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vizj, resi ivi come indigeni e perpetui, fecero della misera republica un campo di discordie e di miserie, che Dante vivamente dipinse nel Canto VI del Purgatorio. Gli storici guelfi medesimi di quel tempo ne fan lamenti pari a questi : "Quest' avversità e pericoli della città nostra fu per molti peccati commessi, per la superbia, invidia ed avarizia de' nostri cittadini." (Gio. Villani, lib. viii. cap. 68.) "Per le peccata della superbia, invidia ed avarizia erano partiti a setta." (ivi, cap. 96, sotto l'anno 1310.) Onde il poeta fa dal suo maestro chiamare la cittadinanza fiorentina "Gente avara, invidiosa e superba." (Inf. xv.) E nell' incontrare frai golosi quel famosissimo crapulone di Ciacco gli domandò: Qual è la cagione che rende sì discordi fra loro i nostri cittadini ? e fè rispondersi :

Superbia, Invidia ed Avarizia sono

Le tre faville ch' hanno i cuori accesi.-Inf. vi. Ei scelse forse quell' ubriaco a spiegargli ciò, perchè in vino veritas. Nè fè una tal domanda a caso: ei preparavasi in quel picciolo germe un grande sviluppo nel seguito dell' allegoria, e tre soli canti dopo.

Il Boccaccio scrive egualmente di Firenze: "Avvegnachè Tesifone con seminate zizzanie più volte siasi opposta alla sua salute...sotto legge plebea...presta si vede a maggiori cose, se l'ardente Invidia e la rapace Avarizia con l' intollerabile Superbia, che in lei regnano, non la impediscono a." Ma oh quanto l'impedirono al tempo di Dante! Quelle tre faville ch'ei disse produssero orribili incendi, che resero Firenze la vera città del foco; onde il Boccaccio finse colà non pur Tesifone, e con essa le altre furie ', ma anche Vulcano con le sue spaventevoli fiamme . E città piena di diavoli la immaginò più tardi il Machiavelli, dai quali fè dire ai Fiorentini :

Già fummo, or non siam più, spirti beati,

Per la superbia nostra,

Dall'alto e sommo ciel tutti scacciati ;

E in questa città vostra

Abbiam preso il governo,

Perchè qui si dimostra

Confusione e duol, più che in Inferno “.

Così Firenze travagliava mentre il suo Alighieri, or suo

a Commedia delle Ninfe Fiorentine, o sia, Ninfale di Ameto, p. 135, Firenze, 1723.

b Di Tesifone, principale delle Erinni, scrisse Virgilio: Vocat agmina sæva sororum; dov'ella va chiama l'altre.

• Loco cit.

Ediz. de' Classici, di Milano, vol. viii. p. 407.

vanto e suo lume, mandato in esilio perpetuo, e condannato anche al fuoco, acceso da quelle tre faville, ramingo e mendico si aggirava per l'Italia, scorgendo ruine da per tutto, sotto l'influenza di quel capo ch'era detto e creduto Satanno; il quale per ambizione politica si opponeva a quella salutar riunione che avrebbe potuto cangiar l' Inferno in Paradiso terrestre. Udimmo già da Leone Ebreo che i poeti chiamavano Inferno l'Italia; udimmo come il Boccaccio con l'allegoria del Tempo corrotto c'indicò che Dante dipinse il suo vagar affannoso per l' Italia nel suo pellegrinaggio all' Inferno, perchè i condannati in esilio in Italia eran creduti che fossero nell' Infernoa. Ed altrove, parlando della orrenda Dite, così si esprime: "In questa città dell' ostinato Inferno il nostro Dante descrive i tormenti di quelli che non hanno avuta nessuna carità verso il prossimo, nè amor verso Dio "." Il che è falso, poichè Dante pose entro quella città infernale gli eresiarchi, e non quelli che il Boccaccio dice, il quale finse di sbagliare, ma non a caso. Quel cenno assai diceva in que' tempi ne' quali leggevasi la sentenza dell' Imperadore Arrigo contro i Fiorentini, che chiusero ostinati le porte della loro città ed a lui ed ai concittadini loro, suoi partigiani, senza nessuna carità verso il prossimo, nè amor verso Dio; nella qual sentenza i Fiorentini Guelfi che ciò fecero son chiamati superbi figliuoli ed eredi di Lucifero―ostinati figliuoli della superbia―spregiatori dell'eredità di Cristo, ch'è la pace, e deviati dalla CARITA' DE' PROSSIMI LORO.

Pellegrinava Dante per la lacerata Italia, quando quell' ottimo Arrigo di Lucemburgo prese la bacchetta imperiale, così dicevasi lo scettro del Romano Impero. Il pietoso Cesare, come fosse un angelo di Dio, scese poco dopo nella tempestosa Italia per abbonacciarla, e rimetter gli espulsi nelle patrie loro; onde la speranza di rientrare in Firenze rinacque in Dante. Udremo altrove qual fu la sua gioja a tal nuova; e com' ei scrisse all' Imperadore, e com' ei scrisse all' Italia tutta, ed ai principi, ed alle republiche, ed ai popoli; e com' ei sperava veder finito il suo esilio in Babilonia, e rientrare in pace e letizia in Gerusalemme;

a Vedi pag. 78, cap. iv.

