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lingua finalmente perdendo la sua beltà, le sue grazie ed il suo vigore originale, ed il testimonio dei primi padri letteratura nazionale, porrebbe gli autori nel bivio, o di scrivere barbaramente per essere letti, o di scrivere puramente per non essere intesi. Quindi l'ultima corruzione delle lingue.

Ogni lingua ha le sue età come ogni ente che vive cresce ed invecchia, ha le apparenze della propria stagione, come ogni popolo cangia di fogge, di generazione in generazione. Ogni autore adunque conservando il valore della parola, e la fisonomia delle lingue, deve adattar loro le fogge del suo secolo, perchè gli uomini non amano e non cercano, se non ciò che sentono e comprendono; e non sentono e non comprendono, se non ciò che tocca dappresso lo stato di società, di usi e di idioma in cui vivono. Queste fogge consistono più nello stile che nella lingua. (Foscolo, Lezioni di Eloquenza, I).

Il Foscolo dappoi nella medesima lezione discorre, come la lingua è annessa allo stile, e lo stile alle facoltà naturali d'ogni individuo, e conchiude così la prima lezione:

O giovani, fu sempre ed è agevole impresa l'usurparsi titolo di maestri con poco sudore, e l'ostentare al volgo de' letterati e de' grandi certo lusso d' inoperosa dottrina; vano nondimeno ad onta d' ogni ambizione, ed impossibile riescirà, che gli scritti non salutari, nè gloriosi all' umana progenie sieno consacrati dalle postere generazioni sull'altare dell' immortalità. Chi adempie a tutt'i doveri dell'arte sua, si ch'egli sia riputato di ornamento e di vantaggio a' suoi concittadini, quei sale si alto, che l'occhio dell'invidia non giunge a malignarlo; quei solamente può sacrificare con religione al proprio genio nel santuario dell'arte, senza l' infelice bisogno di profanarla nei convitti delle Accademie, ove il timore e la vanità profondono scambievoli panegirici; nè di prostituirle agli altari della

possanza e della ricchezza, le quali spesso coronano d'oro gli scienziati e gli artefici, ma del lauro immortale non mai. »

VI.

Un parere di Mazzini sul Volgare Eloquio.

Non sarà discaro leggere anche ciò che pensava il sommo rivoluzionario Giuseppe Mazzini della lingua italiana. Ed io espongo qui poche sue parole sull'amor patrio di Dante: «Con tal mente fu da lui concepito il trattato del Volgare Eloquio, che concitò in questi ultimi tempi lo spirito irritabile dei letterati italiani a controversie più argute forse che utili. In questo egli s'erge luminosamente al di sopra di quella torma di grammatici, che fanno intisichire la lingua per volerla costringere nelle fasce della sua infanzia; dimostra la vera favella italiana non essere tosca, lombarda o d'altra provincia; ma una sola, e di tutta la terra, Ch' Appennin parte, e il mar circonda e l'Alpe, insegnando a' suoi coetanei, come questo idioma illustre, fondamentale non aveva alcun limite, ma si facea bello di ciò ch' era migliore in ogni dialetto; egli cercava di soffocare ogni contesa di primato in fatto di lingua nelle varie provincie, e insinuava l'alta massima, che nella comunione reciproca delle idee stà gran parte dei progressi dello spirito umano. Siffatti pensieri ebbero da lui più ampio sviluppo nel suo Convito, dov' egli si pronunzia con entusiasmo campione della favella italiana volgare, e predica a questa verginella modesta, ch'egli educava a più nobili fati, glorie e trionfi sull'idioma latino, ch' era ormai sole al tramonto. Egli si mostra, come fu notato da uno scrittore, ben più altero della nobiltà, e dell'efficacia della sua lingua, che del merito dei proprii versi. » (Scritti editi ed inediti di Mazzini, Milano 1862, V. II. p. 34).

