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della Vita Nuova era una donna che mangiava e beveva e vestia panni, non avrà da far altro, che per un poco considerare il seguente Sonetto, scritto da Dante nella sua adolescenza, e da lui indirizzato al suo primo amico Guido Cavalcanti:

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Guido, vorrei che tu e Lapo ed io

Fossimo presi per incantamento,

E messi ad un vascel, ch' ad ogni vento
Per mare andasse a voler vostro e mio;
Sicchè fortuna od altro tempo rio

Non ci potesse dare impedimento,
Anzi, vivendo sempre in un talento,
Di stare insieme crescesse il desio.
E monna Vanna e monna Bice poi,
Con quella ch'è sul numero del trenta,
Con noi ponesse buono incantatore;
E quivi ragionar sempre d' amore:
E ciascuna di lor fosse contenta,
Siccome io credo che sariamo noi.

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La Bice qui nominata è, come ognuno conosce, la Beatrice di Dante; Vanna, o Giovanna, era l'amorosa di Guido Cavalcanti; quella ch'è in sul numero del trenta, cioè quella che nel serventese in lode delle sessanta belle fiorentine cadeva in sul numero trenta (come la Beatrice, apprendiamo dalla Vita Nuova, cadeva in sul numero nove) era la donna di Lapo Gianni, la quale, se non erro, chiamavasi monna

1 La città ove nacque, visse e mori Beatrice, non essendo mai stata da Dante significata pel suo proprio nome, v' ha taluno che obietta non po teisi dir con certezza esser Firenze. Egli è vero che mai non l'ha nominata esplicitamente: ma quando egli ha detto d'aver tante volte incontrato la sua donna per via, nel tempio, nelle radunanze delle sue compagne ; quan d'egli ha detto che, nonostante i sofferti patimenti, non desiderava e nor cercava che di vederla, non ha egli detto implicitamente che Beatrice di morava nella stessa città, ove trovavasi egli, vale a dire in Firenze?

V'ha tal altro che dice, non potersi dir con certezza, il nome proprio dell'amata di Dante essere stato Beatrice, dappoichè questo vocabolo può significare donna che beatifica, che ne fa beati, e dappoichè l'accorciamento Bice, solo il quale converrebbe a donna vera e reale, non si trova pure una volta nelle rime di Dante. Dice benissimo costui, perchè l'accorciamento Bice, che si conviene a donna vera e reale, non si trova pure una volta, ma due: cioè nel sonetto qui sopra riportato: E monna Vanna e monna Bice poi, e nel sonetto lo mi senti' svegliar (duodecimo della Vita Nuova): Io vidi monna Vanna e monna Bice.

Lagia. Potrà egli mai il lettore supporre, che fra queste femmine fiorentine la sola Beatrice fosse una scienza od un simbolo, e che Dante volesse condurla seco a diporto, come nel Sonetto si esprime? Se tale invero fosse da dirsi colei, converrebbe dir tali, cioè simboli e scienze, anche le amanti di Guido e di Lapo, e così una grande stranezza condurrebbe ad un'altra maggiore, come di fatto ha condotto il Rossetti; il quale s'è dato affutto a credere che le donne de' nostri primi poeti siano tutte fantastiche e ideali, e che il linguaggio da essi tenuto sia un gergo convenzionale e furbesco della setta ghibellina o imperiale.

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Io non denego punto a questo moderno interpetre la lode di uomo dottissimo e assai studioso delle opere del divino poeta e degli altri nostri antichi scrittori: affermo anzi che molte cose pertinenti alla storia siano da esso state ben vedute, e ben dichiarate nella Divina Commedia, e presentate al lettore con un apparato imponente d' erudizione storica e filologica; nientedimeno quella effrenata intemperanza di novità, che lo ha portato a rinvenire un gergo settario in un linguaggio erotico-platonico, che al più potrà dirsi iperbolico, è ciò che non puossi consentire da chi non è timido amico del vero. Forte mi duole che ad un illustre figlio d'Italia, balestrato dalle fortune politiche nelle nebbie del settentrione, e tuttavia amantissimo

Di questa terra,

Che fuor di sè lo serra,

Vuota d'amore, e nuda di pietade, »

io sia costretto in questa disquisizion letteraria a dimostrarmi contrario: ma l'amore ch' io porto agli scritti ed alla fama di Dante mi chiede imperiosamente, ch' io dimostri l'insussistenza del sistema rossettiano; sistema che il forte e sublime linguaggio del poeta divino riduce a quello meschinissimo dei logogrifi e degli acrostici, e che, come il nordico fantastico miticismo, minaccia d'operare nella filologia e nella esegesi storica e letteraria una dannosissima e vergognosa rivoluzione. Della quale insussistenza se io qui non terrò lungo discorso, avvegnachè me lo riserbi a tempo e luogo più opportuno, darò per lo meno un cenno in ciò che possa aver relazione al libro della Vita Nuova.

