(1) Nelle pallide torme; onde sonaro Di sconsolato grido L'alto sen dell' Eufrate e il servo lido. Le riposte faville? e che del fioco Son l' Da poi che Febo instiga, altro che giuoco Natura stessa: e là dove l' insano Negli ozi oscuri e nudi Mutò la gente i gloriosi studi. Tempo forse verrà ch' alle ruine Insultino gli armenti, e che l' aratro Dal rimembrar delle passate imprese. Chiaro per lei stato saresti-allora Beata allor che ne' perigli avvolta, Spinto al varco leteo, più grata riede. VI. BRUTO MINORE Poi che divelta, nella tracia (5) polve L'italica virtute, onde alle valli A spezzar le romane inclite mura Sudato, e molle di fraterno sangue, E di feroci note Invan la sonnolenta aura percote. Stolta virtù, le cave nebbie, i campi Son le tue scole, e ti si volge a tergo A cui templi chiedeste, e frodolenta Dunque tanto i celesti odii commove Certa mori / Carta già di moire Monti Band I calpestio Di cavalli e di fanti La terrena pietà ? dunque degli empi Siedi, Giove, a tutela ? e quando esulta Il tuon rapido spingi, Ne' giusti e pii la sacra fiamma stringi? Preme il destino invitto e la ferrata Necessità gl'infermi Schiavi di morte: e se a cessar non vale Si consola il plebeo. Men duro è il male Guerra mortale, eterna, o fato indegno, Di cedere inesperto; e la tiranna (1) Tua destra, allor che vincitrice il grava; Indomito scrollando si pompeggia, Quando nell' alto lato L'amaro ferro intride, E maligno alle nere ombre sorride. Tanto valor ne'molli eterni petti. Ma libera ne'boschi e pura etade Reina un tempo e Diva. Or poi ch'a terra E il viver macro ad altre leggi addisse; Virile alma ricusa, Riede natura, e il non suo dardo accusa? Di colpa ignare e de'lor propri danni Le fortunate belve Serena adduce al non previsto passo Al misero desio nulla contesa O tenebroso ingegno. A voi, fra quante Figli di Prometeo, la vita increbbe; Se il fato ignavo pende, Soli, o miseri, a voi Giove contende. E tu dal mar cui nostro sangue irriga, E l'inquieta notte e la funesta, Tu sì placida sei? Tu la nascente Sotto barbaro piede Ritornerà quella solinga sede. Ecco tra nudi sassi o in verde ramo E la fera e l'augello, Del consueto obblio gravido il petto, L'alta ruina ignora e le mutate Sorti del mondo: e come prima il tetto Al mattutino canto Quel desterà le valli, e per le balze Agiterà delle minori belve. Oh casi! oh gener vano! abbietta parte Turbò nostra sciagura, Nè scolorò le stelle umana cura. Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi Regi, o la terra indegna, (3) 13) E non la notte moribondo appello; L'onor d'egregie menti e la suprema Tratti l'ignota spoglia; E l'aura il nome e la memoria accoglia. VII. ALLA PRIMAVERA Aive. lie I T O DELLE FAVOLE ANTICHE. Perchè i celesti danni We Ristori il sole," e perchè l'aure inferme •(2) Zefiro avvivi, onde fugata e sparta Delle nubi la grave ombra s'avvalla; Gli augelli al vento, e la diurna luce |