Sayfadaki görseller
PDF
ePub

il poeta finisce coll' augurarsi il martirio:

O precor in te configar, si magna precari
Mi datur, et tantum promeruisse licet.
O utinam ad truncum moriar, sub stipte condar.
Tu Mausoleum, tu mihi Pyramides.

L'idea dell'albero costituisce il motivo predominante dell'elegia, ma non il solo: vi s'intrecciano motivetti secondarii, sicchè la croce cessa per qualche istante di esser albero per diventare ora un altare:

Ara, ubi caelestis mactata est victima,

ora un'arca

ubi servatum est. . . . . .

mortalis seminis omne genus,

ora vexillum coeli ed ora finalmente un trofeo, clarum trophaeum

Elatum forti celsa sub Astra manu.

Nè il Poeta manca di mescolare al sacro un tantino di profano, al Cristianesimo qualche stilla di paganesimo: simile ad un uomo rinsavito che, in un momento di nausea o di sdegno abbia rinunziato ad un colpevole amore, e che intanto, nel seno stesso della madre o della casta moglie trova modo di nominare, col pretesto di vilipenderla, la sua antica amante, così il Rota sa coglier l'occasione di parlar del Tenario Dite e delle Muse e dell' alloro:

Nil mihi cum Musis posthac, tu Musa vel una es.
Nil mihi cum lauru, tu mihi laurus eris.

E il sentimento religioso dov è? c'è, senza dubbio, della sincerità nel voto finale del Poeta, c'è dell'effu

sione, almeno allo stato di semplice conato, ma la metafora uccide il sentimento nell'atto stesso della sua manifestazione: simile a una madre snaturata che uccide il germe che portava nel seno.

L' epigramma intorno alla Natività di Cristo non è senza un certo lirismo, ma soltanto un lirismo che direi esteriore, dovuto cioè alla esuberanza sonora della forma e non all' essenza del contenuto :

Nascere sancte puer nocte hac, qua purior unquam
Non fulsit rutilis Lucifer ipse comis.

Te nato occumbit letum, dirumque, malumque.
Pravaque relligio, solicitusque timor.

Te nato nova vita oritur, rectumque, piumque,
Et lougo exilio spesque, salusque redit.

Magne puer, quem regna manent terraeque polique,
Quem manet evicti debita palma Erebi,

Nascere dumque, micat nox haec nitidissima, numquam.
Affer ab Eoo litore Phoebe diem. (. 3:)

Si sente fin troppo il secentismo sonoro, anzi, chiassoso, magniloquente, abbondante tanto più nella forma quanto più è povero nel contenuto: c'è della maestà, non v' ha dubbio, in questo divino fanciullo, alla cui nascita, muore la morte ed il male: ma la maestà diventa stucchevole per voler essere troppo a lungo sostenuta, e senza rapidità non c'è sublime: s'immagini il cenno di Giove descritto in venti versi e sostituite al traballar dell'Olimpo tutte le particolarità anche strettamente inerenti al traballamento, e il sublime se ne va: si provi a descrivere il Farinata un po' più a lungo che non nella mirabile e solenne rapidità Dantesca e svanirà quasi la sua quasi tremenda maestà. Nell' epigramma del Rota il concetto viene esaurito sino a una stucchevole sazietà: muore il peccato, il male, la falsa religione, il sollecito timore, nasce la nuova vita, il giusto, il santo, ritorna dal lungo esilio la speranza e la salute;

la maestà sintetica vien cosi soffocata in troppi particolari, e l'espressione unica di un contenuto ricco nella sua stessa semplicità si frantuma in piccolezze atomiche. La chiusa poi è miseramente infelicissima e assurda: nello stesso verso in cui si esclama al divino infante: Nasci ! si osa pregar Febo, e di che cosa? di null'altro che di astenersi dal portare il giorno sinchè durerà la notte. Via! era già grave sconcezza parlar contemporaneamente a Cristo e ad Apollo; ma commessa la sconcezza, si poteva incomodar quest'ultimo signore per qualche ragione più seria che per non fare spuntare il sole di notte.

Assolutamente gretto e povero è l' epigramma alla Vergine; mentre il carro, emblema della vita umana, va in sfacelo e nessun soccorso può salvarlo dall'estrema rovina, apparisce la Vergine e sola lo salva: meno male se ci fosse della maestà nell'apparizione della Madonna:

Tu, cui sunt curae miseri sanctissima Virgo,
Ecce ades, et tantis eripis una malis.

