimo, da nere cagne bramose (8) ; e : .... Un serpentello acceso,

..........

Livido e nero come gran di pepe, (9)

sbuca dalla rupe ferrigna brulicante di turpissimi rettili, emblemi della frode, che quivi è punita.

La fatale antitesi della luce eterna (10) è gridata da Caron dimonio, il quale urla alle turbe dannate, che si affollano sulla riva di Acheronte:

I'vegno per menarvi all'altra riva

Nelle tenebre eterne (11).........

E che altro infatti intende Dante per emisperio di tenebre (12) se non tutto il rotondo buio della buca infernale, che, come altrove avea detto:

(1) Inf. Cant. IX, v. 27-28.

(2) Inf. Cant. XXV, v. 13-14.

(3) Inf. Cant. V, 51.

(4) Inf. Cant. XXXI, v. 37.

(5) Inf. Cant. VI, v. 85

(6) Inf. Cant. XXI, v. 29; XXIII, 131; XXVII, 113.

(7) Inf. Cant. XXXIV, v. 65.

(8) Inf. Cant. XIII, v. 125.

(9) Inf. Cant. XXV. v. 83-84.

(10) Parad. Cant. XXXIII, v. 83.

(11) Inf. Cant. III, v. 86-87.

(12) Inf. Cant. IV, v. 69.

Oscura, profond' era e nebulosa? (1)

Onde, da poi che la capudigia è ciò che rende più fosco l' intelletto, ciechi (2) son detti i dannati, cieca (3) la loro vita, cieco (4) il loro carcere, e da quel cieco mondo (5) dal fondo del quale sgorga un cieco fiume (6), esce Dante coperto di fuligine :

Ambo le mani in su l'erbetta sparte

Soavemente 'l mio Maestro pose:

Ond'io che fui accorto di sua arte,
Porsi vêr lui le guancie lagrimose:
Quivi mi fece tutto discoverto

Quel color, che l'Inferno mi nascose. (7)

(1) Inf. Cant. IV, v. 10.

(2) Inf. Cant. VI, v. 93. È notabile dice il Poletto (Dizionario Dantesco. Vol. I, pag. 285, voce Cieco), che Dante qui chiama ciechi i golosi: altrove afferma che la superbia non lascia chinar agli uomini gli occhi a vedere il loro mal sentiero (Purg., XII, v. 70); e la superbia molte volte proviene dalla lussuria. S. Tommaso, che affermò che la cecità, la quale totalmente esclude la cognizione dei beni spirituali, nasce dalla lussuria; e che l'ebetismo del senso, che rende l'uomo debole a tali pensieri nasce dal vizio della gola, affermò pure, che la cecità della mente e l'ebetismo del senso si oppongono al dono dell' intelletto (Somm., II, 11, 8, 6; 15, 2; cfr. Purg., XIV, 145); e prego di ben leggere ed attendere a questo proposito ai passi sovrallegati per meglio vedere la perfettissima concordia tra S. Tommaso e Dante. » Nobili e veraci parole dell'amico del Giuliani, degnissimo erede de'suoi affetti e de'preziosi tesori danteschi di quel grande commentatore.

(3) Inf. Cant. III, v. 47. È scritto: Se il cieco al cieco farà guida, e essi cadranno ambedue nella fossa... Tali ciechi sono infiniti (Conv. I, II). Quivi è detto: «Siccome la parte sensitiva dell'anima ha suoi occhi, colli quali apprende la differenza delle cose, in quanto elle sono di fuori colorate; così la parte razionale ha suo occhio, col quale apprende la differenza delle cose in quanto sono ad alcuno fine ordinate: e quest'e la discrizione.... Siccome colui che è cieco degli occhi sensibili va sempre secondo che gli altri guidano, o male o bene; così quegli, ch'è cieco del lume della discrezione, sempre va nel suo giudizio secondo il grido, o dritto o falso che sia. » (4) Inf. Cant. X, v. 58; Purg. XXII, v. 103.

(5) Inf. Cant. IV, v. 13; VI, 93; XXVII, v. 25.

(6) Purg. Cant. I, v. 40.