Avevano i Ghibellini (dice il Rossetti 2) un gergo convenzionale, a tutti i più distinti lor personaggi comune, per mezzo

1 « La donna di Guido Cavalcanti era la stessa che quella di tutti gli altri allegorici rimatori. » ROSSETTI, vol. II, pag. 471.

Vol. II, pag. 351.

nuovo

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del quale fingendo parlar d' una cosa, parlavano d' un' altra, e così riuscivano a tener fra loro non interrotta comunicazione... Secondo cotesto gergo il Ghibellinismo fu detto Vita, ed il Guelfismo Morte: perciò Dante chiamò Vita Nuova il corso di sua vita politica, e Nascimento appelld l'istante in cui v' entrò. Altrove poi il Rossetti contradicendosi narra, 2 che Dante ancor giovinetto cantò rime d'amore, e fece una specie di romanzo sparso di prosa e di poesia, che intitolò la Vita Nuova, cioè il suo innamoramento, che diè quasi un nuovo corso alla sua vita. Senza ch' io mi diffonda a far rilevare minutamente la contradizione, in cui questo scrittore è caduto, dirò che il titolo Vita Nuova non altro suonando (siccome più sopra ho pienamente provato) che Vita giovanile, distrugge quel di lui supposto: che accenni un Nuovo corso di vita politica, cioè di vita ghibellina. E non ha egli il Rossetti d'altra parte veduto, oppur non ha voluto vedere, come quello ch'ei chiama nuova vita politica, e che io dico innamoramento dell' età giovanile, ebbe luogo (per quanto lo stesso autore in quest' istesso libro racconta) nella sua età d'anni nove? Qual conseguenza, secondo quel peregri no supposto, verrebbe da ciò? Che Dante fino ad oltre gli otto anni fu guelfo, e in sul compire de'nove si fe ghibellino!

Donna, o madonna (segue a dire il Rossetti ), chiamavano i Ghibellini la potestà imperiale, ed a questa ciascuno applicava un nome proprio, che, secondo la mente sua, avesse un qualche senso allegorico. Questa donna, cioè domina, era per conseguenza quella mente dominatrice, quella sapienza generale, per la quale la terra tutta regger si dovesse, concentrata in un sol uomo potentissimo, immagine di Dio regolator dell' universo. Quindi conseguita che la Beatrice di Dante è un vocabolo ideale e fittizio, da essolui immaginato per servire all' allegoria, e uniformarsi al gergo della fazione imperiale. Ma se cosiffatta è questa femmina, e perchè il Rossetti ci dice, che Dante fornito d'animo assai gentile fu sommamente inclinato all' amore, a cui dobbiamo i più grandi poeti; e che il suo primo affetto fu la fanciulla Beatrice Portinari, di cui s'invaghi prima ch' ancor di puerizia uscisse; e che la morte glie la rapi, ed ei la pianse amaramente? E perchè ci dice altrove, parlando della Commedia:

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1 Vol. II, pag. 355.

2 Nella Vita di Dante, pag. XXXVII.

8 Vol. 11, pag. 355.

Nel Commento alla Commedia e nello Spirito antipapale, passim.
Nella Vita di Dante, pag. XX.

lvi, pag. XXXI.

In questo viaggio misterioso Dante avea bisogno d' una guida: Virgilio era il suo autor prediletto; Beatrice fu l'adorata sua donna; e quindi chiamò l'uno e l'altra ad accompa gnarlo?

