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Il Paris adunque studiò queste rubriche, e seppe trarne quel maggior frutto che esse potevano dare. Egli scorse assai bene come il prosatore italiano seguitasse il poema di Nicola, e muovendo specialmente di qui fece primo avvertire un fatto di capitale importanza, e che quasi può dirsi chiave della nostra letteratura cavalleresca: dimostrò cioè che nelle composizioni franco-italiane si deve cercare l'anello di congiunzione tra gli antichi poemi francesi e i nuovi romanzi nati in tanta copia sulle rive dell' Arno nei secoli XIV e XV (1). Egli credette ancora di veder qui la riprova di un' opinione da lui già sostenuta con altri argomenti, che cioè la Prise de Pampelune, poema ancor esso dell' età franco-italiana, e del quale si è perduto il principio, altro non sia fuorchè un frammento della parte smarrita, e forse irreparabilmente, dell' opera di Nicola. Qui per verità, sebbene mettesse pienamente in chiaro come l'Entrée e la Prise siano congiunte da strettissimi legami, come i caratteri, quelli persino dei personaggi di nuova invenzione, vi siano i medesimi, e come in somma la seconda continui i casi narrati nella prima, egli andò forse troppo oltre. Però ebbe contradditore non solo il Gautier, ma il Meyer stesso (2), del quale ognuno sa quanto sia l'acume critico. A me non si conviene per ora d' impigliarmi in siffatta quistione, che mi farebbe troppo divagare dal mio proposito; solo ho dovuto darne questo cenno, necessario alla piena conoscenza del nostro argomento. Chè, non solo il Paris afferma avere il prosatore tolto da Nicola la sua materia per tutta quella parte

mancano manoscritti, e migliori e più antichi assai dello smarrito. Pare che il dotto editore non abbia avvertito che il romanzo si divide in tre libri, poichè dal principio alla fine prosegue una sola numerazione.

(1) Questo fatto non è si generale, che non patisca parecchie eccezioni: ma ciò non toglie nulla al merito del Paris.

(2) Recherches, etc.

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che noi possiamo, attenendoci all'uso fatto di questa designazione dal Padovano, chiamare l'Entrée, ma altresì per la narrazione della battaglia di Roncisvalle. Qui io credo che egli erri, e mi è grato il potere, grazie a un fortunato ritrovamento, aggiungere nuove notizie e nuovi fatti a quelli posti da lui in così bella luce.

La perdita della Spagna in prosa non è per buona sorte irreparabile. Da più che due anni mi riusci di rinvenirne un esemplare, peggiore certo del romano quanto a lezione, ma forse qualche poco più antico, e ad ogni modo più che sufficiente alla compiuta cognizione di questa parte del nostro soggetto. Il manoscritto appartenne già allo Stradino, e costituisce la terza parte del codice Med. Palat. CI (1). Esso è un inelegante volume in f.° piccolo, di 281 carte ⚫ non numerate, scritto, per quanto pare, alla fine del secolo XV. Non v' hanno rubriche, nè sono numerati i capitoli; anzi di questi, come assai spesso accade nei manoscritti del quattrocento, mancano le iniziali maiuscole, che dovevansi aggiungere in rosso o in azzurro. La perdita di qualche carta dopo la 280 ci ha tolto la fine del romanzo in prosa e il principio di una breve composizione in ottava rima della quale rimangono dieci sole stanze. Sul recto del secondo foglio, sotto la data 4 Settembre 1517, si leggono d'altra mano queste parole, scritte, secondo appare da altre che si leggono sul verso,, da un cotal Giovanni Nasi negoziante, che aveva avuto in prestito il libro dallo Stradino, e che nel giorno indicato di sopra ne aveva compiuto la lettura: Questo libro si ciama la spagna vera e non

(1) Sotto questa designazione si trovano accozzati quattro volumi, i quali nè per la scrittura, nè per il sesto non hanno che fare insieme, e solo si assomigliano in ciò, che tutti appartennero allo Stradino e contengono romanzi cavallereschi. Se ne può vedere un breve cenno nel Catalogo del Bandini, Supplem. Vol. III, col. 295-6.

bugiarda co e quella in stanze copiata dalla origine di quella che scripse larciveschovo turpino tradutta di linghua franzese in linghua taliana per uno valente homo el nome del quale per adesso si cela ede di (1) giovanni vochato Stradino, etc.

Qual parte di vero sia in queste parole e donde abbiano avuto origine, lo vedremo or ora; intanto per compiere la descrizione del codice dirò che la lezione è scorrettissima, e sopratutto l'ortografia è trascurata si stranamente, che quasi neppure una linea si potrebbe pubblicare senza qualche mutazione (2). Ma sotto questa scoria chi ben consideri potrà trovare una lingua e uno stile, ineleganti certo e indegni di lode, ma pure tali da chiarire toscano l'autore. Il quale del resto ci è dimostrato non lombardo anche da un passo, in cui per far partecipi della gloria acquistata da Desiderio e dai suoi nella Spagna anche i proprii concittadini senza venir meno alla fedeltà, dice che Carlo e la sua gente si muovono per vedere la giente che menava lo re Disidero taliana, benchè in Francia tutti gl' italiani sono chiamati lombardi.» (f.° 224 v.o).