↳ Genealog. lib. viii. art. Plutone.

C

e

Vedi la sentenza nel tom. x. delle Delizie degli eruditi Toscani.

O fior d'ogni città, donna del mondo

Ora sei senza l'imperial bacchetta..

...

Di sangue sparso di figliuol di Lupa,

Tu fosti cagion prima a tanti mali.-Boccac, canz, a Roma.

Espressione dello storico coevo Dino Compagni.

e com'ei scrisse di essere andato giojoso incontro allo sposo d'Italia e di Roma, e di esservi andato con Virgilio, cantando Jam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna; al pari che andò con Virgilio incontro a Beatrice nel Paradiso terrestre, ch' ei dichiara figurato nel regno di Saturno. Udremo finalmente com' ei confortava altrui a cantare pentito del Guelfismo, nel Salterio della penitenza ; e come, quel Salterio alla circostanza adattando, esprimeva la edificazione della Nuova Gerusalemme, e tutt'i re e i popoli intorno al capo loro, Cœlum novum et Terram novam.

Tutte le città d'Italia accolsero giojose il nuovo Augusto, e Firenze medesima era disposta a far lo stesso; ma poi i Neri che vi predominavano, temendo la rientrata de' Bianchi, destarono sospetto e tumulto, e risolsero chiudergli le porte; furie subitanee eccitate ed insorte, come si disse, per segrete insinuazioni del Papa, stimolato dal re di Francia; ed allora più che mai il Leone era alla Lupa ammogliato; onde lo stesso vescovo di Firenze con tutto il suo clero si preparò alla resistenza. Giunse a tal punto l'oltracotanza de' Fiorentini, che, essendo colà giunti due inviati imperiali a proporre il rimpatriare de' banditi, udita appena la proposizione, gli scacciarono a furia dalle porte di Firenze, e non vollero più ascoltarli; e i poveri esuli che ciò riseppero temettero non tornarvi mai più. Quindi que' turbulenti, a ritardare il corso di Arrigo, ed acquistar tempo a fortificarsi, fecero con segreti maneggi ribellare varie città di Lombardia, e fra l'altre Brescia, la quale, posto sulle sue porte stemma guelfesco, si chiuse e fè resistenza ostinatissima a Lunga remora offerse quella città al progresso del valoroso Cesare, e invano Dante nella sua impazienza gli scrivea di non rimanersi in Lombardia, ma di correre a dirittura a Firenze, vera sorgente del male. Finalmente Brescia cedè alle strette, e il vincitore per castigo ne lasciò le mura senza quelle porte ov'era l'arme con la scritta guelfesca. Dopo varie vicende, che portarono molta perdita di tempo, scese finalmente in Toscana; ma con un lento veleno di mal' aria nel sangue, respirato ne' luoghi paludosi degli assedj; e Dante corse tosto ad inchinarlo presso Firenze, ove teneasi tutto pronto per rientrare. Avea la città di Avea la città di qua dall' Arno il castello dell'Ancisa, e torri assaissime intorno alle sue

a

"I Fiorentini... superbi figliuoli ed eredi di Lucifero...la città di Brescia confortarono e fomentarono a stare ostinata, e a mantenersi nella detta ribellione a dispetto del nostro Impero."-Parole della sentenza di Arrigo contro i Fiorentini.

b Vedi la lett. di Dante ad Arrigo.

mura; e soleasi di notte con segni di fuoco dar avvisi telegrafici, dal castello ch'era sul fiume a que' ch' eran sulle mura della città. Arrigo arrivò appunto di notte; e dopo aver gittato morto alcun centinajo di oppositori sul fiume, mise gli altri in fuga per quelle acque, e varcatele arrivò innanzi a Firenze. I ribelli, che non l' attendevano sì tosto, "Erano sì smarriti per tema della loro cavalleria, ch' era rimasta all' Ancisa, quasi come sconfitta, che se l' Imperadore fosse corso alle porte le trovava aperte e mal guernite, e per li più si crede che avrebbe presa la città." (Gio. Vill. lib. ix. cap. 46.) Il mal avvisato Cesare che quasi toccò quelle porte, in vece di dar l'assalto, pose l'assedio. Dopo alquanto tempo, languendo pel crescente suo male, si tornò indietro, senza poter entrare nella contumace città, che restò in preda a que' tre vizj laceratori. Città che detta dagli antichi La picciola Roma, e figlia e immagine di Roma, tale si mostrò, che Dante, alla madre paragonandola, le gridava: Eleggi omai se la fraterna pace

Fa più per te, o star Lupa rapace .