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Il Gioberti accorda il primato della nostra lingua alle due città più classiche d'Italia, che sono Roma e Firenze. Discorrendo come l'Italia sia principe nella lingua egli scrive cosi: «La lingua comune, popolana, naturale, che serve ad esprimere i pensieri e gli affetti comuni a tutti gli uomini, si vuol pigliare dai soli luoghi, dov' essa è viva e parlata da tutti; quando invece quella parte del linguaggio che si riferisce solamente al pensiero scientifico, ed esprime, dirò così, la riflessione, non di ogni uomo, ma dei dotti solamente, ed abbraccia i termini dottrinali e l'erudizione dello stile, oltre ai libri che ne sono la fonte principale, è universale nelle classi colte di tutta la penisola, e come per tutte le città italiane, benchè in niuna riposi. Or l'italica lingua non è viva e popolana, che in Firenze e in Roma colle loro pendici, ed è nativa soltanto della prima di queste due città. Nè dia ad alcuno maraviglia, che quando la cuna della favella è unica (ed è sempre tale) il centro e seggio di essa sia doppio; imperocchè il perfetto parlare e il perfetto scrivere constano di due spezie di elementi, l'uno particolare, municipale, privato, dimestico, alla mano, l' altro comune, nazionale, pubblico, esquisito, magnifico. Dall' armonico accozzamento di queste varie parti nascono la vita e la perfezione dello stile; giacchè la vita e l'eccellenza in ogni specie di organismo consistono nell' uno e nel molteplice, nell' identico e nel vario, nel generale e nell' individuale insieme composti e contemperati. Ora di queste due sorta di componenti, per ciò che spetta alla lingua italiana, la prima risiede in Firenze, e la seconda principalmente in Roma; quella metropoli poetica e letteraria d'Italia, e sedia del vero idioma volgare nel senso onorato di tal parola; questa

capitale civile e religiosa della penisola, e albergo segnalato di quella favella, che fu chiamata da alcuni scrittori cortigiana, aulica, illustre. Ma benchè la città gentile e la città santa concorrono insieme a formare il comune linguaggio, la parte ch'esse vi hanno non è eguale, perchè la sostanza dell'idioma, le voci, le frasi, le proprietà, le movenze più vitali dello stile, sono toscane, e provengono donde esso idioma ebbe il suo nascimento. Roma non contribuisce a quest' opera, che dando allo stile quel colore più universale e quell' andamento più largo, che risplende nei crocchi tiberini, viva effigie di quell' elegante corte urbinata del secolo sedicesimo, che venne dipinta dal Castiglione. » (Del Primato morale e civile degli Italiani).

Ma ora il centro, il seggio principale, superiore della nostra lingua, dev'essere Roma, sede e centro naturale della penisola. Roma è il verbum italicum per eccellenza. Roma è il tempio dell' umanità, la religione dell'anima, l'idea madre del mondo morale e sociale. Roma, nella guisa che forma l'unità morale di Europa, l'unità religiosa del mondo, forma anche l'unità della gran patria italiana, nel triplice riguardo, filologico cioè della lingua, politico cioè dello Stato, religioso cioè della Chiesa. In Roma è il centro naturale della favella italiana. Roma è il simbolo del pensiero italiano, l' apostolato supremo dell'idioma nazionale, il palladio del classicismo antico e moderno della lingua. Roma è destinata dalla Provvidenza a compiere grandi cose per la salute dell' Italia e del mondo, per la religione e la civiltà, per la giustizia e l'umanità nell' equilibrio dei supremi principii.

VIII.

Scopo de' mici studi filologiei, e conclusione.

Io mi sono sforzato dimostrare, che la lingua italiana è nata dai dialetti antichi e moderni d'Italia; e però a questi, più che alle lingue straniere attingere bisogna; l'uso d'un vocabolo nostrale, ancorchè del dialetto, è da preferirsi al vocabolo forestiero. Imperocchè, il dialetto è veramente originale, proprio, indigeno, autoctono, territoriale, ed esprime indipendenza; mentre l'eloquio straniero è sempre imitativo, pedisseguo, e porta l'impronta del servaggio. L'unità, la libertà, l'indipendenza sono i primi e maggiori requisiti d'una lingua, sono le basi per cui la lingua diviene classica, e vive eterna ed immortale attraverso i secoli. Così vivono e vivranno il greco e il latino, espressione di due popoli e società famosi al mondo per la loro unità, la loro libertà, la loro indipendenza. Poi caddero i Greci e i Romani, non ebbero più imperio politico; ma la loro lingua è rimasta e vive e vivrà, monumento imperituro di classicità e di autorità e di gloria.

Questo ho voluto io dimostrare. Forse non mi sono spiegato bene, non ho pienamente ragionato il mio tema; ma ho avuto il buon volere, se non la piena intelligenza. Ho manifestata una opinione nuova, la quale era stata appena delibata da altri filologi; io l ho presentata piena, nella sua integrità, vigore e sostanza; l'ho messa in evidenza con documenti, con autorità, con citazioni, con classici, con esempi, con argomenti propri, convincenti, innegabili. A tal punto potrebbe dirsi, che io abbia fatta una scoperta nel campo filologico. Ma io non intendo farmi merito di ciò. Sono concorso con gli altri, ho studiato, ho ricercato, ho meditato sopra queste ed altre cose; e sono venuto nel pieno convincimento, che la lingua italiana sia nata dai dialetti italici antichi e moderni. Epperò, non bi

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