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Asserisce poi questo scrittore, e di frequente ripete, che la paura del papa e del guelfo partito, fu quella che ai Ghibellini fe rinvenire quel linguaggio convenzionale, furbesco e anfibologico, il quale non dovesse porsi in uso che dagl' iniziati ne' loro misteri, nè potesse essere inteso da' Guelfi loro nemici. Scopo di questa filosofico-poetica setta era quello di stabilire l'unità dell' Italia, e in un col reggimento civile riformare la disciplina ecclesiastica per il bene della patria loro e della umanità. Grande peraltro era la gelosia, con cui i segreti di questa setta venivano custoditi; ed a ragione: perciocchè trattavasi della vita. Donna, o madonna, chiamavan essi (com' ora ho notato) la potestà imperiale; vita il ghibellinismo, morte il guelfismo o papismo, salute l'imperaratore, Iddio l'impero ec. E spesso per significare le stesse cose usavano vocaboli equivalenti; e così a vita sostituivano cortesia da corte, perchè l' imperatore n'era il capo; a morte sostituivano pietà da pietas Religione, perchè regolatore ne era il papa. Amore poi, parola che offriva loro due proprietà, poichè tronca (Amor) invertesi e dice Roma, intera dividesi e dice Amo re, significava l'affetto per l'imperatore e l'impero. 3 Ond'è che questo moderno interprete non può tenersi dall' esclamare: Quanta e qual era la paura di Dante, che occhio profano non giungesse a leggere nell' anima sua il vero senso del suo amore, cioè del suo ghibellinismo! Della Morte ei trenava in doppio senso, e tutti di quella setta doveano avere lo stesso batticuore! Essi si vigilavano a vicenda con non interrotta sentinella, e misero chi si lasciasse fuggir dalle labbra un sol motto che potesse compromettere la pace di tutti gli altri! Non vi era per lui luogo di rifugio, e il solo suo silenzio eterno potea trarre gli altri d' affanno! *

Cotesti antichi poeti ghibellini erano dunque, secondo il Rossetti, paurosi cotanto della guelfa potenza, che a manifestarsi vicendevolmente i loro sentimenti, non aveano altro espediente, che quello d'un gergo composto di segni convenzionali ed arcani. Essi tremavano al solo nome di guelfo come i fanciulli al nome dell' orco, e guardinghi e diffidenti si spiavano l'un l'altro, paventando ognora i ceppi, i pugnali e i veleni, de' quali il Guelfismo servivasi contro i proprii avver

1 Vol. II, pag. 312.

2 Vol. II, pag. 405.

3 Vedi tutto il capitolo II del volume II, pag. 351 ed altrove.

Vol. II, pag. 412.

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sarii. Dante altresì, che era timido e pauroso sì come gli altri, dovè appigliarsi al partito di nascondere sotto i segni convenzionali della sua setta, e sotto frasi e maniere fatte a mosaico, i suoi liberi sensi tendenti alla civile e religiosa rigenerazione dell' Italia; perciocchè in quei semibarbari tempi nei quali egli visse, tempi di oppressioni e di vendette, avrebbe ben presto pagato a prezzo di sangue il fio di cotanta arditezza. Questa ragione a chi non avesse vedute le opere dell' Alighieri, nè conoscesse la storia del di lui secolo, potrebbe sembrare sodisfacente: ma qual è quegli, il quale, iniziato per alcun poco nella nostra letteratura, non sappia che Dante, fiero ed indomito per carattere, compiacendosi ne' patimenti siccome prove a dimostrar sua fortezza, e ne' proprii difetti siccome inevitabili seguaci a virtù tutte lontane dall' ordinario, non avea ritegno ad urtare uomini ed opinioni? Alcune delle sue canzoni, varie delle sue epistole, molti passi del Convito ed il Trattato della Monarchia non racchiudono forse alti, arditi e liberi sensi? Ma che dico? la Divina Commedia stessa, il capolavoro di Dante, è forse meno l'opera di una immensa dottrina, che di una bile generosa? In questo Poema particolarmente egli prende occasione di esalare tutta l'amarezza d'un cuore csulcerato. Il suo risentimento vi comparisce senza alcun velo; tutto ciò che l'ignoranza e la barbarie, gli odi civili e l'ambizione, l'ostinata rivalità del trono e dell' altare, una politica falsa e sanguinaria ebbero mai d'odioso e di detestabile, tutto entra nel piano che il Poeta si propose. Il colorito di questi differenti oggetti è sempre proporzionato alla loro natura, ed il pennello di Dante non comparisce mai tanto sublime, quanto allorchè tratteggia fieramente quegli orrori. Quale scrittore pertanto, o fra gli antichi o fra i moderni, svelando le turpitudini di tanta gente del suo secolo, ha osato senza alcun velame d' allegoria, e senza ricorrere ad un arcano linguaggio, parlar più forte e più libero di Dante? Per fare che i buoni imparassero a sperare (dice uno scrittore della vita di lui), e i tristi a temere, presentò loro un libro, ogni pagina del quale ha im. pressa in fronte questa sentenza: Discite justitiam moniti et non temnere Divos. Nell' eseguire si ardito disegno si determinò a parlar liberamente de' suoi contemporanei, e massime de' potenti, cagione delle comuni calamità e ne assegna per ragione quella stessa, per cui la tragedia si versa sempre sulle vicissitudini di uomini illustri, dal che vien detta tra

1 Lo dice e lo ripete cento volte nella Disamina del Sistema allegorico nello Spirito antipapale che produsse la kiforma.

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