Vane insinuazioni! Quella era non solamente Lupa, ma una pianta assai fruttifera per colui che si nutriva così saporosamente dei ribelli dei Cesare. E tardi il povero poeta se ne accorse, onde introdusse uno spirito a dirgli :

La tua città che di colui è pianta

Che pria volse le spalle al suo fattore,
E di cui l'invidia è tanto pianta,

Produce e spande il maladetto fiore,

Ch' ha disviate le pecore e gli agni,

Perchè ha fatto Lupo del Pastore.-Parad. vi.

Quella pianta produceva assai fiori a Satanno, in due sensi, cioè Fiorini e Fiorentini; e in ambi i significati trovasi la parola fiore negli scrittori di quella età, e fra gli altri in Dante. Vedremo tosto un vento impetuoso portar via i fiori neri di questa pianta di Lucifero; e, nel persuaderci che questa pianta è Firenze devota al Papa, capiremo anche più chi è Lucifero. Udita la storia che ritrovasi stabilita su moltiplici testimonianze di scrittori, quasi tutti sincronid, passiamo all' appli

a Vedi Gio. Villani circa siffatte torri in gran quantità e numero, lib. v. cap. 9; e vedine anche sotto la data del 1303, un anno dopo l'esilio di Dante. b In quella canzone "O patria degna," dove immagina dentro Firenze varj di que'dannati che pose nell'Inferno.

Il Fiorino era detto Fiore a cagione che un fiore vi era realmente impresso, e Fiore era detto anche ogni figlio di Flora; onde Dante considerò quelli de' due partiti quai fiori bianchi e neri, come udremo. Quando poi Fiorenza fu tutta piena di Neri Papali divenne per Dante pianta di fiori neri, pianta di Lucifero.

d Vedi il mio Comento Analitico, che ne reca abbastanza.

cazione di essa al poema, e vediamo se Dante ha mentito nel dirci ch' ei trattò allegoricamente di questo Inferno; e se Boccaccio ha senza ragione posto Tesifone, che chiama l'altre furie, entro Firenze; e Vulcano con esse, per dirla città del fuoco; vediamo se ci ha ingannati nell' asserire che Dante pose dentro la città dell' ostinato Inferno coloro che non ebbero nessuna carità verso il prossimo, e se essi son diversi dai diavoli del Machiavelli. Chi farà il confronto de' canti, che stiamo per esaminare, coi passaggi storici, che con parsimonia andremo citando, si metterà nel caso di giudicare da sè stesso della verità.

Nel Canto VIII dell' Inferno, Dante guidato da Virgilio giunge alla riva del fiume Stige, che cinge la città di Dite, come una fossata d'acque cinge una città fortificata. Un castello ch'è sulla sponda esterna del fiume fa un segno di fiamma, ed una torre ch'è sulle mura della città risponde al segno con altra fiamma. Un demonio furioso, correndo come una saetta incontro a Dante, quasi sapesse ch' ei debba colà arrivare, viene gridando: "Or sei giunto, anima fella! "— Dopo ciò i due viaggiatori si accostano verso la città, la quale è detta città del fuoco, o città rossa a ; e mentre su d'una barca attraversano la palude, la quale è piena di gente furiosa che si lacera a vicenda, uno spirito rabbioso ne salta fuori, e grida a Dante "Chi sei tu che vieni anzi ora?" E Dante a lui: Spirito maledetto, io ti conosco, ancorchè si tutto lordo; e quello spirito maledetto che ha riconosciuto è da lui chiamato, "LO FIORENTINO SPIRITO bizzarro, che in sè medesmo si volgea co' denti." Dante maledisse e Virgilio respinse lo fiorentino spirito; e il duca applaudì e abbracciò e baciò il seguace suo, lodandone il nobil disdegno.

e la

Si avvicinano all' alte fosse che vallan quella terra sconsolata, veggono cinta di torri rosse. Più di mille diavoli ne guardano le porte, i quali, accortisi che Dante è vivo, gridano stizzosamente: "Chi è costui che senza morte va per della morta gente?" Virgilio fa segno di voler lor parlar segretamente, e quei gli dicono, Vieni tu solo, e quei sen vada ©.

a Il color rosso era il color distintivo de' Guelfi.

lo

regno

Dante giunse in Toscana prima di Arrigo, e di là gli datò la lettera, sotto la fonte dell'Arno, pregandolo a correr tosto dalla Lombardia a Firenze, per assaltarla e punirla.

"I Fiorentini ordinarono mandargli una ricca imbasciata (ad Arrigo per invitarlo ad andare colà), ma per certi grandi Guelfi di Firenze si sturbò l'andata, temendo che sotto inganno di pace lo Imperadore non rimettesse li usciti Ghibellini in Firenze; e di questo si prese il sospetto, e in appresso lo sdegno...e li usciti ne avieno grande temenza."—Gio. Vill. lib. IX, cap. 8.

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