Cosi adunque io potrò studiare questo testo più compiutamente che non siasi fatto fino a qui; ma della parte che corrisponde all'Entrée e alla Prise non dirò se non quel tanto che la stretta necessità richiede. Che il prosatore attingesse direttamente al poema di Nicola, è cosa che il paragone dei due testi non fa che rendere di chiara evi

(1) Il Bandini ha omesso questo di, che pur si legge chiaro nel codice, cagionando così in chi legge l'erronea credenza che lo Stradino sia, o almeno si spacci per il traduttore, e che solo per ghiribizzo si mostri prima di voler tener celato il nome di colui che scrisse il libro.

(2) Ad es. si raddoppiano senza alcuna ragione e fuori d'ogni costume dei mss. certe lettere, scrivendo menatta, isposatta, missericordia, potteva, inttesta, etc.

dente. Ma poi sarebbe errore il credere col Paris che la prosa sia stata fonte alla Spagna in rima. Non solo l'uno e l'altro testo emanano direttamente dal poema francoitaliano, ma ancora la rima è più antica della prosa. Non è già questa una mia opinione, sì una cosa al tutto certa: è il prosatore stesso che ce lo attesta, mentre in più e più luoghi cita la rima e l'afferma ripiena di falsità, richiamandosi per confutarla all'autorità di quello che egli chiama Turpino francioso, e nel quale noi ravvisiamo con sicurezza il nostro Nicola da Padova, o a dir meglio l'opera sua. E per verità il nome di Turpino francese non isconveniva a costui, che nel principio della composizione aveva affermato, non solo di trarre profitto dalla cronaca del buon arcivescovo, ma ancora di essere stato mosso a scrivere da lui medesimo, apparsogli in visione. Davvero non v' ha cosa più curiosa di questa critica a cui il prosatore sottopone la rima, non tanto in nome della fede dovuta al suo Turpino, quanto in quello della verisimiglianza storica. Le armi incantate, le fatagioni di certi personaggi, gli danno noia, ed egli gongola se può opporre al rimatore la testimonianza del suo testo. Sopratutto poi lo prende a perseguitare perchè, rimutando la narrazione dell' Entrée, fa che Orlando e Ferraù combattano sopra di un ponte, e più ancora perchè narra che Orlando s' impadronisse per istratagemma della forte città del pagano, vestendo le armi e le insegne di lui dopo averlo ucciso: « Or chome s' arebbe potuto mettere l'arme di Feraù, che Feraù era giogante, e grande e grosso dua cotanti che Orlando, che a Feraù non sarebbono istate buone l' une, nè a l'altro, nè potute intrare indosso? e poi a la grandezza la madre l'arebbe riconosciuto; nè nesuno cavallo si trovò mai che potesse portare Feraù armato, se none el suo: come arebbe il cavallo d' Orlando potuto portare l'uno e l'altro a uno tratto? Or queste e molte altre si pruovano da loro me

desime essere bugie e cose impossibile a potere essere, e però si denno lasciare andare e attenersi al libro francioso, dove l'arcivescovo Turpino iscrive la verità, che tutto vide, e fu presente.» S'avverta bene che il libro della Spagna scritto in rima, questa è la denominazione più volte usata dal nostro buon prosatore - non é già una versione perduta, si quella precisamente che tante volte fu ristampata nel secolo XV e XVI, e della quale avremo tra non molto a occuparci. Ma questo non basta già a darci il diritto di tenere il poema per opera assai antica: l'essere anteriore alla prosa non vuol dir molto, poichè questa è opera che ben possiamo dire recente. A tacere infatti di altri dati che si raccoglieranno via via, noto qui che oltre all' essere posteriore alla versione rimata, essa lo è pure alla seconda Spagna, romanzo che non affermerei certo composto nel secolo XIV (1): chè in uno degli ultimi capitoli, parlando di Marsilio, l'autore della prosa afferma, che dopo la disfatta inflittagli da Carlo egli visse ancora <«< quattordici anni, e fecie di grandissime guerre, come si truova iscritto per lo libro de la Siconda Ispagnia. » Così anche per questo lato, sia detto incidentalmente, cade l'ipotesi del Paris, già insostenibile per altre ragioni, che i Reali abbracciassero originariamente, non solo i sei libri che conservano tuttodi questo nome, sibbene ancora l'Aspramonte, la Spagna, la Seconda Spagna, e forse ancora altri romanzi. (2)

Quanto io sono venuto or ora dicendo circa la guerra che in nome del Turpino francioso il prosatore muove alla rima, sembrerà confermare mirabilmente il pensiero del Paris, che in tutta questa versione altro non siasi fatto

(1) Credetti cascar dalle nubi quando vidi esserci chi crede di poter assegnare questo e un altro romanzo consimile al principio del secolo XIII. (2) Paris, H. P., 180 seg.

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