(7) Purg. Cant. II, v. 124–129. Il Giuliani, nell'esemplare legato al Ch. Poletto, pose appiè di pagina del passo del Purgatorio (XXVI, 58), dove Dante

Ma il fuoco circonda questo abisso circolare di tenebre, le quali nella idea dantesca, non includono, anzi escludono, quella della oscurità assoluta:

Chè la luce divina è penetrante

Per l'universo, secondo ch'è degno,

Sì che nulla le puote essere ostante. (1)

Epperò, il raggio, il colore, la luce sono effetti del lume supremo: Lume non è, se non vien dal sereno

Che non si turba mai; aazi è tenebra,

Od ombra della carne, o suo veneno, (2)

E così leggesi nel Convito : « Filosofia è un amoroso uso di sapienza, il quale massimamente è in Dio, perocchè in Lui è somma sapienza e sommo amore e sommo atto, che non può essere altrove se non in quanto da esso procede.... Oh! nobilissimo ed eccellentissimo cuore che nella sposa dello imperadore del Cielo s'intende! e non solamente sposa, ma suora e figlia dilettissima. » (3)

Per converso le tenebre sono la conseguenza della oscurità morale, cioè del male, e negazione stessa di Cristo, sommo bene e luce quae illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum (4). Ond'è che il Limbo, dove non riluce la grazia, è luogo:

dichiara che faceva il suo viaggio per non esser più cieco, per acquistar cioè la libertà (Purg. I, 71; XXVII, 110) e la seconda vila (Purg. VIII, 60), la seguente nota. « Contro a queste chiare e precise parole cadono tutti i sofismi e i falsi supposti prodotti per ripiegare l'allegoria principale del Poem a sacro, confondendola inoltre col fine di essa allegoria. Questo fine è connesso col fine proprio della Visione, il quale, giusta che Dante ne afferma, si fa per imbarcare esperienza de'vizi umani e del valore, non meno che delle pene e de'premi, onde non essere più cieco e vivere meglio, acquistar la seconda vita, levandosi dalla servitù del peccato alla libertà de'figliuoli di Dio. Dunque il fine del Poema sarà in pro del mondo che mal vive, per ridurlo a stato libero e felice in tranquilla pace. » (Poletto: Dizionario Dantesco, alla voce (CIECO).

(1) Parad. Cant. XXXI, v. 22-24.

(2) Parad. Cant. XIX, v. 64-66.

(3) Convito. Trat. III, Cap. XII

(4) S. Giovanni. Cap. 1, v. 9. E nell'Ep. I, 1, 3: Deus lux est, et tenebrae in eo sunt allae.

Convito Trat. II, Cap. VII.

Non tristo di martíri

Ma di tenebre solo. (1)

La tenebra è l'errore stesso, non solo in quanto è male, consapevole di sè e offesa violenta a Dio, ma in quanto è aberrazione, prodotta da cause involontarie; ed anche è smarrimento di forza visiva, fisica e morale: in conseguenza della eccessiva luce che emana dalla verità teologica, per lo più contemplata troppo direttamente, cosicchè è necessità ammetterla e riconoscerla, pur non potendo determinarne il modo di essere e le peculiarità. Epperò l'Angelo del fraterno amore, a Dante che lo richiedeva di ciò che volle dire Guido del Duca da Brettinoro, risponde che per quanto :

...........Tu rificchi

La mente pure alle cose terrene,

Di vera luce tenebre dispicchi (2)

E vuolsi intendere che, come si dispicca il frutto dall'albero, così tu côgli tenebre di vera luce dalle mistiche fronde della verità celeste, poi che « proprietà del sole è, che l'occhio non può mirare» (3); ond'è che, come dice il Lombardi « vieppiù la mia vera dottrina t'imbroglia la mente. » (4) Epperò, dal labbro stesso dell'Angelo, quanto splendore di teosofismo non emana, discorrendo di siffatta tenebra della luce!

Quell' infinito ed ineffabil bene,

Che lassù è, così corre ad amore,
Com' a lucido corpo raggio viene.
Tanto si dà, quanto trova d'ardore;

Sì che quantunque carità si stende,
Cresce sovr'essa l'eterno valore.

E quanta gente più lassù s'intende,

Più v'è da bene amare, e più vi s'ama;

E, come specchio, l'uno all'altro rende. (5)

(1) Purg. Cant. VII, v. 28-29.

(2) Purg. Cant. XV, v. 64-66.

(3) Convito. II, 14.

(4) La Divina Commedia di Dante Alighieri col Commento di P. B. Lombardi; Vol. II, pag. 326, n. 65-66. Padova, Tip. della Minerva, 1822.

(5) Purg. Cant. XV, v. 67-75.

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