Il solo ultimo verso sarebbe stato di non dubbia efficacia, ma al Poeta bisognava un esametro per completare il distico, non importa se l'esametro assassinerà tutto: ed ecco un esametro impiegato a non dir nulla, assolutamente nulla, che per inveterata tradizione non sia già racchiuso molto meglio nella sola parola Vergine: così la mente viene inopportunamente distratta dal concetto essenziale dal suono di parole che non hanno neppure il merito di dir qualche cosa.

Del dístico sull'immagine di Gesù Crocifisso non occorrerebbe neppure parlare: è cosa meschina.

Siste, dole, lacryma: nam quid lacrymare, dolere
Plus potes, hoc si non flere, dolere potes?

É una infelicissima parodia del Se non piangi di che pianger suoli: parodia che, intendiamoci, non fa neppur ridere la parodia ha un cappello a tre punte: Siste, dole, lacryma, e questo cappello discende forse anch'esso più o meno direttamente dal veni, vidi, vici, a cui somiglia in efficacia ed opportunità quanto il resto del distico al celebre verso Dantesco: cappello e corpo son qualche cosa di peggio che due goffe parodie, sono empie ed oscene: commoventi davvero queste lacrime versate in tre tempi e in tre movimenti, proprio come un esercizio ginnastico o militare. Indipendentemente poi dalla goffaggine della doppia parodia, ci sarebbe sempre da osservare che un distico di quel genere può adattarsi a qualsiasi spettacolo commovente, come occorre appunto di citare molto opportunamente il verso Dantesco assai volte nella vita, non soltanto innanzi all' immagine di Gesù Crocifisso.

È inesplicabile come il Rota, che pure è fin troppo meticoloso nell' imitazione Pontaniana, non abbia pensato, nell'esplicazione del sentimento religioso, neppur d'ispirarsi al suo consueto modello! Questa volta l'imitazione gli sarebbe giovata, giacchè, sebbene il sentimento religioso non sia troppo vivo nel Pontano, c' è almeno qualche cosa in quest'ultimo che può in certo modo supplire al sentimento, cioè l'abbondanza delle immagini spesso felici se non sempre opportune, che, se pur non riempiono il lettore di compunzione, non ingenerano almeno un sentimento quasi di reazione e di ripugnanza: nè il Rota nè il Pontano riescono ad assumere, anche lontanamente, non dirò la natura, ma neppur la parvenza di poeti religiosi: ma il Pontano si lascia leggere, riesce ad attirar la nostra attenzione, ad interessarci con lo splendore delle immagini siano pur più classiche che bibliche, con la magnificenza dello stile comunque

lontana dalla sublime austerità dello stile religioso cristiano, mentre il Rota somiglia pur troppo a un chiaccherone che, pur di occuparsi di un dato argomento, stiracchia, gira e rigira in tutte le più strane guise un concettuzzo meschino qualsiasi, preoccupato assai più di trovar delle sillabe onde comporre i datti e gii spondei che gli occorrono per metter fuori cinquanta distici, anzichè di dar veste opportuna a una qualsiasi idea.

X.

IMITAZIONE CLASSICA-SECENTISMO

E MARINISMO

Dopo avere esaminato particolarmente, comunque colla maggior parsimonia possibile, i varî generi di sentimenti esplicati nell'opera poetica del Rota, rimane finalmente ad esaminare le qualità generali della poesia di lui.

Delle qualità di qualunque scrittore, alcune sono comuni a tutti gli scrittori del tempo, sono cioè patrimonio spesso irrecusabile di tutti, altre sono speciali a ciascuno scrittore e lo differenziano, lo individualizzano tra i suoi contemporanei. Il Rota ebbe di comune cogli altri, d'indispensabilmente comune, l'imitazione classica, l'esuberanza della materia mitologica e quello spiccato gusto per l'antitesi e per le frasi appariscenti e per l'abbondanza esauriente dei particolari che preludiarono al seicento e specialmente al Marino.

Ma se il classicismo era il culto comune di tutti i cinquecentisti, ciascuno tributava pertanto un culto speciale all'uno o all'altro dei maggiori Numi di Grecia e di Roma, a seconda delle proprie simpatie e delle proprie tendenze. Il Rota si propose specialmente a modelli Virgilio e Ovidio da un canto, Catullo e Orazio dal

« ÖncekiDevam »